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Archivio per il mese di Dicembre 2007


giovedì 13 Dicembre 2007, 11:59

Tarallucci e bare

Ci sono molte strade che portano da casa mia al mio ufficio; ma solo quella che ho scelto ieri, in bicicletta dopo l’ora di pranzo, passa davanti all’acciaieria della Thyssen-Krupp. Ieri peraltro era una giornata magnifica; non c’era una nuvola, il cielo era azzurro e le montagne innevate facevano da cornice al silenzio irreale dello stabilimento, che si specchiava nel parco che gli sta di fronte. C’erano solo tre macchine nel parcheggio, e tutto era immobile. Lo spettacolo era magnifico e quindi ancor più straziante, come una celebrazione fredda di una gloria triste.

Oggi è il giorno dei funerali, e Torino si ferma per lutto. Eppure, proprio questa mattina ho sentito da Radio Flash una notizia che mi ha spiazzato. Un giornalista della radio, intervistando un sindacalista, ha chiesto conferma di una voce che gira, e cioè del fatto che i parenti delle vittime abbiano cominciato a chiedere denaro ai giornali e alle televisioni per concedere interviste. Il sindacalista ha confermato la cosa, infilando poi una serie di giustificazioni relative alle spese da sostenere e ai figli da sfamare.

Non so se la notizia sia vera; potrebbe essere il risultato di una frase detta sarcasticamente e male interpretata, o una leggenda metropolitana ingigantitasi fino ad essere raccolta da un giornalista poco attento alle fonti. A ben pensarci, però, la notizia è perlomeno verosimile; perché tutti ormai hanno imparato che le ospitate televisive e le interviste possono essere monetizzate, non solo da personaggi dalla fedina un po’ dubbia come il marocchino di Erba, ma persino da assassini veri e propri come il rom di Appignano del Tronto.

E quindi, devono avere pensato alcuni dei parenti, se i media sono pronti a coprire di denaro gente del genere, perché non dovremmo chiederne un po’ anche noi? In fondo, non riesco a dargli torto: certo, sarebbe stato più bello rifiutare le interviste con un no sdegnato, magari come forma di protesta per il disinteresse precedente (anche se da mesi il problema delle morti bianche appare stabilmente tra i titoli di molti giornali e telegiornali, per cui per una volta non getterei la croce sui media, ma piuttosto sui politici e sugli imprenditori). Certo, per queste famiglie sono già state raccolte centinaia di migliaia di euro, grazie alle donazioni del pubblico, e insomma almeno il problema economico sarà meno pressante, anche se è una magra consolazione. Però, tutto sommato, queste persone hanno semplicemente capito che il proprio dolore ha un valore, e che non riscuoterlo sarebbe stato più che altro un regalo alle aziende della comunicazione, che certo non ne hanno bisogno.

Tuttavia, anche se la razionalità porta ad accettare anche questo comportamento come logico, c’è qualcosa nel profondo che non mi lascia tranquillo. A me hanno insegnato che la vita umana non ha prezzo; in fondo, è quello che tutti ripetiamo quando si parla di sicurezza sul lavoro. La grande tragedia dell’acciaieria ha avuto il merito di sollevare finalmente le coscienze, di spostare il problema della sicurezza sul lavoro da un mero piano economico a quello che gli compete, di potenziale tragedia individuale e collettiva che richiede uno sforzo morale. Grazie a questo, per un paio di giorni si è intravista la vaga possibilità che si faccia veramente qualcosa, che qualche cosa cambi rispetto alla disattenzione e alla corruzione che hanno permesso questa e altre tragedie.

Mescolare tutto ciò con il denaro rischia di sgonfiare in un attimo questo miracolo sociale, e di riportare tutta la faccenda dal piano morale a quello dell’arrangiarsi all’italiana. Di far sì insomma che anche questa tragedia, come troppe altre tragedie nel passato dell’Italia, si chiuda infine nell’oblio e con un nulla di fatto: a tarallucci e bare.

