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Archivio per il mese di Maggio 2015


sabato 30 Maggio 2015, 15:41

Di nomadi, cani e immondizia (3)

Stamattina, insieme ad altri portavoce ed attivisti del Movimento 5 Stelle, sono stato in via Germagnano per parlare sia con gli abitanti del campo nomadi che con i volontari dell’ENPA.

I volontari, giustamente esasperati, chiedono che il Comune provveda a garantire la guardia notturna del canile, attualmente svolta da uno di loro. La famosa pattuglia dell’esercito che doveva garantire l’ordine sostanzialmente non si è ancora vista; i danni sono stati quasi interamente riparati, grazie anche a numerose donazioni, ma hanno paura che possa arrivare presto un nuovo assalto. Ad ogni modo, non c’è nessuna intenzione di abbandonare il canile costruito con tanta fatica ben prima che il Comune mettesse lì i rom.

Nel campo nomadi siamo stati accolti nella casetta occupata da due anziane suore (sante donne veramente), dove abbiamo avuto una lunga discussione che ha coinvolto anche uno dei vecchi capifamiglia del campo e alcune persone che lavorano o hanno lavorato lì come operatori sociali. Ho avuto un’altra conferma delle dinamiche interne di cui vi parlavo; il campo, che nei primi 6-7 anni di vita è stato relativamente tranquillo, è degenerato negli ultimi anni per via di alcune famiglie prepotenti, che hanno fatto anche fuggire altre famiglie, bruciando le loro baracche. Qualcuna di queste famiglie violente è stata anche allontanata dal campo, ma continua ad esercitare il proprio potere dall’esterno.

Comunque, emerge un problema di fondo: il campo è stato progressivamente abbandonato a se stesso. Le casette vengono abbandonate e bruciate perché dal 2006 il Comune non procede a nuove assegnazioni di quelle che si liberano, e alcuni servizi che erano stati creati, ad esempio per intrattenere ed educare i bambini, sono stati nel tempo dismessi con la scusa che si vogliono smantellare i campi. E’ vero che i campi vanno smantellati, ma o lo si fa veramente oppure nel frattempo essi diventano una incontrollabile terra di nessuno.

Parte del problema è veramente legato ai bambini; ci sono famiglie che li curano, li accudiscono e li mandano a scuola, ma ce ne sono altre che se ne fregano completamente dei propri figli, col risultato che (grazie anche all’elevata prolificità dei rom) nel campo si è creato un nucleo di decine di bambini e ragazzini che vivono in gruppo dalla mattina alla sera, completamente allo stato brado, e per passare il tempo tirano i sassi, bruciano le cose, spaccano, disturbano in giro per la zona. Alcuni capifamiglia hanno cercato di convincere gli altri che quello non è un buon modo di gestire i figli, ma senza grandi risultati.

Ho comunque scoperto numerosi fatti che attribuiscono alle istituzioni italiane altrettanta responsabilità del degrado di quella che hanno gli occupanti del campo. Per esempio, la baracca costruita dagli stessi rom per dare ai ragazzini un luogo dove giocare nel campo, senza andare a dar fastidio in giro, è stata sequestrata dalla magistratura tempo fa ed è ancora lì sigillata. Per esempio, le casette non hanno l’abitabilità, perché il Comune le ha date ai rom a titolo di “magazzino”, pur costruendoci dentro il bagno e quant’altro. Per esempio, i lavori di recupero di quattro delle casette bruciate, attesi da tempo, sono casualmente iniziati proprio mercoledì scorso, giorno della manifestazione in strada. Per esempio, il progetto di sostegno sociale e avviamento all’integrazione finanziato quasi due anni fa con 1.200.000 euro non è ancora partito, perché la convenzione con le cooperative prevede che i destinatari siano gli occupanti autorizzati del campo, ma il Comune non è stato in grado di fornirne la lista; tra sei mesi il contratto scade, e sospetto che i soldi dovranno essere pagati comunque alle cooperative, che il progetto sia stato fatto oppure no.

