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Archivio per il mese di Agosto 2007


venerdì 31 Agosto 2007, 12:20

Pantani

Ho comprato per caso, a Londra, un corposo libro sulla vita di Marco Pantani. Io, come saprete, sono un grande appassionato di ciclismo; ricordo perfettamente la sorpresa, l’esaltazione, la gioia per quelle due tappe di montagna del Giro 1994, in cui, da perfetto sconosciuto al secondo anno di professionismo, Pantani fece fuori tutti i rivali con una impresa incredibile. Ricordo anche la tristezza quando finì di autodistruggersi, nel febbraio di dieci anni dopo.

Il libro è molto interessante, molto ben scritto, pieno di dati e di prove come solo un libro di un giornalista inglese potrebbe essere; nulla di più distante dalla pletora di agiografie che sono uscite in Italia negli ultimi anni, spesso col solo scopo di far soldi. E’, comunque, un libro straziante e devastante al tempo stesso, perché è impietoso, e non nasconde nulla, finendo per fare a pezzi il mito di Pantani e con lui tutto il ciclismo. Per questo, sono abbastanza sicuro che non sarà tradotto in italiano.

Difatti, seguendo l’ordine cronologico degli eventi, la prima metà del libro racconta la crescita di Pantani: l’infanzia, l’adolescenza, i primi successi, l’esaltazione, la costruzione del mito. E poi, la seconda metà lo distrugge, esaminando cifra per cifra tutti i dati medici dei suoi processi, e poi descrivendo nel dettaglio e senza pudore (ma con pietà) i suoi ultimi due anni da cocainomane allo stadio terminale – le liti, i colpi di testa, le macchine e le camere sfasciate, le cattive compagnie, le richieste di aiuto e il rifiuto dell’aiuto stesso, come un tossico qualunque.

La tesi del libro è chiara e inconfutabile: Pantani è un fenomeno chimico, il cui uso sistematico dell’eritropoietina (EPO) per pompare le proprie prestazioni risale perlomeno alle sue prime vittorie da professionista nel 1994, se non alla carriera da dilettante.

Questo, peraltro, lo sapevamo o lo sospettavamo già: in questi anni, è emerso chiaramente che – grazie al fatto che fino al 2001 non si poteva distinguere l’uso di EPO artificiale, ma solo sospendere chi si ritrovava con l’ematocrito sopra il 50% – praticamente qualsiasi ciclista degli anni ’90 faceva abbondante uso di EPO; del resto, non sarebbe altrimenti fisicamente possibile percorrere le strade in bicicletta a quelle velocità, nemmeno a quelle dei gregari.

L’EPO, per chi non è pratico, è una sostanza che è presente naturalmente nel corpo, e che regola la produzione dei globuli rossi nel sangue; i globuli rossi sono quelli che trasportano l’ossigeno ai muscoli, e quindi rendono possibile lo sforzo fisico di resistenza senza accumulare acido lattico. Più globuli rossi ci sono nel sangue, più prolungato è lo sforzo che un atleta può fare. Quando negli anni ’80 l’industria farmaceutica riuscì a produrre EPO di sintesi, lo scopo era curare gli anemici; eppure, pare che a fine anni ’90 l’EPO fosse il terzo farmaco più venduto d’Italia.

L’ematocrito è la percentuale di globuli rossi nel sangue; ha un valore che, a seconda della persona, sta tra il 40 e il 50 per cento, variando abbastanza poco nel tempo. Più l’ematocrito sale, più il sangue diventa denso, quasi un gel; esso può portare più ossigeno, ma diventa più pesante, sovraccaricando il cuore, e creando seri rischi di infarto.

I ciclisti cominciarono a fare iniezioni di EPO, arrivando artificialmente anche al 60 per cento, per incrementare le prestazioni fino al 7-10 per cento, che su una gara di cinque ore vuol dire venti-trenta minuti in meno: distacchi impossibili da colmare, anche col talento. Non c’è limite ai rischi che un essere umano può prendersi pur di vincere, diventare famoso, guadagnare bene; o anche, ai rischi che un manager e un dottore possono far prendere a un ventenne con la terza media pur di vincere e guadagnare bene alle sue spalle. Certo, ci sono alcune controindicazioni; ad esempio, i ciclisti dormono di notte con un apparecchio che li sveglia se il battito cardiaco scende sotto una certa soglia, perchè a quel punto l’infarto sarebbe molto probabile; in tal caso, si alzano e – magari dopo sette ore di gara di giorno – fanno un’oretta di cyclette, non perchè si divertano, ma semplicemente per sciogliere il sangue e non morire.

Non potendo individuare l’EPO artificiale, i controlli si limitavano a sospendere i ciclisti con l’ematocrito troppo alto, ossia soggetti a rischio di infarto; per questo, i ciclisti – che spesso sapevano in anticipo dei controlli, e comunque avevano alcuni minuti di preavviso – si limitavano a diluirsi il sangue con una soluzione fisiologica subito prima del controllo, in modo da risultare momentaneamente sotto la soglia.

