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Archivio per il mese di Agosto 2008


lunedì 11 Agosto 2008, 17:29

Oltre (3)

Ci sono molte cose del Giappone che non ho ancora avuto tempo di raccontare. Oggi, per esempio, sento l’esigenza di farvi vedere qualche video tratto dalla mia passeggiata di domenica pomeriggio da Shinjuku a Shibuya, passando per il parco Yoyogi.

Non ho avuto tempo per attraversare per intero il parco, ma mi è bastato spingermi a pochi metri dall’ingresso principale per osservare tre diverse attrazioni. La prima sono i famosi rockabilly di Yoyogi: gente che non sa ballare, non sa cantare e non sa suonare, ma che è oltre. Molto oltre.

Altrettanto oltre era questo gruppo di ragazzi che poco più in là mettevano in scena un cosplay in piena regola. Purtroppo l’audio è scarso, perché non ho osato avvicinarmi e riprenderli da vicino; in pratica, dal radiolone sul davanti esce una base musicale pre-registrata, mentre loro recitano il loro dramma fantasy in costume secondo un copione ben studiato. L’impegno è ammirevole, il risultato… beh… è di nuovo oltre.

L’ultimo video è l’unico decente: sono gli Stereo Lynch, gruppo indipendente che dispone persino di un sito e di date nei locali alternativi di Tokyo. In effetti questi sapevano suonare e cantare, e così ho registrato un pezzo intero. Stavo quasi per comprargli il disco, poi ho realizzato che ero sotto l’effetto congiunto dei 35 gradi, del 99% di umidità e della Asahi Super Dry.

[tags]tokyo, yoyogi, viaggi, rockabilly, cosplay, stereo lynch[/tags]

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domenica 10 Agosto 2008, 16:10

Cinesi all’italiana

Si è sparsa in un lampo, ieri pomeriggio, la notizia secondo cui i provider italiani stavano provvedendo a censurare The Pirate Bay, il sito svedese che costituisce il più noto aggregatore mondiale di file torrent – i file che, semplificando, contengono i link che permettono lo scaricamento di film, musica e programmi dalla rete peer-to-peer BitTorrent. L’utente che scarica i file commette spesso violazioni del copyright (ma anche no, visto che su queste reti esistono anche molti file resi liberamente disponibili dagli autori); se ne sia responsabile chi fornisce i link che permettono tale operazione, è un altro paio di maniche. L’industria della musica lo vorrebbe, ma in Svezia la legalità di questo sito è stata più volte confermata.

Per qualche ora si è cercato di capire: pare che un magistrato italiano – il pubblico ministero Giancarlo Mancusi, già responsabile di indagini su altri siti del genere, che avevano portato al loro sequestro – abbia inviato ai provider un qualche provvedimento che li vincola a censurare il sito. I provider hanno aderito alla spicciolata; stando alle verifiche organizzate in rete, alcuni hanno provveduto a rendere inaccessibile il suo record DNS, mentre altri hanno bloccato il traffico diretto al suo indirizzo IP, e altri ancora non hanno fatto nulla, forse perché non hanno ricevuto alcuna ordinanza.

Già questo fa capire che questa storia è una barzelletta, visto che, a seconda del provider che vi capita, potreste vedere il sito oppure no. Si sa poi che questi provvedimenti sono inefficaci: e difatti, nel giro di poche ore gli svedesi di The Pirate Bay hanno cambiato l’indirizzo IP e si sono resi accessibili anche al nuovo indirizzo http://labaia.org/, in questo modo aggirando entrambi i tipi di blocco. Hanno poi pubblicato un duro comunicato accusando l’Italia di fascismo; in effetti, abbiamo un Presidente del Consiglio che è anche proprietario del maggiore conglomerato mediatico del Paese, che ha appena fatto causa a Google e che ha soltanto da guadagnare dalla chiusura dei siti che permettono forme alternative di distribuzione dei media.

Il vero problema, però, è che nessuno capisce cosa sia successo dal punto di vista legale. La legge italiana permette alla polizia postale di obbligare i provider a censurare dei siti, ma soltanto in caso di pedopornografia o di gioco d’azzardo non autorizzato. In questo caso, l’unica ipotesi credibile pare che questo giudice abbia ordinato il sequestro preventivo del sito in quanto strumento per commettere reati; ma un sequestro è un provvedimento oppugnabile che va inviato al responsabile. In base a cosa il giudice possa sequestrare un sito obbligando dei terzi a renderlo inaccessibile sfugge a qualsiasi comprensione giuridica.