Io penso che invece di gridare slogan, che siano pro o contro i rom, sia necessario rimboccarsi le maniche ed entrare nel dettaglio dei problemi, scavando fino a scoprire cosa non funziona e come lo si può sistemare. La sensazione è che tra i rom ci siano sicuramente molte persone che delinquono o perlomeno che non sono in grado di stare in una società civile, ma anche che molta gente in giacca e cravatta ben inserita nella società italiana ci marci sopra in ogni modo, tanto è facile dare la colpa ai rom per qualsiasi propria inefficienza, negligenza o addirittura ladrocinio.

Oggi nel campo c’erano i carabinieri in forze, stanno cercando di identificare uno per uno i ragazzini e ragazzoni che hanno compiuto l’assalto al canile. Poi, però, bisognerà capire cosa farne; i servizi sociali cercano di darli in affido diurno, ma a parte la difficoltà di trovare una famiglia che voglia prendersi in casa un ragazzino rom quindicenne cresciuto per strada e molto più adulto (soprattutto nel male) dei suoi coetanei italiani, poi la sera lo si rimanda nel campo e siamo da capo. Anche i progetti di educazione alla genitorialità, già difficili con gli italiani, sono molto più difficili coi rom.

Tuttavia, le scelte non sono molte: detto che molte delle famiglie che vivono nel campo sono in Italia da quarant’anni almeno e i più giovani sono cittadini italiani come tutti noi (quindi non esiste “rimandiamoli al loro Paese”), o pensiamo di far schiacciare alle ruspe oltre alle baracche anche le persone, bambini compresi, oppure bisogna faticosamente educare al rispetto della convivenza civile, un po’ con la carota e un po’ con il bastone. Il primo passo di tutto ciò è guardarsi negli occhi, cosa che a quanto pare, in dieci anni, tra campo e canile non è mai avvenuta. Scoperto che abbiamo tutti due braccia, due gambe e una testa, talvolta illuminata e talvolta un po’ di cazzo, si può proseguire ad affrontare i problemi invece di gridarne soltanto.

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martedì 26 Maggio 2015, 15:13

Perché Uber non è il progresso

Ha fatto rumore la sentenza del Tribunale di Milano che dichiara UberPop – il servizio principale di Uber, quello in cui chiunque può prendere la propria auto e cominciare a trasportare gente a pagamento – illegale in tutta Italia, e ne impone il blocco entro quindici giorni.

Eppure, per chi ha approfondito la vicenda, la sentenza era inevitabile: per la legge italiana, il servizio di trasporto pubblico di persone non di linea può essere svolto solo dai tassisti o dagli NCC (noleggio con conducente), entrambi sottoposti a licenza. Anche le sentenze dei giudici di pace tanto sbandierate nelle scorse settimane non hanno mai detto che UberPop è legale, ma piuttosto hanno contestato la regolarità del modo in cui i vigili avevano sequestrato le auto agli autisti Uber, dicendo che dovevano farlo in un modo diverso oppure che comunque il sequestro dell’auto era una punizione eccessiva; bastava leggerle.

Sento però già i cori di gente che parla di libertà del mercato violata, di vittoria delle lobby, di resistenza al progresso, di cittadini forzati a farsi rapinare da tassisti esosi e violenti (a proposito, i tassisti spesso hanno avuto comportamenti spregevoli, e sono bravissimi a farsi odiare dalla gente; ma questo non cambia il discorso che sto per fare). Per questo voglio mettere in evidenza che la vera questione in ballo non è affatto quella che pensate, ed è molto più importante di quello che sembra.

Vi siete chiesti, infatti, come fa Uber a praticare prezzi così bassi? E’ bello credere che i tassisti si arricchiscano sulle spalle degli italiani, e che sarebbe possibile viaggiare tutti in taxi per metà del prezzo, ma non è così. Se esistono margini per abbassare un po’ i prezzi, naturalmente senza introdurre sovvenzioni pubbliche, sono legati a un migliore utilizzo dei veicoli: oggi ci sono troppi taxi in funzione della domanda che si è ridotta, per cui molti passano il tempo in attesa di una chiamata, lavorano poco e guadagnano poco.