Nel caso di Pantani, sono raccontati un paio di episodi agghiaccianti: come quando, dopo il terribile incidente alla Milano-Torino del 1995 giù per le rampe di corso Chieri, al CTO gli trovarono un ematocrito del 60%, che però crollò nei giorni successivi, fino a scendere al 20% e ad indirizzarlo verso una probabile morte per anemia; ciò è spiegabile col fatto che, di fronte a massicce iniezioni di EPO artificiale, la produzione naturale di EPO si blocca, e se si interrompono le iniezioni ci mette comunque un paio di settimane a riprendere; per cui non si dovrebbe smettere di colpo, ma gradualmente. Pare, anche se non è provato, che Pantani si sia salvato dalla morte solo perché qualcuno si infilò nella sua camera di ospedale e ricominciò a bombarlo di EPO di nascosto.

Quando poi nel 1999, alla fine di un Giro già vinto, lo beccarono, lui parlò di complotti; si portò avanti per sempre l’idea di essere una vittima, e la trasmise alle legioni dei suoi fan. Certamente non pensava di farsi beccare; certamente il modo da cannibale in cui vinceva, senza lasciare niente a nessuno, non piaceva al resto del gruppo; certamente, molti furono contenti quando lasciò la corsa. Insomma, che Pantani fosse effettivamente ben sopra il limite è certo, ma c’è comunque la possibilità che il complotto – non per incastrarlo artificiosamente, ma per farlo beccare – ci sia davvero stato, anche se ci sono altrettante possibilità che sia stato tutto solo un caso, che Pantani ha interpretato in modo vittimistico.

Per esempio, una delle tesi suggerite dal libro è che, come risulta dalle cronache, i medici deputati al prelievo di sangue si siano presentati oltre un’ora dopo quella prevista; in questo caso, anche se ci si è diluiti il sangue, l’organismo ha già cominciato a smaltire l’acqua in eccesso, e l’ematocrito è già risalito un po’. Oppure, si dice che il medico della squadra fosse sparito dopo una notte brava, e non fosse lì a fare la flebo di soluzione quando sarebbe servita. E’ ragionevole pensare che comunque il 53% rilevato dal controllo, pur sufficiente a sospenderlo, fosse decisamente meno di quanto Pantani avesse nel sangue fino alla sera prima.

Il problema, però, è che stando alla ricostruzione del libro Pantani aveva una personalità che conosco fin troppo bene: nell’adolescenza, preso tra una madre iperprotettiva e un padre poco presente, isolato a scuola per il suo buffo aspetto, aveva trovato nella solitudine del ciclismo la sua strada vincente, abbracciandola in modo ossessivo. Nella ricostruzione, Pantani appare come il più grande nerd che il ciclismo abbia mai avuto, sempre solo, sempre chiuso nel suo mondo interiore, concentrato sulla necessità di vincere sempre e comunque per compensare la mancanza di autostima, e incapace di costruire relazioni profonde con gli amici e a maggior ragione con le donne. Lo psicologo che lo visitò all’inizio della fine diagnosticò seri disturbi di personalità, di tipo narcisistico, dipendente, paranoico e ossessivo.

Non stupisce quindi che, da buon narcisista e quindi egocentrico, abbia preso la squalifica di Campiglio come un complotto ai propri danni, così come gli incidenti e le cadute e gli altri episodi di sfortuna che costellarono la sua carriera. Non stupisce nemmeno che, pochi giorni dopo quella squalifica, abbia cominciato con la cocaina, e ne sia diventato progressivamente schiavo, aiutato dal fatto di avere soldi infiniti e un sacco di persone accomodanti attorno. Purtroppo, non si può da questo concludere che Pantani sia stato distrutto dal mondo del ciclismo; ha sicuramente pagato più di altri una pratica che facevano tutti, ma il modo autodistruttivo in cui ha reagito è stata una conseguenza della sua personalità, non certo un destino ineluttabile.

In più, la cosa è stata peggiorata da quanti hanno insistito per continuare a farlo correre, anche quando chiaramente non era più competitivo, fino a pochi mesi prima della morte; le persone attorno a lui, sostenendo che farlo correre era un modo per tenerlo lontano dalla droga, hanno continuato a guadagnare, ma lui, mangiando la polvere degli altri, ha perso l’armatura che teneva in piedi la sua autostima; e senza autostima si muore per autodistruzione.

Qual è la morale di questa storia? Chiunque guardi il ciclismo sa perfettamente che tutti gli atleti moderni, chi più chi meno, sono dopati come e più dei cavalli, certamente in questo sport, probabilmente in tutti gli altri (è normale che un calciatore di ventidue anni, di una squadra minore che è diventata incredibilmente vincente in due anni, muoia di un “imprevedibile” infarto?). Finora, però, ero riuscito a confinare questo pensiero in un angolo del cervello, a considerarlo un male da combattere, ma che non offuscava la bellezza incredibile di questo sport. In fondo, se tutti si dopano, alla fine sono tutti alla pari, no? Anche quelli tra i fan di Pantani che riconoscono il suo doping hanno sempre ragionato così: Pantani era un fenomeno, un ciclista campione che si sottoponeva a “normali” pratiche di doping. Se il doping non fosse esistito, avrebbe vinto non di cinque minuti, ma di mezz’ora.