[tags]torino, thyssenkrupp, morti bianche, media, denaro[/tags]

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mercoledì 12 Dicembre 2007, 08:45

L’Italia tribale

Della protesta dei camionisti parlano tutti i giornali (e io sono anche rimasto senza benzina). Che cosa ne pensi è ovvio: se è sacrosanto il diritto di sciopero – che pure deve avvenire all’interno di una regolamentazione, per rispettare anche la necessità di non fermare i servizi vitali alla collettività – è inaccettabile che questo venga accompagnato da blocchi stradali, pestaggi di chi non sciopera e danneggiamenti ai camion che tentano di circolare comunque.

In paesi come la Francia e l’Inghilterra, a scioperi ben meno violenti di questo si è opposta una semplice considerazione: non si tratta con chi usa la forza o ricatta la collettività al di fuori delle regole previste per lo sciopero. Ha sempre funzionato; magari dopo una settimana, ma alla fine quella settimana di resistenza ha evitato chissà quante settimane di futuro caos.

In Italia, però, invece di Brown o Sarkozy abbiamo nonno Prodi, uno che si fa prendere equamente a pesci in faccia dai tassisti, dalla Romania e persino dai propri alleati. E quindi, già immagino che il governo calerà le braghe anche stavolta.

La cosa veramente preoccupante, però, è – se vera – quella che emerge da un sondaggio di Repubblica, secondo il quale un italiano su tre approva questa forma di protesta. In parte è il risultato di trent’anni di degrado morale, che porta molti a credere che sia normale usare posizioni di forza per imporre i propri interessi individuali, e chi forza non ha è giusto che subisca e se la prenda in saccoccia. In parte però è il segnale di un malessere profondo, per cui una parte importante della società ha raggiunto un livello tale di sfiducia e disperazione da trovare giusto l’uso di qualsiasi mezzo, compresi il ricatto e la violenza, per portare a casa qualche euro in più per se stessi a danno degli altri. Disgregatosi dal resto, il gruppo a cui si appartiente non è più una componente della società, ma una tribù che vive per sé e lotta contro tutte le altre.

Se così è, ci aspetta a breve una guerra civile fredda, tutti contro tutti a colpi di chi danneggia di più il Paese, per strapparsi di bocca un tozzo di pane qui ed ora, senza preoccuparsi dell’interesse generale e del futuro; e senza rendersi conto che una società è un ecosistema integrato, una unica barca in cui gli squilibri e i privilegi sono certo possibili sul momento, ma alla lunga, nel mare più grande dell’economia globale, si vive o si perisce tutti insieme.

[tags]sciopero, camionisti, prodi, società, italia[/tags]

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martedì 11 Dicembre 2007, 16:55

Bluray

Comprando la PS3, Fnac mi ha omaggiato di un buono sconto di 10 euro per l’acquisto di un ulteriore bluray disc – di loro costerebbero soli 29 euro, anche se Fnac li fa a “prezzo verde” a 25. (Ormai da Fnac quasi qualsiasi cosa è a “prezzo verde”, incluse le console, che pure sono vendute allo stesso prezzo che altrove; questo perché i prodotti a “prezzo verde” sono esclusi dallo sconto del 5% a cui ogni nuovo socio Fnac ha diritto per il primo giorno…)

Così oggi, trovandomi in centro con un quarto d’ora di buco tra due appuntamenti, sono entrato nel negozio di via Roma, ho snobbato le pur interessanti offerte nel settore DVD (ad esempio Memories di Otomo a 10 euro: sono molto tentato), e ho guardato uno per uno tutti i bluray disponibili.

Ce n’è già parecchi, almeno tre piani di scaffale: diciamo un centinaio di titoli. Il mio occhio è stato subito attratto dalla collezione di Kubrick: ho già i DVD, ma vuoi non vedere Arancia Meccanica in alta definizione? Eppure, guardo sul retro e scopro il trucco: semicoperta dall’etichetta del prezzo, in carattere corpo otto, la tabellina tecnica dice “video in risoluzione 480p/480i”. In altre parole, hanno preso il bobinone usato vent’anni fa per mandare il film su Retequattro e l’hanno digitalizzato tal quale, a qualità televisiva e con tanto di bande nere sopra e sotto: altro che alta definizione…

I titoli moderni, invece, sono alla risoluzione giusta, ossia 1080p – anche se mi chiedo se non si siano limitati a fare interpolazioni gaussiane senza quindi aumentare la qualità… Però sono uno peggio dell’altro; solo film orèndi o comunque di scarsissimo impatto estetico, dove quindi il bluray è sprecato: che senso ha vedere Rocky in alta definizione?