I prezzi dei taxi, comunque, non sono fissati dai tassisti, ma dalle Province e dai Comuni, esattamente come i prezzi del biglietto dell’autobus; chiedere di pagare meno il taxi è come chiedere di pagare meno l’autobus, con la differenza che i biglietti dell’autobus coprono solo un terzo scarso del costo del servizio (il resto è sovvenzionato dalle tasse di tutti), mentre il prezzo del taxi deve ripagare tutto il costo. Se un viaggio in bus costasse 4,50 Euro, come da costo effettivo, il prezzo del taxi non sembrerebbe così esoso.

Uber, invece, taglia su ben altri costi. Il prezzo della corsa viene determinato con il costo chilometrico ACI, che come sappiamo è una misura generosa dei costi di esercizio di un’automobile; su quello, il 20% viene trattenuto da Uber, mentre l’80% va all’autista. Uber, però, paga le tasse in Olanda, ad aliquote ridotte, e non in Italia; pur avendo una filiale italiana, essa rigira gli incassi alla casa madre come “affitto della piattaforma”. L’autista, invece, prende i soldi e dichiara che sono semplicemente un rimborso spese, e non un reddito da lavoro, per cui non sono soggetti a tasse.

Quindi, su ciò che voi pagate all’autista Uber, nessuno paga tasse in Italia; il tassista, invece, paga allo Stato italiano le tasse sul reddito e i contributi previdenziali ed è soggetto agli studi di settore, il che vuol dire che anche se evade finisce per pagare lo stesso, mentre se invece lavora pochissimo paga comunque una botta di tasse; e questo fa grande differenza sui prezzi.

Già il modo furbetto in cui si presenta Uber dovrebbe inquietarvi: ci sono tante persone disoccupate che vogliono lavorare per Uber e tanti che reclamano la liberalizzazione di Uber perché “porta lavoro”, eppure la società stessa pubblicizza il servizio come un modo divertente di passare il proprio tempo per “coprire i costi della propria auto”, senza fine di lucro; lo dice anche la pubblicità di Uber su Facebook.

Insomma, ufficialmente non è un lavoro per guadagnare, è proprio che all’autista Uber fa piacere uscire di casa e passare il tempo libero portando uno sconosciuto da un posto a un altro posto dove altrimenti non sarebbe mai andato: ma dai!! (Questa, tra l’altro, è la differenza con Blablacar, che invece permette davvero di condividere la spesa per un viaggio che si farebbe comunque.)

Ma le differenze di costo non finiscono qui. Il tassista deve conseguire e pagarsi una patente speciale, ossia un certificato di abilitazione professionale; l’autista Uber no. Il tassista è soggetto a visite mediche annuali a campione per verificare che non faccia uso regolare di droga e che sia in salute; l’autista Uber no. Il tassista ha limiti ben precisi di orario al volante; l’autista Uber, se l’app glielo concedesse, potrebbe guidare per ventiquattr’ore di fila. Il tassista paga una assicurazione professionale che copre qualsiasi danno; l’autista Uber gira con la normale assicurazione RC auto, sulla quale è scritto esplicitamente che è escluso il trasporto a pagamento, e auguri a voi se venite coinvolti in un incidente come passeggero pagante (Uber giura di avere una assicurazione integrativa, sperate in bene).

Tutti questi sono costi; ora, possiamo anche decidere che alcune di queste cose sono eccessive, ed è giusto che vengano eliminate. Ma allora le eliminiamo per tutti, a partire dai tassisti; così poi sì che si può fare “concorrenza sul libero mercato”. E le facciamo eliminare al Parlamento, non a una multinazionale che arriva qui e fa quello che le pare.