Purtroppo, il libro fa notare (con tanto di puntatore ad articolo scientifico di supporto) una verità triste ma ovvia: che in uno sport in cui sono tutti dopati non vince chi è geneticamente e mentalmente più portato per quello sport, ma chi geneticamente e mentalmente reagisce meglio alle terapie di doping. In altre parole, Pantani forse non era un ciclista campione che si sottoponeva a un normale doping, ma un ciclista normale che si sottoponeva a doping da campioni, probabilmente in modo ossessivo, esagerato e rischiosissimo come le sue famose discese.

Questo dubbio, purtroppo, non lo risolveremo mai: Pantani era veramente un campione o no? La sua storia da giovane è comunque piena di dimostrazioni di talento eccezionale; la bici era il suo destino. Certamente il suo bisogno di vincere a qualsiasi costo non era arrogante e cattivo, ma disperato ed essenziale. Certamente, la storia di Pantani è una storia molto triste, di una persona che ha avuto dalla vita premi eccezionali, senza mai essere felice; e li ha pagati a carissimo prezzo.

Forse possiamo concludere che Pantani è campione nel rappresentare quanto è marcio lo sport moderno, in cui gli sportivi sono le prime vittime, circensi pagati per farci divertire a qualsiasi costo, anche a quello della loro vita. Le immagini straordinarie delle imprese di Pantani restano nei miei occhi, ma come quelle di un fantasma; nonostante la fatica immane che sono comunque costate, non erano reali, ma soltanto show-business. Come Pantani, esistono dieci, venti, forse più, ciclisti morti d’infarto o di droga negli ultimi anni, a meno di quarant’anni di età, senza nemmeno l’onore delle telecamere. Il modo giusto di onorarli sarebbe quello di spezzare l’omertà, e di smettere finalmente di doparsi, tutti.

Peccato che gli ex colleghi di Pantani, dopati come lui, siano i nuovi dirigenti del ciclismo attuale.

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venerdì 31 Agosto 2007, 10:12

Comunicazioni di servizio

Non è ancora ufficiale, ma oggi pomeriggio alle 14:15, alla Sisport di corso Unione Sovietica, presentazione alla stampa del nuovo acquisto (prestito, per la verità) del Toro, Alvaro Recoba. Giocherà con la maglia numero 4. A partire dalle 15:40 porte aperte a tutti per assistere all’allenamento.

Va detto (a quelli che non volevano cambiare allenatore) che Recoba è venuto al Toro essenzialmente per i buoni rapporti personali e la credibilità indiscussa del nuovo allenatore Novellino. Un po’ come Balestri con De Biasi

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giovedì 30 Agosto 2007, 12:07

Matrimoni

Io non riesco a capire perché uno, soltanto per essere parente dello sposo, debba venire:

  • Mobbato dai parenti per due mesi sulla necessità che il vestito sfoggiato per l’occasione sia assolutamente nuovo;
  • Portato a forza all’acquisto del suddetto vestito proprio il pomeriggio in cui c’è Toro-Rimini di Coppa Italia alle 18;
  • Trattenuto per oltre un’ora a provare ogni diversa sfumatura di taglio, colore e tessuto che si possa immaginare;
  • Trattenuto per un’altra ora per trovare tutti gli accessori necessari ad andar bene col vestito scelto;
  • Deprivato di oltre seicento euro del proprio patrimonio;
  • E infine, come se non bastasse, intimato di lavare la macchina prima dell’occasione (no dico, la mia macchina!)

Sono stato peraltro gentile: a cena davanti alla futura «non so la parola per indicare la moglie dei fratelli e speravo di non doverla mai imparare», mi sono trattenuto dal riferire il messaggio che almeno due diversi amici di famiglia sulla quaranta-cinquantina mi hanno vivamente invitato a propagare, che conteneva in vari punti le parole “cretino”, “ne riparliamo tra cinque anni”, e “pagherai alimenti tutta la vita”.

Comunque viva gli sposi, eh!

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mercoledì 29 Agosto 2007, 11:11

La Cina impara da Microsoft

La Cina ha detto basta: basta con quella immagine fredda e grigia di biechi censori! La censura è divertente come qualsiasi altra attività su Internet! E così, come qui raccontato, prossimamente i principali portali cinesi saranno costretti ad inserire un censorino animato, modellato sul famoso Clippy di Office, che comparirà sul monitor quando meno te lo aspetti, e ti offrirà aiuto per sapere quali informazioni non è opportuno che tu legga, o come denunciare il tuo vicino di casa che usa Tor, o se il vicino che hai denunciato la settimana prima è già stato fucilato. Il tutto con una accattivante grafica a fumetti, proprio sul tuo sito preferito!

Speriamo che non lo scopra Gentiloni, se no ogni volta che apriremo un sito porno – che so, Panorama – comparirà in sovraimpressione un appuntato dei carabinieri, che in burocratese stretto ci inviterà ad essere più rispettosi della morale di Stato…

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martedì 28 Agosto 2007, 13:17

C’è amore in città

Ieri ho aperto il forum di Forzatoro, e ho subito notato un thread intitolato “Grandissima t…”; conoscendo l’ambiente, pur senza sapere nulla di nulla, ho indovinato immediatamente a chi si riferissero!