Il meno peggio che ho trovato è Black Hawk Down; ma non sono ancora convinto. Possibile che non ci sia niente di più spettacolare?

[tags]bluray, bd, alta definizione, kubrick, fnac[/tags]

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lunedì 10 Dicembre 2007, 15:10

Next generation

Nel weekend mi sono fatto il regalo di Natale anticipato: mi sono comprato la Playstation 3.

Sono stato a lungo incerto, perchè la Xbox 360 costa nettamente meno, al momento è più o meno equivalente in termini di resa (anche se in teoria, in termini di CPU, la PS3 è devastante) ed è anche migliore come media center. Però alla fine non ho retto all’idea di avere un oggetto Microsoft in casa, e sono rimasto fedele a Sony: un caso da manuale di effetto da brand marketing.

Sono così andato da Fnac e ho preso la scatola, o meglio ci ho provato, perché non sono riuscito a sollevarla. Dopo dieci minuti di pratica con un manubrio da quindici chili sono finalmente riuscito a gestirne il peso: ma in cosa è fatta, in piombo? Per 415 euro invece di 400, ho acquistato la confezione contenente anche il bluray disc di 300: vuoi mica avere un nuovo dispositivo ottico e nemmeno un supporto da provare…

La prima impressione è moderatamente positiva; l’estetica è carina, anche se da davanti la console sembra un videoregistratore dei primi anni ’80. Complice il mio DHCP locale, l’installazione e la registrazione in rete non hanno avuto problemi, e l’idea di farti scaricare filmati e demo direttamente da dentro la console è effettivamente interessante.

Il mio unico gioco per ora è Guitar Hero III, che è un po’ una delusione: sono cambiati gli sviluppatori e direi che la piacevolezza di esecuzione ne ha risentito, e per aggiungere qualcosa di nuovo hanno inserito un minigame di devastante bruttezza che dimostra di non capire che alla gente piace Guitar Hero perché si suona, non perché si smanetta col controller. In più, bisogna disabilitare – dalle opzioni della console – l’uscita audio DTS e limitarsi ai due canali stereo, altrimenti tra il video e l’audio ci sarà un ritardo tale da rendere il gioco completamente ingiocabile. Sono comunque curioso di provare la modalità di sfida in rete, che dicono funzioni sorprendentemente bene (ma il ritardo come lo gestiranno?).

Nel frattempo, in attesa dell’uscita in primavera di Rock Band e di Dynasty Warriors 6, siete liberi di suggerirmi qualche bel gioco da acquistare…

[tags]console, playstation, ps3, xbox, guitar hero[/tags]

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sabato 8 Dicembre 2007, 18:11

Cacca

A rischio di andare controcorrente, volevo dire la mia sul caso Luttazzi, cacciato da La 7 dopo poche puntate per una frase disgustosa (in senso letterale) su Giuliano Ferrara.

Io sono tutto sommato d’accordo con La 7: è vero che la frase in sé non era poi così offensiva, però era chiaramente superflua e di cattivo gusto, e di televisione di cattivo gusto ce n’è già troppa.

Il problema è che Luttazzi come comico non è un granché, visto che – oltre a scopiazzare il formato dei propri programmi da Jay Leno e David Letterman – si riduce spesso a provocare sul piano personale e a parlare di cacca come i bambini di sei anni, evidentemente perché altrimenti non saprebbe cosa dire per far ridere. La cosa è ancora più triste perché, depurate dalla cacca e rese invece su un piano presentabile, le cose che dice sarebbero spesso degne di ascolto.

Se invece ciò non accade, probabilmente è per via di una personalità antisociale e istrionica che lo spinge – magari come reazione al fatto che, pur tornato in televisione dopo sei anni di polemiche, non molti si erano accorti del suo show – ad attraversare il limite massimo della decenza. E poi, come troppi italiani, quando lo cacciano perché non è capace a fare il proprio mestiere (anche se, altrettanto all’italiana, chi di dovere agisce quando ad esserne toccato è un amico, altrimenti se ne frega) Luttazzi fa la vittima e si attacca alle teorie del complotto.

