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venerdì 19 Febbraio 2016, 13:33

Viva lo sharing, ma senza economy

Forse non tutti sanno che quasi vent’anni fa, da studente del Politecnico, insieme ad altri appassionati di tutta Italia, misi in piedi il primo sito Web che conservava e distribuiva in forma digitale le sigle italiane dei cartoni animati degli anni ’70 e ’80: il progetto Prometeo. Il formato MP3 era appena stato inventato e sconosciuto ai più; alla rete si accedeva tramite modem e telefonate notturne; l’ondata di nostalgia per quegli anni era ancora di là da venire. Appassionati di tutta Italia, però, tirarono fuori dal cassetto quei 45 giri ormai introvabili, li digitalizzarono con le loro SoundBlaster e, a spese proprie, senza guadagnarci niente e per il semplice piacere di condividere il loro tesoro con gli altri, li caricarono sul sito.

Dopo poco tempo arrivarono gli avvocati: ebbi un lungo scambio di mail con un allora sconosciuto Enzo Mazza, che cercò con le buone e con le cattive di farmi sbaraccare tutto, al che io dissi che l’avrei sbaraccato davvero facendo il maggior casino possibile sui media, e la negoziazione si concluse con l’eliminazione delle sole canzoni di Cristina D’Avena, le uniche che avessero ancora un qualche interesse commerciale in quanto ampiamente sfruttate da Mediaset.

Un paio di anni dopo furono inventati Napster e il peer-to-peer, e la questione della condivisione dei contenuti divenne globale; nel frattempo i siti del progetto Prometeo divennero obsoleti e vennero chiusi. Tuttavia, la nostra iniziativa riaccese l’interesse del pubblico per quelle canzoni, e credo che se l’altra settimana Cristina D’Avena è andata a cantare a Sanremo – ossia, se quei pezzi che stavano per scomparire hanno riacquistato un grande valore anche economico – è anche grazie a quell’antico sforzo di condivisione.

Non voglio qui riaprire l’annosa questione sulla legittimità del condividere in rete contenuti culturali di cui non si possiede il copyright; lasciamola per un’altra volta. Voglio però sottolineare che, nei primi anni dell’Internet di massa, la condivisione è sempre stata concepita come una iniziativa dal basso fatta per il bene di tutti, in cui ogni utente attivo della rete sopporta una propria fetta di costi per creare un servizio di enorme valore liberamente disponibile a tutti. E con lo stesso spirito sono presto nati altri servizi pienamente legittimi, prima puramente online (Wikipedia, per esempio), e poi anche nel mondo reale (Couchsurfing, Blablacar), in cui ognuno condivideva gratuitamente qualcosa che possedeva già.

Certo, è subito emerso un problema di fondo: gli utenti possono anche donare il proprio pezzetto gratuitamente, ma chi paga i costi, potenzialmente enormi, della piattaforma di condivisione? Inizialmente le piattaforme si basavano anch’esse su donazioni volontarie e condivise di risorse tecniche e di tempo, ma il modello, Wikipedia a parte, faticava a reggere.

Questo è stato il momento in cui l’economia “classica”, quella dell’uomo utilitaristico che si muove solo per il profitto, quella che i pionieri della condivisione volevano sfidare e che per qualche anno sembrava poter essere clamorosamente buttata fuori dalla porta, è rientrata in gioco. Inizialmente lo ha fatto dalla finestra; servizi come Youtube, gestiti da società a scopo di lucro ma con ampie disponibilità ad attendere il lungo periodo, hanno iniziato a ripagarsi i costi con la pubblicità, come hanno poi fatto le aziende dello step successivo, cioè i social network; la condivisione per gli utenti resta gratuita, ma l’azienda incassa con uno sfruttamento economico non troppo invasivo dei contenuti degli utenti.