C’è, infine, il problema del costo della licenza. Questo per me non è un problema concettuale: ci sono altre categorie che avevano una licenza che ha perso di valore di botto, fa parte del rischio d’impresa. E’ comunque un problema pratico: ci sono migliaia di giovani che si sono ipotecati la casa o hanno fatto colletta tra i parenti per pagare 100.000 o 150.000 euro di licenza, davvero li vogliamo mettere in mezzo a una strada? Aggiungo solo che, contrariamente a quel che si crede, la compravendita di licenze taxi non è nè illegale nè in nero, ma è riconosciuta e soggetta al 23% di tasse, cioè decine di migliaia di euro a transazione, che lo Stato italiano in questi anni ha tranquillamente incassato.

Ma questo non è nemmeno il punto vero; il vero problema è il modello di lavoro che Uber rappresenta. I tassisti sono una categoria di piccoli imprenditori di se stessi, ognuno dei quali vive, lavora e paga le tasse in Italia, e si è conquistato nel tempo diritti e doveri, e in particolare l’indipendenza da un padrone; al massimo i taxi si radunano in cooperativa, ma non sono dipendenti.

La proposta di Uber è quella di sostituirli con un esercito di persone precarie, non professionalizzate, senza alcun diritto, mentre gli utili del sistema di gestione se ne vanno all’estero. Lo stipendio di queste persone, perdipiù, è totalmente incerto, proprio perché  le condizioni di lavoro degli autisti, nonché i prezzi e la ripartizione, sono stabiliti da Uber come vuole. Non ci sono garanzie, e, se Uber vuole, da domani non guidi più e perdi il lavoro; e in più, presto gli autisti si accorgeranno che l’80% del rimborso chilometrico è un compenso che permette a malapena di rientrare nelle spese, e quando dopo aver incassato apparentemente un buon guadagno scopriranno che devono cambiare la macchina per usura già l’anno prossimo spendendo anche più di quanto incassato, nessuno sarà lì ad aiutarli; ci saranno invece altri disoccupati pronti a immolare la propria auto per incassare un po’ di soldi subito.

Insomma, altro che “sharing economy”, questo è semplicemente il caporalato come per i poveretti che raccolgono i pomodori nei campi, la stecca del 20% da pagare ogni giorno per poter lavorare. Capisco che questo sia il modello che piace ai grandi investitori finanziari e ai loro media, ma non capisco perché piaccia a voi. Davvero questo sarebbe il progresso?

Per questo io penso che sia giusto che Uber e i suoi autisti possano offrire il loro servizio, che è ben fatto e ben realizzato; ma alle stesse condizioni dei tassisti. La politica, finora latitante, dovrebbe battere un colpo e decidere se mantenere le condizioni attuali o rivederle per tutti, assicurandosi in primo luogo che le tasse sul servizio di trasporto restino pagate in Italia, che i clienti siano garantiti nella sicurezza, e che i lavoratori abbiano i propri diritti. A quel punto, ben venga Uber; credo però che i prezzi non caleranno così tanto, ma credo anche che sia giusto così.

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domenica 24 Maggio 2015, 22:23

Quando la musica si suonava da sola

Nella storia della musica è esistito un momento molto particolare, circa dal 1880 al 1930. E’ il momento in cui la rivoluzione ferroviaria di metà Ottocento e la fine delle guerre di indipendenza nazionale portano a una fase di sviluppo, di benessere e di ricchezza che solo la Prima Guerra Mondiale (e, negli Stati Uniti, nemmeno quella) metterà in crisi. E’ il periodo in cui furono inventate e si diffusero tecnologie che cambiarono il mondo, spesso tramite le comunicazioni: il telefono, la lampadina, la dinamo, la rete elettrica, la rotativa tipografica, la fotografia portatile, e poi la radio e il cinema.