E io proprio non riesco a pensare che irridere ed umiliare un qualsiasi essere umano non importa quanto antipatico, presentandone ad alcuni milioni di persone l’immagine mentre viene coperto di feci, sia “libertà di opinione”; a maggior ragione se avviene tramite il mezzo televisivo, che ha un grande potere, e a cui quindi è associata una grande responsabilità.

[tags]luttazzi, ferrara, la 7, cacca, decameron, censura, libertà di opinione[/tags]

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sabato 8 Dicembre 2007, 12:17

Scripta volant

Negli ultimi giorni in Italia si è scatenata una ampia discussione a proposito di DRM e protezione tecnologica del diritto d’autore, partendo da un appello di Leonardo Chiariglione a Rutelli uscito su Punto Informatico e su varie mailing list.

Spero prossimamente di preparare un post più completo, ma nel frattempo segnalo la buffa sensazione che ho provato scoprendo che Anna Masera, nel suo blog, ha utilizzato un pezzo di un mio messaggio per spiegare i diversi punti di vista sull’argomento. Ne sono onorato, ma è sempre interessante osservare come poche righe scritte di getto una sera, seduto sulla mia scrivania ovale, ancora rincretinito per essere giunto a casa da pochi minuti dopo quindici ore di viaggio intercontinentale, possano finire dritte sulla stampa. In un certo modo è anche spaventevole, ma tanto io sono incosciente e continuerò a dire senza patemi ciò che penso.

Resta però un ultimo dubbio: come ha fatto Masera a includere in un articolo pubblicato giovedì mattina (almeno a giudicare dalla data del primo commento) un pezzo di un messaggio da me scritto giovedì sera?

[tags]drm, diritto d’autore, masera, blog, citazioni[/tags]

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venerdì 7 Dicembre 2007, 15:47

I diritti umani e la Cina

Dopo questa settimana di racconti, ci tenevo a parlare del tema più caldo e complesso: la Cina e i diritti umani.

E’ molto difficile giudicare il livello di rispetto dei diritti umani in un Paese da una visita di una settimana, limitata alla capitale, e senza avere grandi possibilità di interazione con i locali. Al giorno d’oggi, qualsiasi regime sa che l’immagine pubblica è fondamentale, per cui è improbabile che violazioni e restrizioni siano facilmente visibili, specialmente agli occhi degli stranieri in visita.

Eppure, io sono arrivato in Cina con in testa le tradizionali immagini dei regimi autoritari di tutto il mondo: mi aspettavo polizia ovunque e propaganda dappertutto. Ho trovato invece una città sostanzialmente uguale alle nostre, piena di palazzi di vetro, centri commerciali, pubblicità e gente indaffarata. Ho avuto la sensazione di un luogo sicuro, dove – a parte la folla di venditori di paccottiglia nei luoghi turistici – nessuno ti assalta per strada; se questo sia dovuto a paura di repressione o semplicemente a una moralità più diffusa, non lo posso sapere. Ci sono, è vero, telecamere dappertutto, anche se non ho idea di come vengano utilizzate – e peraltro ormai è così anche da noi. Ma non ci sono certo squadroni della morte e desaparecidos (del resto i dissidenti sono processati e condannati per terrorismo, mica ammazzati per strada).

Mi aspettavo un Paese dove l’informazione fosse rigidamente controllata, dove sui giornali apparissero zone vuote al posto degli articoli censurati – come accadeva col fascismo – e dove la gente avesse paura di parlarti per strada. Nulla di più sbagliato; forse era così fino a dieci anni fa, ma nel centro di Pechino le edicole vendono Newsweek e Sports Illustrated e i negozi sono pieni di marchi occidentali; e si pubblica un giornale in lingua inglese – il China Daily – su cui ho letto editoriali che descrivono la libertà di espressione come un elemento fondamentale per la realizzazione di una giusta società socialista. (Naturalmente il giornale in lingua inglese è alla portata di pochi locali, e quelli in cinese potrebbero essere ben diversi.)