Dopo un po’, anzi, giustamente si è detto: ma se la piattaforma oltre a ripagarsi i costi comincia a guadagnarci, non sarebbe giusto che una parte di questi guadagni tornasse agli utenti che caricano i contenuti? Giusto, sì; ma così l’aspetto economico ha preso altro spazio, e sono nati i professionisti del video scemo e della stupidaggine virale, e poi i titoli acchiappaclick e le bufale acchiappagonzi. A quel punto anche la commercializzazione delle piattaforme si è fatta più invasiva, dato che sempre più utenti non condividevano per piacere o per altruismo, ma per profitto e per vantaggio personale: e quindi, liberi tutti di mandare in soffitta lo spirito di beneficenza.

E’ da lì che si arriva a quest’ultima epoca, quella della “sharing economy”: Uber, AirBnB e compagnia bella. Essa abbatte definitivamente il tabù che scricchiolava da un pezzo ma che ufficialmente non si poteva toccare, quello di condividere qualcosa non per altruismo o per divertimento, ma per il desiderio, o peggio la necessità, di guadagnare dei soldi. Che sia un tabù è evidente proprio dai pietosi tentativi iniziali dell’ufficio stampa di Uber di sostenere che i loro autisti non lo fanno per i soldi, ma per il piacere di caricare uno sconosciuto e portarlo da un punto A a un punto B, punti in cui loro altrimenti non sarebbero mai andati. Ma ormai hanno smesso anche loro: la prima cosa che sta scritta oggi sul loro sito è “GUADAGNA SOLDI GUIDANDO LA TUA AUTO”.

Nella “sharing economy”, le piattaforme non servono a trovare altre persone con cui condividere una passione o un’amicizia, ma a trovare i clienti per un’attività a scopo di lucro che vuoi fare con la tua auto, la tua cucina o la tua camera da letto, probabilmente perché ti hanno già tanto precarizzato – magari grazie a un’altra forma di “sharing economy” globale e delocalizzata che ha preso piede nella tua professione – che oltre a lavorare otto ore di giorno devi anche passare l’ex tempo libero a venderti un po’ della tua auto, della tua cucina o della tua camera da letto per far quadrare i conti a fine mese.

Intendiamoci, non c’è niente di male nel creare nuovi modelli di business con cui fare utili, trovando i clienti a chi ha un prodotto o un servizio da vendere e agendo da garanti della transazione, in cambio di una percentuale. Dai sensali e dai magnaccia fino ai commerciali e ai pubblicitari, è il secondo mestiere più antico del mondo. Certo, se poi il servizio viene venduto in nero e in barba a tutte le normative sulla sicurezza, sull’igiene, sui diritti del lavoro, magari sostenendo pure che non rispettarle è una grande innovazione perché fa scendere i prezzi, la cosa assomiglia un po’ tanto alla versione digitale del caporalato o delle fabbriche cinesi (non mi dilungo, vi rimando al post dell’anno scorso). Ma è ben possibile, e anche giusto, mettere a posto tutti questi aspetti e permettere a queste aziende di offrire il proprio servizio sul mercato, alle stesse condizioni di chi già esercità attività simili, e magari facendo attenzione a non creare nuovi monopoli di fatto, nuove ondate di disoccupati e precari, nuova povertà.

Solo, non spacciate questa per innovazione, e soprattutto non spacciatela per condivisione.

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Un commento a “Viva lo sharing, ma senza economy”

  1. mfp:

    Di esempi se ne possono fare una infinita’: fon.com ha iniziato col quadro di Pellizza da Volpedo simbolo del socialismo novecentesco, ha preso finanziamenti da Google e BT, rimosso il quadro dal sito, installato un map server e … oggi vende accessi ad internet una tantum al chilo. Gli accessi degli altri. E in competizione con una infrastruttura piu’ economica (ie: cellulare). Cannibalizzando nel frattempo qualunque altra cosa in circolazione, sia immaginariamente (“parlo di una rete geografica grassroots” -> “ah, parli di fon?”), che materialmente (“perche’ devo spendere 400 euro se con 20 compro una Fonera?”, poi finiscono tutti a piangere perche’ sul contratto Fastweb trovano scritto che devono riconsegnare l’HAG da 20 euro pagato 2 euro al mese in bolletta per 6 anni, ma Fastweb fa di tutto per non riprenderselo al fine di non dover restituire la franchigia ai clienti, e pagare il riciclo della sua monnezza).
    E’ un fallimento full stack; dai cavi al trattamento dei dati.