L’unione di queste tecnologie e di una fase di crescente benessere, almeno per la borghesia inurbata, portò la cosiddetta Belle Epoque; un’era di divertimento e di intrattenimenti di massa. Là dove c’è divertimento c’è sempre la musica; e un’altra delle invenzioni di quest’epoca, il fonografo/grammofono o più volgarmente “giradischi”, permise per la prima volta di registrare una performance musicale e di riprodurla più e più volte, anche se con qualità inizialmente pessima e quasi inintelligibile.

Il problema, tuttavia, è che il suono riprodotto dalla puntina che scorre su di un disco è molto molto debole, per cui è necessario amplificarlo; ma l’unico sistema che all’epoca avevano a disposizione era quello dell’amplificazione naturale tramite un grosso corno, proprio come per gli strumenti a fiato. L’anno scorso allo Science Museum di Londra, in una mostra temporanea, ho visto la riproduzione di un corno gigantesco, realizzato nel 1929 – alla fine di quest’epoca – come esperimento del meglio possibile nell’amplificazione naturale; era lungo una decina di metri e occupava un intero salone, permettendo però a un pubblico di qualche decina di persone di riuscire ad ascoltare la fonte di suono. In condizioni normali, comunque, l’amplificazione naturale è sufficiente a malapena per una piccola camera con qualche persona che ascolta in religioso silenzio.

D’altra parte, l’avvento dell’intrattenimento di massa rendeva sempre più difficile utilizzare il metodo tradizionale di generare la musica, cioè suonandola ogni volta dal vivo. Se nelle sale da concerto e in quelle da ballo continuavano ampiamente a spopolare le orchestre, vi erano una serie di situazioni in cui l’orchestra era troppo costosa e troppo poco pratica, mentre il grammofono offriva qualità e livello sonoro insufficienti; in particolare per le fiere viaggianti, per le giostre all’aperto, per le prime forme di pubblicità sonora, e per le proiezioni del cinema muto, che venivano normalmente arricchite da una colonna sonora strumentale eseguita sul posto. Nelle case per bene, poi, in attesa di una maggior diffusione della musica registrata, si usava che qualcuno suonasse il pianoforte per accompagnare la famiglia a cantare gli ultimi successi; ma che fare per avere un po’ di musica in assenza di un buon pianista?

Per tutte queste situazioni, si affermò un’industria sorprendente e oggi quasi completamente dimenticata: l’industria degli strumenti musicali automatici.

Uno strumento musicale automatico è un normale strumento musicale, per esempio un organo, a cui viene abbinato un meccanismo che permette di leggere una specie di spartito musicale e muovere di conseguenza i tasti dello strumento, suonandolo “automaticamente”. L’organo è il caso più tipico, perché è uno strumento molto versatile e molto potente, adatto a riempire di suono le sale più grandi e persino luoghi aperti; invece, per gli usi domestici ad essere automatizzato era il pianoforte. Tuttavia, nell’epoca d’oro di questi strumenti furono inventati meccanismi automatici per quasi ogni genere di strumento, compresi violini, chitarre, percussioni, fiati, spesso mescolati tra loro nei cosiddetti Orchestrion.

I primi strumenti automatici risalgono al Medioevo, mentre già alla fine del Settecento si affermarono piccoli strumenti come i carillon; ma quelli che per noi sono più sorprendenti sono appunto gli strumenti – praticamente piccole orchestre – dell’epoca in questione. Sono strumenti che tipicamente funzionano ad aria compressa generata da soffietti alimentati elettricamente o, prima dell’elettricità, a vapore o per ingranaggi ruotati a forza umana. Leggono lo spartito da un cilindro di carta o di metallo, su cui sono praticati fori o apposti spunzoni per azionare specifici tasti; oppure, da un “libro” di fogli perforati incollati a soffietto, in modo da generare un unico lunghissimo foglio continuo che permette di eseguire brani molto più lunghi rispetto a un cilindro.