Aprendo il thread, ho avuto conferma della mia intuizione: una nota signora gobba della classe dirigente torinese, in puro stile Juventus, si è sentita in dovere di rilasciare a Repubblica una intervista piena di apprezzamenti verso il Toro – che, per carità, sono il genere di cose che ci si dice reciprocamente al bar o sui blog, ma forse su un quotidiano, da persone con ruoli di massima dirigenza dello sport italiano, non sono troppo appropriate. Del resto, anche Cairo si è distinto in passato per sfottò pubblici di ben dubbio gusto, che nascondono l’insofferenza reciproca e la guerra di potere (vera) tra l’alessandrino-milanese di scuola berlusconiana e la cupola torinese cresciuta all’ombra degli Agnelli.

Ciò detto, il thread suddetto si è rivelato pieno zeppo di insulti assolutamente creativi verso la suddetta signora, dai quali naturalmente mi dissocio, nonché delle solite storie che girano in città da anni, totalmente malevole e infondate, secondo cui la signora e il suo consorte avrebbero fatto carriera soltanto in quanto lei sarebbe stata la “migliore amica” del fu padrone della Fiat. E’ veramente disgustoso che una persona per bene, solo per aver sfottuto la prima squadra di Torino, venga sommersa di post e di mail che la definiscono “Cocainomane per osmosi da flauti suonati”!

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lunedì 27 Agosto 2007, 14:18

Formerly known as

Giunto a casa dopo un weekend senza collegamento, apro la posta e trovo un messaggio che inizia così:

Hi Vittorio,

It’s Sara and Greg (formerly known as Zeus) from the Active NZ tour!

I tizi me li ricordo, erano due simpatici americani di mezza età, di Seattle se non erro, che erano con me nel giro della Nuova Zelanda un anno e mezzo fa. Lei faceva l’infermiera, e lui era un signore che non solo si chiamava Zeus, ma aveva il fisico del ruolo, minuto e magro, ma con una grande barba grigia. Peraltro, quando ci hanno dato la bici per scalare il Divide, io ho staccato facilmente i ragazzotti palestrati di Miami, ma nel frattempo lui è partito e me ne ha dato altrettanto…

Ora, capisco che Zeus fosse un nome ingombrante, ma sono sempre stupito di come gli americani considerino i nomi come una stringa di caratteri definibile e modificabile a piacimento. Sono piuttosto curioso di scoprire cosa possa spingere uno Zeus a diventare Greg!

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domenica 26 Agosto 2007, 09:49

Los Angeles (4)

(Segue dalla terza puntata…)

Comunque, l’esperienza migliore l’ho fatta decidendo di fare qualcosa che i miei contatti locali hanno descritto come “follia”: trasferirmi da Hollywood a Marina del Rey – la sede di ICANN, sul mare vicino a Santa Monica, a una trentina di chilometri dal centro – con i mezzi pubblici, portandomi dietro valigia, computer e tutto il resto.

Si inizia bene, prendendo la linea rossa della metro, che è una vera metropolitana, con treni veloci – anche se radi, uno ogni 10-12 minuti – e tutta in galleria. Arrivati in centro, si passa sulla linea blu, che va meno bene: in pratica, è un tram che collega il centro con Long Beach, quaranta chilometri più a sud. In galleria c’è solo il capolinea; dopodichè, il tram percorre sferragliando le vie alla periferia meridionale del centro, fermandosi bellamente ai semafori. La cosa migliora un po’ quando, dopo un quarto d’ora, si gira su Long Beach Avenue, dove il tram percorre una vecchia ferrovia, sempre a raso, ma con un’ampia sede dedicata a centro strada, e precedenza sulle vie laterali. Poi, dopo un po’ di fermate, improvvisamente la ferrovia si alza, e passa su un altissimo cavalcavia. Proprio lì, nel mezzo dell’aria, si ferma, e quella è la fermata di Slauson Avenue: la mia.

Esco, e immediatamente penso: sono nei guai. Difatti, mentre il tram si allontana sferragliando, io mi guardo attorno e vedo un panorama talmente lunare che non mi sono osato tirar fuori la macchina fotografica per immortalarlo. Intorno, guardando nella piana di South Los Angeles per chilometri, non c’è un albero o un filo d’erba: soltanto terra polverosa, come in mezzo a un deserto. Sotto di me, passa una via trafficata, oltre la quale, parallela ad essa, si stende una vecchia ferrovia arrugginita, a raso, che sembra abbandonata. La traversa più vicina è a un duecento metri – c’è anche la freccia, perchè le fermate degli autobus sono là. Intorno, ci sono antiche fabbriche cadenti, magazzini di vario genere, casupole misere, vecchie auto sfondate e lasciate là a morire. Cammino fino all’incrocio, attraverso, e trovo la fermata del bus 108. E’ un palo, piantato nella sabbia sul ciglio impolverato della strada. Per aspettare, ci si può sedere sui vecchi binari, evitando il riporto dei camion. Nello spiazzo dietro di me, un vecchio messicano spinge un carrello pieno di ferraglia, mentre, davanti a una vecchia roulotte con cartelli soltanto in spagnolo, tre signori chiacchierano seduti sulle sedie da campeggio. Puro Quentin Tarantino, ma ci sono proprio in mezzo.