Resta, è vero, la buffa sensazione di cliccare su un link a Wikipedia e vedere la connessione andare magicamente in timeout, e però è più una curiosità che un problema, visto che io, da un albergo pieno soprattutto di cinesi, ho potuto leggere online tranquillamente i giornali e i blog italiani, usare Google in italiano (chissà se riconosce che vengo dalla Cina e aggiusta i risultati?), e leggere le mie mailing list dove si parla di diritti umani ogni due post. Non si è presentato alcun poliziotto alla porta; può darsi che sarebbe successo se non fossi stato un turista occidentale, non lo posso sapere.

Abbiamo avuto occasione di parlare con i locali; seduti in un elegante caffè della zona delle aziende tecnologiche, ci hanno detto tranquillamente che in Cina c’è molta disoccupazione perché tutti i giovani vogliono andare in città, studiare e andare a fare gli impiegati, e nonostante la crescita non c’è posto per tutti; e ci hanno persino detto che anche là esistono le raccomandazioni. Non mi sono parsi affatto spaventati all’idea di esporre queste critiche; il più spaventato era l’accompagnatore per la Grande Muraglia, quando gli abbiamo offerto la nostra frutta secca e lui ci ha detto che, se il capo avesse saputo che lui accettava cibo dei clienti, sarebbe stato licenziato in tronco. Ma mi sembra una misura di cortesia, non una forma di repressione ideologica.

Insomma, non metto in dubbio che in Cina esistano i campi di lavoro forzato, le persone incarcerate per avere chiesto riforme, e un uso significativo della pena di morte. La Cina di oggi, però, è solo un lontano parente del regime autoritario comunista che mandava i carri armati contro gli studenti; assomiglia forse più a una nazione dove un gruppo di potere seduto su una montagna di soldi cerca di utilizzare le proprie prerogative per rintuzzare chi potrebbe mettere tale potere a rischio; esattamente come l’Italia o gli Stati Uniti. La differenza – ed è una differenza non da poco – è che in Italia il giudice che indaga su Mastella o D’Alema viene trasferito e il politico che critica il segretario del partito non viene ricandidato, mentre in Cina potrebbero finire in prigione per dieci anni; ma tale differenza sta nella quantità della punizione, non nell’approccio in sé.

Anche le più visibili manifestazioni dell’autoritarismo cinese sono spesso fraintese. Il desiderio di inglobare Taiwan, per dire, non è tanto una mania espansionista quanto una riunificazione, visto che Taiwan rimase separata dalla Cina semplicemente perché fu l’unica regione dove la guerra civile cinese non fu vinta dai comunisti ma dai nazionalisti, e l’avvento della guerra fredda congelò la Cina divisa, esattamente come la Germania. La stessa questione della sovranità del Tibet è complessa, fatta di trattati contrapposti e talvolta discordanti, risalenti a vari periodi degli ultimi cento anni. La repressione del culto del Falun Gong è una violazione di diritti umani, eppure tutti i paesi occidentali reprimono le sette religiose (vedi Scientology in Germania) quando ritengono che esse siano pericolose per i propri cittadini.

Insomma, se da una parte la Cina ha ancora molta strada da percorrere, dall’altra mi pare che con essa si usi, spesso per ignoranza o per la semplificazione operata dai media, un metro di giudizio particolarmente duro, che non si usa invece nei confronti di se stessi o di paesi più “amici”.

Credo però che il nocciolo di questa discussione possa stare in un assunto che sembriamo dare tutti per scontato, e che invece andrebbe perlomeno motivato: siamo così sicuri che a tutte le società del pianeta si debba applicare la visione occidentale del rapporto tra individuo e società, basata sulla totale supremazia della libertà individuale rispetto alle esigenze collettive?

La Cina, per via delle proprie radici confuciane ben più che di quei sessant’anni di comunismo, ha un rapporto tra le due cose totalmente opposto rispetto al nostro: prima vengono le esigenze collettive – la morale comune, gli obiettivi condivisi, l’equilibrio sociale – e poi viene la libertà del singolo. Se chi governa ordina di radere al suolo un isolato per costruire una stazione della metropolitana, spostando gli abitanti trenta chilometri più in là, per noi sta violando i diritti dei singoli abitanti; per loro sta semplicemente facendo ciò che è complessivamente meglio per tutti, evitando inoltre l’immobilismo dovuto a un piccolo gruppo che tiene in ostaggio la collettività, modello “non nel mio cortile”. L’attacco all’ordine costituito non è quindi un esercizio di democrazia, ma un comportamento antisociale ed egoista.