Il più noto fabbricante di questi strumenti fu probabilmente lo statunitense immigrato tedesco Rudolph Wurlitzer, la cui azienda è sopravvissuta poi nell’era dei jukebox; un altro grosso centro di produzione fu Parigi, dove si trovava l’azienda della famiglia modenese dei Gavioli, inventori appunto del libro a soffietto. Nel 1897 la Aeolian Company di New York lanciò un innovativo pianoforte automatico denominato Pianola, che riproduceva brani musicali leggendoli da rotoli cartacei; fu un tale successo che la parola ha perso la maiuscola ed è rimasta persino nel dizionario italiano.

Gli strumenti automatici furono prodotti a catena di montaggio, e l’industria dei rotoli cartacei per le pianole diventò come quella discografica di oggi, con un continuo lancio sul mercato di nuovi successi popolari. Improvvisamente, però, negli anni Venti si affermò la tecnologia delle valvole termoioniche, da poco inventate, che permisero di realizzare amplificatori elettrici di grande potenza; e così, il grammofono e la radio poterono emettere suoni a volume molto più alto, dando il via anche al cinema sonoro, e una intera industria diventò improvvisamente obsoleta.

Se capitate a Londra e vi interessa questo mondo, vale la pena di andare fino a Kew Bridge a visitare il Musical Museum (attenzione agli orari di apertura), una raccolta di strumenti automatici molto completa gestita da una piccola associazione privata.

Se no, ormai su Youtube si trovano performance di ogni genere, eseguite su strumenti d’epoca amorevolmente restaurati. Nel video qui sotto, potete sentire Bohemian Rhapsody dei Queen eseguita da un organo automatico Marenghi del 1905; lo spartito non sarà perfetto, ma il risultato è decisamente affascinante.

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giovedì 21 Maggio 2015, 15:51

Ancora su nomadi e cani

L’Ente Nazionale Protezione Animali ha pubblicato le foto dell’ennesimo raid nel suo canile privato, adiacente al campo rom di via Germagnano, di cui vi avevo già parlato in un articolo di poche settimane fa; strumentazione distrutta, arredi fatti a pezzi, animali molestati e forse avvelenati, tubi divelti con allagamento, e circa centomila euro di danni.

L’ENPA aggiunge un “pacato” commento sulle politiche pro nomadi della Città di Torino, parlando di “una città che, mentre ridimensiona e centellina servizi previsti e garantiti dalla Legge, abdica ai ROM con milioni di euro spesi in permissivi mediatori culturali, disprezzata assistenza sanitaria nei campi, inefficaci cooperative di sostegno, inutile personale di vigilanza, continue ristrutturazioni di ciò che essi distruggono, con quotidiani interventi di vigili del fuoco.” Solo nelle prime due ore (dalle 6 alle 8 del mattino) il post ha ottenuto circa 5000 condivisioni in tutta Italia, e dopo nove ore è oltre le 60.000; e potete immaginare il tono dei commenti e la bella figura della città.

Il problema è arcinoto e già più volte discusso in consiglio comunale, e anche se non lo sbandieriamo tanto noi ce ne stiamo occupando da un po’ in modo serio. Grazie a una rete di contatti, stiamo cercando di aprire un dialogo diretto tra volontari ENPA e abitanti del campo, per capire le ragioni di questo accanimento distruttivo (non è solo questione di rubare). Ieri ero all’ufficio nomadi del Comune e ho avuto modo di parlarne anche con chi segue istituzionalmente il campo.

La questione non è semplice come sembra. Non è che tutti gli abitanti del campo si divertano a prendersela con l’ENPA; se mai, nel campo è in corso da tempo una guerra per il controllo dello stesso, e questo è un modo per gli aspiranti capi del campo di dimostrare che possono distruggere e far scappare non solo eventuali oppositori interni, ma addirittura la polizia e le istituzioni italiane. I campi rom sono spesso come i paesini mafiosi dell’Italia profonda; gli abitanti non sono tutti mafiosi o delinquenti, ma hanno paura di esporsi; vige l’omertà, tutti sanno chi compie questi atti ma nessuno ha il coraggio di denunciarli.