E sono nei guai anche per un altro motivo: ecco, a me piace fare i miei piani e seguirli. Il bus 108 percorre tutta la Slauson Avenue, una trentina di chilometri da est a ovest fino al mare e ritorno, passando circa una volta ogni quarto d’ora. Tuttavia, solo un autobus su quattro va fino a Marina del Rey, posto fighetto dove l’idea di prendere i mezzi pubblici viene solo a qualche cameriera messicana. Stando al pidieffone dell’orario sul sito, c’era un 108 per Marina del Rey entro un quarto d’ora dal mio arrivo. Però, stando al trip planner, non ce ne sarebbero stati per un paio d’ore.

Potete quindi capire il mio sollievo quando dopo una attesa guardinga, passata a controllare i messicani alle mie spalle, ho visto emergere dal riverbero caldo sull’asfalto lontano uno scassone con il numero 108 e la scritta Marina del Rey. E vai! Salgo e allungo il dollaro e venticinque: come vi dissi, qui i trasporti pubblici sono gestiti da innumerevoli compagnie private, per cui non esiste il concetto di biglietto a tempo: si ripaga ogni volta che si sale su un mezzo.

Il pullman è scassato, ma mi sorprenderà in positivo per due cose. La prima, è una piattaforma automatica per invalidi che si apre su richiesta, e tira su la carrozzina per la porta davanti: un vecchio meticcio in carrozzina riesce a prendere l’autobus completamente da solo. La seconda, è uno schermo LCD che riporta in un angolo la mappina satellitare di Windows Live, con la posizione del pullman, per capire a che punto sei dell’infinita avenue; nel grosso dello schermo scorre pubblicità, è per quello che può esistere.

Il viaggio è affascinante. All’inizio, sono l’unico non messicano; dopo un quarto d’ora, mi accorgo di essere diventato l’unico bianco. La zona è povera, sempre caratterizzata da vecchie fabbriche e magazzini di cianfrusaglie, con la ferrovia ad affiancarle tutte; a un certo punto scopro che non è abbandonata, c’è addirittura un vagone merci rugginoso che deve avere sessant’anni, e che arranca da solo, più lento di noi, attraversando le traverse ad ogni incrocio. Insomma, degrado totale; di notte deve essere certamente parecchio pericolosa. Me ne accorgo perché ho già visto, in Argentina o in Sud Africa, interi quartieri borghesi recintati dal filo spinato, e protetti dalle guardie all’ingresso. Ma non avevo mai visto, come qui, casupole cadenti, poverissime, quasi baracche, però circondate da lamiere e filo spinato. Ho come il sospetto che qui anche due dollari siano una ricchezza, e che ci si ammazzi per niente.

Poi, dopo quasi mezz’ora, finalmente lo scenario cambia: la ferrovia gira e sparisce nei meandri, e cominciano a comparire casette più dignitose, e anche qualche filo d’erba. Poi, di colpo, la strada sale; le case si fanno belline, curate, nuove, con il prato davanti, e agli angoli riappaiono negozi e servizi. Dopo questa collina c’è un parco, e lì vedo un’altra cosa che non mi aspettavo: in un angolo, ben cintate, tre pompe di petrolio, di quelle antiche, a becco, che vanno su e giù, perfettamente in funzione.

Dopo un po’, sono in una zona decisamente borghese: Fox Hills, dove l’autobus gira e si infila per viali alberati affiancati da condomini carini e da gente che fa jogging. Il pullman ormai è vuoto, a parte una enorme signora nera che prende il bus con l’abbonamento per fare un tragitto che, a piedi, sarebbe di cento metri scarsi: signora, un po’ di moto le farebbe bene. A questo punto sale un ragazzo bianco in tuta da ginnastica, con l’iPod: sono definitivamente nella civiltà, ma lui mi fa l’effetto di un alieno. Chiede se l’autobus va veramente a Marina del Rey, che non l’ha mai preso in vita sua. Gli si sarà rotta la macchina.

Dopo un’ora di bus, ci siamo; anticipo la fermata con precisione, tiro la corda che si usa per segnalare, scendo, a venti metri dal portone del palazzone in cui sta ICANN, sulla passeggiata davanti al porto. Dopo il mio meeting, avrò anche un’oretta per passeggiare e vedere questo enorme porto turistico, pieno di barche e yacht, di ristorantini di mare e finti villaggetti di pescatori per i turisti. Un altro pianeta. Ma, per due dollari e cinquanta, il mio giro di due ore sui mezzi pubblici di Los Angeles, con vista sulla vita, è stato il miglior investimento dell’estate.

E mi ha fatto anche un po’ ricredere su questa città, dove non c’è niente da vedere, ma molto da sperimentare. Sono contento di esserci stato.

(Fine!)

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sabato 25 Agosto 2007, 10:37

Los Angeles (3)

(Segue dalla seconda puntata…)

Come dicevo, l’unica parte un po’ interessante di Downtown Los Angeles è il centro antico, all’angolo tra Main Street e l’autostrada 101 (qui le autostrade le costruiscono scavando al posto dei vecchi corsi, un po’ come se per fare la Torino-Milano avessero cominciato abbattendo le case per trasformare via Roma in un trincerone a otto corsie: mica vorrai farti i semafori per arrivare in centro dalla tangenziale?). Sorprendentemente, ci sono alcuni edifici di inizio Ottocento, quando Los Angeles era messicana, e la originale missione dei frati francescani che fondarono il posto come El Pueblo de Nuestra Senora La Reina de Los Angeles del Rìo Porciuncula (quello di Assisi); abbreviato L.A., va per la maggior contrazione toponomastica della storia. Soprattutto, qui è pieno di messicani e finalmente ci si sente un po’ a casa, anche se a fianco della missione c’è un parcheggio (ma ci sono parcheggi ovunque: l’idea è che in un isolato si fanno case e in quello a fianco si fa un parcheggio sopraelevato a pagamento).