Dovreste vedere lo spettacolo di migliaia e migliaia di persone che si muovono come api nella metro di Pechino, per capire quanto sia difficile immaginare che una società così densa possa sopravvivere senza un rigido ordine. Allo stesso tempo, questo ordine è pieno di disordine creativo, e di gente sorridente; sarà anche per aver messo la polvere sotto il tappeto, ma il tappeto dei cinesi appare piacevole per tutti quelli che vi sono seduti sopra, e la densità di nuove aziende, nuovi negozi, nuovi palazzi, nuove infrastrutture testimonia come la libertà personale di intraprendere sia tutt’altro che impedita, finché non si va al di fuori dei limiti collettivi.

Noi occidentali continuiamo a vantarci della nostra presunta libertà, contrapposta al presunto autoritarismo cinese; eppure si respira un’aria molto più libera e piena di opportunità a Pechino, dove tutti corrono e fanno e dove non hai paura di venire scippato per strada, che a Los Angeles, dove c’è l’atmosfera cupa della segregazione razziale di fatto e dove se giri l’angolo sbagliato rischi di beccarti una pallottola vagante.

Penso sempre di più che l’argomento dei diritti umani in Cina, iniziato dal basso in totale e giustificata buona fede, sia per i poteri occidentali anche una comoda scusa per mettere in difficoltà politica un rivale economico che ha trovato un interessante compromesso tra libertà, solidarietà sociale e crescita economica, e per tentare una colonizzazione culturale. Vedendo il disastro morale delle società occidentali, ammetto di sperare che a Pechino smettano di filtrare Wikipedia e di arrestare chi critica, ma si guardino bene dall’adottare tout court i nostri modelli sociali.

[tags]diritti umani, cina, libertà[/tags]

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giovedì 6 Dicembre 2007, 22:23

Hairspray

Interrompo la sequenza di post sulla Cina (ma non ho ancora finito) per segnalare che sull’aereo ho visto Hairspray, edizione cinematografica uscita di recente di un musical di grande successo a Broadway. La storia è ambientata nell’America del 1962, dove una studentessa di liceo partecipa a uno show televisivo cercando di promuovere l’integrazione dei neri.

In pratica, fin dal primo secondo appare in scena una perfetta sconosciuta: tal Nikki Blonsky, diciottenne gelataia di Long Island, un metro e quarantasette per un’ottantina di chili. La presenza scenica certo non le manca; tuttavia la ragazza balla e canta alla grande, e nonostante le mettano a fianco nell’ordine:
1) John Travolta e perdipiù vestito da donna;
2) Christopher Walken;
3) Michelle Pfeiffer, che canta davvero bene;
4) Queen Latifah, che notoriamente ha una voce eccezionale;
5) Zac Efron, cioè il protagonista di High School Musical, idolo delle ragazzine;
6) James Marsden, aka Ciclope di X-Men;
7) e persino una “amica del cuore” alta un metro e ottanta, bionda e supergnocca nella persona di Amanda Bynes,
il film è completamente rapito dalla sua performance, tanto è vero che verso due terzi la devono portare fuori scena di peso per riuscire a far vedere un po’ anche il resto del cast, peraltro con esiti deludenti (il lunghissimo, inutile duetto tra Travolta e Walken è nettamente il momento peggiore del film).

In più, la colonna sonora è davvero bella, raccogliendo – oltre al classico rock’n’roll – un po’ tutto lo stile Motown, dagli esordi fino ai Jackson Five (e tra l’altro il ragazzino nero, Elijah Kelley, è veramente molto bravo); e i numeri sono ben coreografati. Insomma, vale la pena di vederlo, almeno se non siete tra quelli che sono intolleranti ai musical.

[tags]hairspray, musical[/tags]

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mercoledì 5 Dicembre 2007, 17:42

Ritorno

Ho appena finito di chiudere la valigia; domani mattina, sveglia presto e aereo del ritorno.