Questo ovviamente non giustifica i danni subiti dall’ENPA e non li rende accettabili, e non giustifica nemmeno il palese fallimento delle politiche pubbliche adottate verso i rom in questi vent’anni in tutti i loro aspetti, dalla scelta di mantenere i campi al permissivismo verso la piccola criminalità fino al boldrinismo di istituzioni nazionali ed europee che bacchettano il Comune se si permette anche solo di abbattere una baracca (esiste persino un ricorso dei rom alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro lo sgombero di lungo Stura Lazio…).

Gridare slogan e insulti è facile, ma non risolve i problemi. Tuttavia, è chiaro che è ora di un giro di vite su questa situazione, che si risolve innanzi tutto assicurando i colpevoli alla giustizia e dimostrando che le istituzioni esistono e non si fanno mettere i piedi in testa. Purtroppo, qualsiasi richiesta di intervento da parte delle forze dell’ordine in queste settimane, per qualsiasi motivo, riceve la risposta per cui adesso esse sono troppo impegnate a garantire la sicurezza dell’ostensione della Sindone, e che se ne parlerà a luglio. Anche questo è il simbolo di una città che investe solo in grandi eventi per poteri forti nel centro cittadino, e che abbandona le persone comuni e le periferie al proprio destino.

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sabato 16 Maggio 2015, 17:52

Roberto, spizzala piano

Ci sono giocatori di calcio che non sono nè forti nè deboli, sono iconici. E degli anni della rinascita del Toro e dell’avvento di Cairo, dal 2005 al 2009, l’icona è lui: Roberto Stellone, l’attaccante di un solo modulo e una sola mossa, la spizza.

Simpaticamente preso per il culo in tutti i modi, fu trasformato in uno dei protagonisti di una leggendaria campagna di sbeffeggio in rete che a Cairo brucia ancora. Stellone e il Super Tele arancione che gli spioveva sulla capoccia lucida nei contesti più improbabili, insieme a Rosina con la camicia macchiata (non ricordiamo di cosa) e al pluriallenatore maestro di calcio Gianni De Biasi (inspiegabilmente lasciato al Toro dal Real Madrid e dal Manchester United, squadre più adatte al suo rango), restano la foto del Toro entusiasmante e deludente del primo Cairo, societariamente cazzaro come quello di oggi, ma nemmeno vincente sul campo.

Nel frattempo Roberto, passato dall’altro lato della panca, è riuscito in una impresa mica da ridere: portare in Serie A il Frosinone. Alla faccia di tutti, di Gianni Morandi e del suo Bologna dominato due giornate fa, del Catania che doveva ammazzare il campionato e ancora un po’ finisce in serie C, di Lotito e delle sue telefonate che minacciavano il tracollo del calcio se in A fossero arrivate Carpi, Latina e Frosinone (due su tre le ha beccate, quasi ai livelli di Fassino).

Alla faccia delle ironie sulla capoccia lucida che poteva spizzare qualsiasi cosa spiovesse in testa, pure i pianoforti dei cartoni animati, ma in una direzione generalmente a caso e totalmente inutile, Stellone c’è e speriamo che gli facciano godere un giro in serie A anche da allenatore. Lo voglio vedere allo stadio di Venaria, con una squadra di carneadi che tutta insieme non vale un’unghia di Pogba, a spizzare per interposta persona un improbabile gol. Perché il calcio, signori miei, non è bello per le solite partite delle solite quattro squadre che si contendono tutto, ma perché esistono ancora i piccoli miracoli come questo: vedere una città di provincia impazzita per una promozione pazzesca, e Roberto Stellone di nuovo in serie A.

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martedì 12 Maggio 2015, 10:50

Una prova del car sharing

Ieri ho trascorso una bella serata a cena in centro con amici. Alla fine ero in piazza Carlo Alberto; essendo venuto al mattino con i mezzi pubblici, pensavo di tornare con il 13 da prendere in via Po, se non che, secondo l’app di GTT, avrei dovuto attenderlo “solo” 28 minuti; oppure, dopo 18 minuti sarebbe passato un mezzo che mi avrebbe portato alla metropolitana… che però, essendo lunedì, era pure già chiusa.