    Uber all’inizio andava pure bene perche’ non si sostituiva ai tassisti e se la cavava male solo sotto il profilo della privacy. Oggi l’unico aspetto positivo rimasto a Fon/Uber/AirBnB e il resto degli innovatori tecnologici usciti da economia (ie: che costruiscono ponti senza conoscere la scienza delle costruzioni) e’ che se ti sparano per usare la macchina per una rapina … visto l’impiego di un cellulare che comunica tutto a tutti (ie: quando lo installi su android ti chiede i permessi di accesso alla rubrica, al microfono, e anche al tuo conto in banca) … quando arrestano il tuo cadavere, dovrebbero essere in grado di trovare abbastanza velocemente quei dati in un qualche datacenter. Se vogliono. Comunque solo dopo una marketta ad Apple: “noi non comunichiamo i vostri dati all’FBI neanche in caso di strage terroristica (tanto se li prendono da soli nei backup iCloud)”. E quindi arrestare quello a cui era stato fregato il telefono pochi minuti prima che ti chiamassero per la macchina. Un innocente a processo ci va, la refurtiva non e’ recuperata, ed i criminali sono serenamente a piede libero; se dice pure bene, l’innocente si fa pure un giro in galera che la carne fresca e’ sempre benvenuta purche’ non occupi troppo spazio in frigorifero. Ma il commissario aggiunge una tacca al suo CV, i PM fanno carriera senza dover fare i processi perche’ sulla carta e’ una pistola fumante (e chi vuoi che vada piu’ a riesaminare una volta che e’ in galera?) e gli avvocati si dividono tra quelli che non vedono nulla (“la mia mailbox gmail e’ speciale” -> “si, e mio nonno aveva tre palle… io ho solo una maglietta con scritto sopra che leggo la tua posta perche’ lavoro per google: sai leggere?”) e quelli che scioperano perche’ c’hanno paura che qualcuno gli spari attribuendo a loro responsabilita’ che oggettivamente (in genere) non hanno. Il ministro dell’interno e quello di Grazia e Giustizia (esiste?) ringraziano: meno costi, piu’ efficienza. Il Governo e’ Buono e Giusto.

    “Nell’ordinamento giuridico italiano il Tribunale del riesame, originariamente denominato Tribunale della libertà, sottopone ad un controllo esterno, non solo di legittimità ma anche di merito, i provvedimenti restrittivi della libertà personale.” ( https://it.wikipedia.org/wiki/Tribunale_del_riesame )