C’è una bella piazza, e c’è Olvera Street, un mercatino pieno di bancarelle di chincaglierie messicane fatte in Cina. E c’è la Union Station, la stazione dei treni, uno dei peggiori investimenti pubblici della storia americana – fu costruita nel 1939, dal 1940 cominciarono a smantellare le ferrovie e sostituirle con auto, bus e aerei. E’ grandiosa, scura e austera all’interno, allagata dal sole nei chiostri e nei cortili esterni; è ancora usata, ma solo in parte, per i pochi treni rimasti, e per farla fruttare un po’ ci hanno persino girato Blade Runner (la sede della polizia). Certo, prima di capire dove si prende la metro e dove si comprano i biglietti ci vorrà un po’, perché ogni servizio pubblico è gestito da una azienda separata, e il concetto di integrazione è inesistente. Ma vale la pena arrivare fin qui.

A questo punto dovreste aver capito che, a differenza delle città a cui siamo abituati, a Los Angeles non ci sono zone storiche da vedere, e zone non storiche da ignorare; il punto della visita è l’esperienza di vita. Per questo sono stato ben contento, quando pagavo io, di spostarmi in un motel: un classico Travelodge, che è il tipico albergo degli americani medi, per affari o per vacanza che sia. A parte Las Vegas, solo i ricchi vanno negli alberghi “all’europea”; gli altri si muovono in auto e usano i motel.

I Travelodge sono tutti uguali da un capo all’altro dell’America: c’è un ingresso dalla strada, vicino alla reception, che controlla cosa succede; poi c’è una specie di lunga casa di ringhiera su due piani, a L, che dà sul cortile interno, che è un parcheggio a pettine. Se siete al pianterreno, potete parcheggiare col muso a mezzo metro dalla porta della camera: difatti le camere danno sul passaggio coperto a pianterreno, o sul balcone al primo piano. Ogni camera ha un bel letto matrimoniale, un televisore con la TV via cavo, un frigo vuoto per le vostre cose, un forno a microonde, un vecchio condizionatore elettrico, una cassaforte, un ripostiglio, e un bagno più che discreto, che di solito funziona bene. In mezzo al parcheggio, c’è anche una piscinetta, nemmeno troppo piccola (non fosse che di solito è monopolizzata da qualche famigliola). Insomma, ci si può vivere per una settimana con vari comfort, e in occasioni passate il forno a microonde mi venne piuttosto utile per risparmiare sui pasti.

Qui io ho dormito per 95 dollari a notte tasse incluse, che per un motel è tanto, ma per un albergo di Los Angeles a “due fermate della metro” sia da Downtown che da Hollywood non è molto. In più, esso stava di fronte alla fermata della metro di Sunset/Vermont, abbastanza vicino alle uscite dell’autostrada, in una zona con vari servizi: tre o quattro fast food tra cui un simil-Starbucks, un paio di benzinai con negozietto di cibarie aperto 24 ore su 24, un bank-in – cioè un bancomat che funziona come un drive-in, senza scendere dall’auto; sembra ridicolo, ma lo rivalutate parecchio se dovete prelevare col buio… e capite nel contempo perchè la Focus americana abbia un dispositivo che abbassa automaticamente la sicura delle porte dopo dieci secondi che la guidate – e poi, un paio di ospedali – tra cui il già citato Ospedale Infantile Haim Saban – e la sede mondiale della chiesa di Scientology, caso mai abbiate una crisi esistenziale nel cuore della notte.

Del resto, in America le città vanno a zone. Può capitarvi come a me, di essere a Hollywood, dover riconsegnare a breve l’auto nell’ufficio Avis del centro città, e nel contempo aver finito i contanti. La periferia di Hollywood, però, è una zona di casette, quindi niente banche, ma un sacco di negozi, e di benzinai. Alla fine, dopo venti minuti, trovate una banca e prelevate, ma siete già quasi in centro. Così andate fino all’ufficio di noleggio, sperando di trovare un benzinaio in centro per fare l’obbligatorio pieno prima di riconsegnare l’auto. Sperate male: perché il terreno in centro serve per i grattacieli, e non ho visto un singolo benzinaio in tutta la zona. I benzinai sono rigorosamente collocati fuori dal centro e sulle avenue più frequentate, meglio se all’incrocio di due di loro; e così dovrete uscire fuori lungo Wilshire per un paio di chilometri, per trovarne uno.