Fortunatamente avevo ancora un po’ di minuti gratuiti di prova di Car2Go e così ho deciso di provare per la seconda volta il servizio: aperto (faticosamente, sul mio vecchio cellulare sul quale non ci sta nemmeno l’app) il sito, ho scoperto che c’era un’auto disponibile a pochi minuti a piedi, dall’altra parte dei Giardini Reali; così l’ho prenotata e sono andato a prenderla.

Allora, bisogna dire che queste Smart da guidare non sono granché, sembrano un cubo di ghisa con il motore di un Ciao e il freno di una Graziella (ma forse sono abituato troppo bene io con la mia vecchia 147). Peggio ancora il cambio automatico, con cui ogni accelerata è un’agonia; il folle dura diversi secondi e il risultato è uno stile di guida “nonnino col cappello”, per cui sui viali cittadini verrete superati persino da Luca Badoer. D’altra parte, la bassa velocità è tranquillizzante, su un’auto a cui per forza di cose non si è abituati.

La procedura di accensione è all’inizio un po’ complicata; bisogna seguire una serie di schermate sul display, poi trovare la chiave che sta sul cruscotto a destra del display stesso, poi prenderla di lì e metterla nel nottolino che però non sta al volante ma in mezzo accanto al cambio, e lo stesso cambio automatico è meno intuitivo della media. Di sera poi la macchina è buia e la luce nemmeno si accende da sola, in compenso si accende subito la radio a un volume esagerato.

Detto questo, il servizio però è veramente interessante: alla fine io sono arrivato a casa nel momento in cui sarei salito (salvo altri imprevisti) sul 13 in via Po. Da corso San Maurizio a piazza Rivoli ci sono voluti 18 minuti, di cui due abbondanti (euro 0,58) spesi in attesa del verde al semaforo di rondò Rivella, e quasi altrettanti (altri euro 0,58) in attesa di poter girare a sinistra al rondò della Forca. Certo che pagare al minuto ti mette una certa ansia, e in caso di semafori rossi particolarmente lunghi ti fa bestemmiare ripetutamente il nome dell’assessore Lubatti; forse era meglio pagare al chilometro.

Alla fine il viaggio è stato gratis, ma se avessi pagato avrei pagato 5,22 euro; non pochissimi, ma nemmeno così tanti per una serata fuori, magari in due (non di più perché la Smart è biposto). Si tratta dunque di un servizio che si posiziona a metà tra il pullman (che costa molto meno ma va atteso a lungo, è spesso pieno come un uovo e va dove vuole lui) e il taxi (che costa un po’ di più ma ti raccoglie e ti porta esattamente a destinazione, e può ospitare gruppi più grossi); è particolarmente interessante per andare in aree di sosta a pagamento, visto che si lascia l’auto senza dover pagare lo stazionamento, mentre lo è di meno per raggiungere zone imparcheggiabili, dove si rischia di spendere diversi euro per girare all’infinito per parcheggiare.

In particolare, non potendo usare i parcheggi in struttura o comunque protetti da sbarre, non è così facile usarlo per andare in pieno centro, dove i posti su strada sono una rarità; per ovviare a questo problema, sarebbe opportuno predisporre nelle zone più centrali dei parcheggi appositi (vedrò di sollevare la cosa in consiglio comunale).

Adesso devo provare a usare i minuti gratuiti di Enjoy; almeno se ci riesco, visto che sul mio vecchio cellulare l’app non è compatibile e il sito non funziona proprio… Comunque, vale la pena di iscriversi a entrambi i servizi per usufruire delle promozioni di questo periodo, con l’iscrizione gratuita e un bonus di minuti per fare una prova; non si sa mai quando potrebbe tornare utile.

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