    Che, come spiegato dalla mia ex-ragazza giurista prima che mi denunciasse, “serve solo come trucco giuridico per accedere agli atti prima della prima udienza” (habeas corpus). Dato che non riesamina piu’, io l’ho usato anche per chiudermi agli arresti domiciliari preventivamente, ma non consiglio di fare altrettanto. Perche’ non riesco piu’ ad uscirne. Sono andato a cercare aiuto perfino alle nazioni unite ma la’ … tra profughi e guerre … ne hanno fin sopra i capelli. Alle corti europee (giustizia, e diritti umani) invece ci sono volumi montanti di cause che appaiono impossibili da gestire; e fa rabbia osservare che mentre ci sono violazioni enormi ODIERNE, le cause che arrivano li’ impegnano le corti perfino per vecchie questioni di denaro, es.: donna stuprata nel 1944, ottiene pensione di guerra per 30 anni, nel 1978 decade, le 5 figlie nate negli anni 50 portano avanti la causa anche oltre la sua morte, giocando su cavilli, pur di avere piu’ soldi. A leggere l’atto della corte europea sembra che sia stato piu’ l’avvocato che loro; pero’ fortunatamente uno stupro non e’ transitivo: si sarebbero dovute fermare. Io nel 1978 sono nato, e oggi non posso accedere neanche a quella corte, perche’ impegnata in cause come questa che, con rispetto parlando per l’episodio oggettivamente pesante, al 2013 non dovrebbero proprio esistere. Portano i sistemi formali al collasso, dopo aver gia’ beneficiato per 30 anni di un impegno comune a sostenere una vittima. E’ la stessa cosa che avviene nel sistema sanitario nazionale se tutti vanno a farsi le analisi del sangue tanto per sapere che stanno bene.
    Vedo sempre lo stesso percorso ripetersi: nel 91 craxi, nel 92 falcone e borsellino, nel 93 mani pulite … al 94 (Italian Crackdown) non c’erano risorse per noi. Oggi con gli abusi delle agenzie di sicurezza e’ stata la stessa cosa: con la crisi economica hanno manovrato riducendo il tenore di vita generale, ma solo per spartirsi il malloppo. E alla fine del tunnel non ci sono risorse per noi.

    A te piuttosto come va? Hai riesaminato, in-coscienza, l’intera tua vicenda Buongiorno Vitaminic Spa? Continuo a credere che noi informatici siamo innocenti per definizione – di tecnostruttura “le persone che decidono”, non i tecnici delle macchine usate da chi decide – ma altrettanto in-coscienza ancora non riesco a spiegare perche’ non voglio lavorare (alle dipendenze della tecnostruttura, per 4 noccioline). Non ho problemi a spiegarlo in lungo e in largo, in 4 lingue diverse, piu’ quelle informatiche; ma non e’ una questione di parole. I venditori di porchetta al mercato, e gli avvocati, sono piu’ bravi con le parole; e godono di un enorme pregresso a convalidare le proprie ragioni in punta di chiacchiera. Ai tempi della Lewinsky – cioe’ prima del DMCA – andava meglio. Oggi non riesaminiamo piu’ nemmeno li’ dove e’ doveroso (perche’ un uomo e’ punito in attesa di giudizio), figuriamoci se esista perfino un tribunale dove veder riconosciute le proprie vicissitudini senza manipolazioni off-side-track.

    L’intera idea di ‘mercato dell’informazione’ e’ aberrante. Per questo le iniziative di successo si deteriorano rapidamente una volta finiti i finanziamenti iniziali, nel tentativo di rendersi remunerative. E questo degrado rapido, se sovrapposto alla vecchia tecnostruttura tradizionale (con l’idea di aumentare i posti di lavoro mantenendo il pre-esistente), la rende criminale. Non si tratta solo della new economy. Nel procedere in termini di mercato hanno riprodotto gli stessi paradossi pre-esistenti. E non si tratta solo di tradimenti delle aziende nei confronti dei titolari degli asset condivisi. E’ sistemico, ed e’ criminale.

    “Leonardo Sciascia scrisse ‘La più completa ed essenziale definizione che si può dare della mafia, crediamo sia questa: la mafia è un’associazione per delinquere, coi fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si impone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato’.” ( https://it.wikipedia.org/wiki/Mafia )

    Se non eliminiamo le intermediazioni – es: manager, giuristi, padroncini, non informatizzati, che richiedono un informatico per funzionare, e a cui poi addossano le loro responsabilita’ quando saltano fuori i guai – la nostra societa’ diventera’ sempre piu’ violenta. Un consiglio per concludere: confronta questa definizione di associazione per delinquere di stampo mafioso, con quella in vigore. A me pare ovvio che l’impianto esistente e’ sbagliato. Terribilmente sbagliato.

 
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