Peraltro, i problemi di muoversi in un ambiente sconosciuto non si limitano al cercare banche in un quartiere di benzinai, e poi benzinai in un quartiere di banche. Fare benzina non è così facile: perchè in America nessuno mai si fiderebbe a lasciarti fare ciò che fai qui, cioè prima mettere benzina e poi andare a pagare (e nemmeno si fiderebbe a metterti benzina lui, almeno nelle città). Tutti i benzinai sono self-serve, pre-pay: metti la macchina davanti alla pompa, scendi, lasci una certa cifra alla cassa, che ti autorizza a far benzina per quell’importo. Torni alla pompa, metti la benzina, e se ne hai avanzata torni indietro a farti dare il resto. Poi, può succederti come a me, di aver messo la macchina con il serbatoio dal lato sbagliato, contando sull’estensibilità della pompa, e di scoprire che in America le pompe non sono estensibili; e così, devi improvvisare una inversione in mezzo al piazzale pieno di gente, mentre un coreano cerca di fregarti il posto e tendenzialmente anche la benzina che hai già pagato. E’ appena normale che, in tutto questo, tu faccia la manovra col serbatoio aperto e il tappo penzolante!

(continua…)

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venerdì 24 Agosto 2007, 20:37

Los Angeles (2)

(segue dalla prima puntata…)

Mulholland Drive è la strada che si snoda, in modo estremamente tortuoso, proprio sul crinale delle colline che separano Los Angeles dalla Los Angeles aggiuntiva che si è sviluppata sull’altro lato, che comprende posti come Van Nuys, Glendale e Burbank, oltre agli Universal Studios. E’ giustamente famosa non solo come posto per imboscarsi, ma anche perché la vista è magnifica, e la guida sarebbe divertente se non ci fosse di mezzo il cambio automatico. Il cinema l’ha sfruttata ampiamente per queste sue caratteristiche: del resto, sarebbe difficile ambientare un incidente stradale minimamente pittoresco in qualsiasi altro posto di Los Angeles, visto che il resto è costituito da stradoni larghi e dritti con un semaforo ogni duecento metri.

Lungo il percorso, si attraversano le più alte e remote delle villazze, perchè tutto il versante a sud è occupato dalle ville degli straricchi, e tappezzato di cartelli che invitano a non passare di lì, che sparano a vista (metaforicamente, si spera). Ci si può fermare ogni tanto a fare foto, schivando i cartelli che intimano di non mettersi lì. Insomma, un ambiente dove ti senti benvenuto… Però è davvero un bel giro.

Arrivati al passo Cuenahoga, occupato in forze dall’autostrada 101, potete persino, come ho fatto io, provare l’inseguimento alla scritta HOLLYWOOD. Già, perchè la famosa scritta sulla collina, nonostante tutte le immagini che avete visto, non solo è chiusa e guardata dai cani, ma è anche a parecchi chilometri dal mondo civilizzato (ve l’avevo detto che tutto è molto più lontano di quello che sembra…). Io sono riuscito ad arrivarci piuttosto vicino solo col mio fiuto per l’orientamento, per cui annoto le indicazioni: percorrendo il passo verso nord sul Cahuenga Boulevard, potete infilarvi nelle villette di Hollycrest come ho fatto io, anche se sparano a vista; oppure potete prendere il Barnham Boulevard. In entrambi i casi, dopo un po’ incrocerete sulla destra Hollywood Lake Drive; salendo di lì, si incrocia Wonder View Drive (nomen omen) e poi si piega a destra verso il lago Hollywood, che è in realtà un enorme bacino artificiale.

A questo punto siete veramente nella terra di nessuno, fuori dalle villette; ci sono solo il sole, il lago e qualche jogger solitario. Imboccate Montlake Drive lasciando il lago sulla destra, e dopo un po’ di curve vi apparirà la Scritta. Andando ancora avanti, entrerete in un’altra zona di villette per Tahoe Drive, fino alla sua fine; quello è uno dei punti più vicini. Proseguendo a destra, si sale e si finisce in Mulholland Highway, che è una strada strettissima: siete arrivati proprio in mezzo alla famosa lottizzazione per cui la Scritta fu creata. Le strade e le case sono quasi interamente di inizio secolo: ve le raccomando. Potete comunque scendere per la ripida Ledgewood Drive, che poi confluisce in Beachwood Drive, che sarebbe l’arteria principale di questo quartiere augusto, collinare ed esclusivissimo. Vi stupirà per quanto tempo dovrete guidare prima di sbucare sulla Franklin Avenue in un incrocio totalmente anonimo – mai direste che quella è la svolta per un quartiere tanto grande e ricco.

Ecco, questo è ciò che vale la pena veramente di fare, a Los Angeles. Ve lo dico perché, in compenso, Hollywood vera e propria è un pacco clamoroso: in pratica, si riduce a un solo isolato di Hollywood Boulevard, quello col centro commerciale, la fermata della metro (Hollywood/Highland) e il famoso cinema orientaleggiante, il Mann’s Chinese Theatre. Lì è dove mettono il tappeto rosso e fanno le riprese in televisione: anche quando sono passato io, c’era la prima di tal film Superbad – dagli autori di Quarant’anni vergine – con due sconosciuti in mezzo ai flash, e centinaia di persone in delirio. Ma in delirio perché?

Attorno a quello, il resto di Hollywood – gli isolati con le stelle sul marciapiede, che viste da vicino sono solo simpatiche decorazioni da marciapiede e anche un’idea un po’ cheap, adesso piazziamo i nomi dei compositori classici davanti al Regio e diventiamo la capitale della lirica? – sono edifici cadenti e pieni solo di negozi di chincaglieria per turisti. Basta girare l’angolo per ritrovarsi nel solito mare di casette, negozietti e fast-food col drive in.