Sono molto contento di essere venuto in Cina; è stato un primo contatto con un mondo affascinante, su cui c’è moltissimo da imparare. Mi è venuta voglia di imparare la lingua e comunque di tornarci per capirne di più.

Ci sono ancora molte cose che vorrei raccontare, anche se di solito succede che appena rimesso piede in Italia vengo avvolto dalle cose da fare e non riesco più a mettermi a scrivere. L’impressione che però si ha della Cina, vedendola da vicino, è piuttosto diversa da quella che noi occidentali ci aspetteremmo. Per certi versi non è molto diversa da quelli di un qualsiasi paese in crescita, e Pechino potrebbe davvero essere una qualsiasi città del Nord Europa, solo molto più estesa sia in orizzontale che in verticale, visto che siamo in Asia e la densità di persone negli agglomerati urbani è quella che è. E’ probabilmente la città più ordinata e sicura che abbia visto nei miei viaggi fuori dall’Europa; in confronto, le città degli Stati Uniti sembrano la peggior America Latina, piene di barboni, di degrado e di ricchi chiusi in torri d’avorio. Qui la ricchezza appena trovata è percepibile, ma non lo sono le disuguaglianze sociali (che pure ci sono); e la cosa che ti colpisce di più camminando per la strada è che praticamente tutti, ricchi e poveri, sembrano piuttosto contenti, e pieni di cose da fare.

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martedì 4 Dicembre 2007, 17:40

Cucina

Stasera ci siamo superati: siamo finiti in un ristorante di lusso (tipo 60 euro a testa, che per qui sono una cifra astronomica) dove ci hanno cucinato teppanyaki davanti agli occhi, con tanto di esibizione acrobatica con coltelli e macinapepe, e ho persino assaggiato il manzo di Kobe, che effettivamente è molto particolare, con il grasso e la carne tutti mescolati, e si scioglie veramente in bocca.

Ma la cucina qui è in generale buona: nulla a che vedere con il cinese che si mangia in occidente (tranne che a Vancouver, dove avevo mangiato della cucina cinese vera). E’ fatto con ingredienti freschi, pesce carne uova e verdura, e ha un sapore vero, di cibo, non come la roba precotta che prendiamo noi, e che è in realtà l’equivalente di una pizza surgelata.

Uno dei picchi di piacere è stato il pesce in casseruola cotto sotto la montagna di peperoncini rossi che devo aver già menzionato qualche giorno fa; ma la cosa più particolare è stata il beijing pancake mangiato sotto la Grande Muraglia, in una bancarella in mezzo alla via. Ho anche il filmato della preparazione (che non ho ancora scaricato) – in pratica è un pancake coperto da uno strato di uovo, poi con un po’ di cavolo e con una roba croccante dentro, che non ho capito cos’è ma potrebbe essere fritto di fritto con fritto. Tutto ciò, oltre a costare un euro e mezzo, era buonissimo, anche se poi ho dovuto abusare di Dissenten per calmare il mio stomaco.

Peccato però che la cucina pechinese sia uniformemente basata su due elementi profusi in abbondanza, cioè salsa di soia e aglio tritato. Ad esempio, stasera il contorno della bistecca erano circa quaranta (non scherzo) spicchi d’aglio fritti. Oppure, l’altra sera uno di noi ha ricevuto una insalata composta per metà di fagioli e per metà di aglio tritato.

Così dopo un po’ ci è venuta nostalgia, e quindi abbiamo sbracato, siamo andati nella zona dei locali vicino alla stazione della metropolitana e ci siamo infilati nel Bravo, un fast food italiano. Ebbene, l’ambientazione lasciava qualche dubbio – sulle scale c’erano due gigantografie, una della Torre di Pisa e l’altra di un castello della Loira – e invece, non ci crederete, la pasta era pasta, e sarebbe stata passabile persino in un bar o tavola calda in Italia. La pasta al pesto aveva persino i pinoli, ed erano proprio pinoli! D’altra parte i cinesi copiano tutto alla perfezione, vuoi che non siano capaci a copiare la pasta al pesto?

[tags]manzo di kobe, pasta, beijing pancake, grande muraglia, dissenten, cina, cucina, cu[/tags]

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