Il centro non è tanto meglio: esso si divide in tre parti. Quella più meridionale, attorno alla settima strada, è piena di centri commerciali, alberghi storici e grattacieli di banche; non è male, ma è come la zona degli affari di qualsiasi altra città americana, cioè uno scimmiottare Manhattan. Bella la salita sulla collinetta di Bunker Hill, con il piccolo museo Wells Fargo, da cui si sbuca sul Museo d’Arte Contemporanea (pensavo che Isozaki fosse sopravvalutato, ma dopo aver visto questo suo edificio – indistinguibile dai palazzi dove abito – mi chiedo se sia veramente un architetto famoso) e sulla nuovissima Walt Disney Concert Hall, del cui andamento a nastri metallici certamente avete già visto milioni di foto.

Quella subito più a nord, invece, è la zona dei palazzi pubblici: il peggio del peggio. E’ come Bucarest, moltiplicata dieci volte in dimensione. Squallida uguale, tronfia uguale, sporca uguale, e piena di barboni uguale (anche se i barboni a Los Angeles sono ovunque, persino sull’elegante passeggiata a mare di Santa Monica). Ci sono persino i fregi a mosaico in stile Alexanderplatz.

A margine, c’è Little Tokyo. Che è una fregatura: sono due isolati, di cui uno nel parcheggio di un hotel. Vero, ci sono negozi giapponesi veri, con scritte giapponesi e persino le guide telefoniche in giapponese. Ma il cosiddetto “villaggio giapponese” è un fintume commerciale per turisti. Stessa cosa Chinatown: in realtà non c’è, perchè la rasero al suolo negli anni ’30 per farci la stazione. Poi si son resi conto che non era gentile e che ai turisti piacciono le Chinatown, e allora hanno costruito una impalcatura di tubi su una strada a mo’ di portale, e hanno detto “questa è la nostra Chinatown”.

L’unica parte del centro che merita veramente è quella messicana, di cui vi parlerò domani!

(continua…)

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venerdì 24 Agosto 2007, 16:21

Carabinieeriiii…

Oggi dovevo fare una denuncia: quindici mesi fa ho perso un paio di chiavi della macchina (la denuncia serve perché siamo in Italia, e la ditta di noleggio e il meccanico vogliono pararsi il sedere in caso di successivi casini). Così, ho deciso di vedere se c’erano un commissariato o una stazione dei Carabinieri comodi per il giro di commissioni che dovevo fare.

Sul sito della Polizia, è facile: c’è un bel link Dove siamo proprio nella testata, che porta a un modulo di ricerca, che presenta una mappa interattiva (non è quella di Google ma funziona decentemente).

Sul sito dei Carabinieri, invece… niente. Ci sono, in bella evidenza, i comunicati stampa, le gare d’appalto, persino Giochi e Download, per non parlare della leggendaria rivista Il Carabiniere, ben nota a tutti i conoscitori dell’arma. C’è un link a una misteriosa “Stazione CC Web”, che poi sarebbe una animazione 3D con una carabinieressa virtuale che sembra un incrocio tra Lara Croft e Mary Poppins. Ma la posizione delle caserme – che, a naso, mi sembra la cosa più frequente che uno vorrebbe sapere dai Carabinieri – non c’è. O meglio, c’è, se schiacciate su Informazioni, poi scrollate di un paio di paginate, e trovate Dove siamo. Ben nascosto. Si sa mai, magari così la gente va dalla concorrenza e noi abbiamo meno lavoro da smaltire.

Devo comunque aggiungere la mia solidarietà al poliziotto che ha infine raccolto la mia denuncia al commissariato di Polizia di Madonna di Campagna (proprio sotto la sopraelevata). Certo, l’inizio è stato un po’ kafkiano, con una freccia sul portone principale che dice “l’ufficio amministrativo è nel palazzo successivo”, e poi un cartello sul portone dell’ufficio amministrativo che dice “però le denunce si raccolgono in corso Grosseto 283” – e poi sta all’utente capire che corso Grosseto 283 è il portone principale da cui si è partiti. Certo, io sono entrato alle 14,15 e fino alle 15 non si è presentato nessuno, nonostante il cartello dicesse che le denunce si raccolgono dalle 8 alle 20,30 con orario continuato. Certo, il poliziotto ha allargato le braccia e mi ha detto che avrebbe dovuto mandarmi via, che non c’era bisogno di fare una denuncia per una sciocchezza simile (e concordo con lui).

Ma intanto, oltre a passare dieci minuti ad annotare i dati della mia auto a noleggio, si è dovuto subire il tizio prima di me, che voleva “denunciare” che la firma obbligatoria in corso Giulio Cesare per lui era scomoda, e voleva spostarla lì; e quelli dopo, che – oltre a conoscere quello prima e a salutarlo con grandi pacche sulle spalle – volevano denunciare il vicino cinquantenne che guardava troppo intensamente il culo di lei quando si incrociavano sulle scale. Del resto, l’ultima volta che avevo fatto una denuncia (di smarrimento del foglio complementare della vecchia Punto da rottamare: ah, la burocrazia delle auto), prima di me si era presentato un tizio per denunciare che, al suo paese in Sicilia, il vicino aveva un sacco di galline, e quindi era un sicuro untore di aviaria: non poteva la polizia andare là ed ammazzargliele tutte?

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