Inoltre, è chiaro che questo provvedimento danneggia anche gli utenti finali; milioni di utenti Internet italiani che improvvisamente si ritrovano privi della possibilità di accedere a un sito, pur pagando un regolare abbonamento a Internet, che dovrebbe permettere di accedere a qualsiasi sito della rete. Come è possibile per un utente difendere i propri diritti, contro un provvedimento che non si sa cosa dica, a chi sia indirizzato, dove sia stato emesso? Il giudice aveva il potere di ordinare questa censura, e in base a cosa? Se non ce l’aveva, ed è stata una libera iniziativa dei provider, come faccio a denunciare la violazione del contratto di accesso?

Insomma, ciò che lascia davvero scoraggiati è che non siamo nemmeno buoni a censurare i siti in modo ben organizzato; un giudice di Canicattì o di Roccaperetola si sveglia e decide che un sito deve essere cancellato dalla rete, senza alcun contraddittorio o verifica; dopodiché i provider un po’ alla spicciolata fanno quel che vogliono, alcuni censurano in un modo, altri nell’altro, altri non fanno proprio niente; dopo mezz’ora il blocco è aggirato e il mondo ci ride dietro; nel frattempo il cittadino resta lì, con la propria libertà di informazione offesa (almeno teoricamente) e senza saper bene che fare. Cinesi, insomma, ma all’italiana.

Cercheremo di capire meglio come possa stare in piedi (se lo sta, e ne dubito) questo misterioso provvedimento; nel frattempo, chiunque si trovasse il sito oscurato farebbe bene a scrivere al proprio provider e lamentarsi duramente. Non paghiamo certo l’abbonamento ADSL per lasciare che il nostro provider decida a piacimento cosa farci o non farci vedere; almeno su questo, è il caso di insistere.

[tags]internet, pirate bay, censura, giudici, italia, cina[/tags]

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sabato 9 Agosto 2008, 18:52

La buona educazione

Supponete che sia da poco arrivato da voi in ufficio un nuovo collega. Viene da una famiglia umile ed è cresciuto nella miseria, ma ha faticato e ha fatto carriera, e da poco è riuscito ad abbrancare una posizione ben pagata. E’ un po’ spocchioso e primo della classe, però in fin dei conti è capace; ma non vi sta molto simpatico, un po’ perché vi conoscete poco e lui viene da un ambiente diverso dal vostro, e un po’ perché su di lui girano storie inquietanti, come il fatto che ogni tanto picchi la moglie.

A un certo punto il vostro collega annuncia di voler dare entro qualche settimana una grande festa per celebrare il fatto di lavorare ormai da alcuni mesi lì con voi e con un sacco di altra bella gente. E’ consuetudine che, un po’ a turno, qualche collega organizzi un party aziendale; certo, sulle prime alcuni storcono un po’ il naso all’idea che lo faccia questo tizio, e tra questi anche voi, ma alla fine accettate l’invito.

Dopodiché arriva il giorno della festa, e mentre voi mettete piede per la prima volta in casa sua, e lui è tutto orgoglioso di farvi vedere che bell’appartamento si è messo in piedi partendo dal nulla, voi non lo state nemmeno a sentire; mentre arraffate una birra, cominciate a gridare davanti a tutti: “Ehi, stronzo! Lo sappiamo che picchi tua moglie! Ti abbiamo fatto un favore a venire ma sei veramente stronzo!”. Poi, mangiucchiando le sue patatine, continuate a parlar male di lui con tutti gli altri, iniziando dalle foto della sua quinta elementare da cui evincete che, trent’anni fa, picchiava i compagni di classe; anzi, voi e i vostri colleghi più anziani formate un gruppetto in un angolo, isolando il padrone di casa in un angolino con qualcuno dei più giovani, e continuate a sparlarne per tutta la durata della festa, alla fine della quale, afferrando il regalino di benvenuto che lui vi ha porto all’ingresso, ve ne andate senza nemmeno ringraziare.

Ecco, questo non vi sembrerebbe un atteggiamento un po’ maleducato? Eppure è esattamente così che buona parte dell’Occidente si sta comportando con i cinesi in queste Olimpiadi: ha accettato l’invito e l’ospitalità, ma non perde occasione per offendere l’ospite.

I cinesi – tutti, dal primo all’ultimo, non certo solo il governo – vivono questa occasione come il proprio ballo dei debuttanti; il momento in cui possono dimostrare al mondo di avercela fatta, di essere riusciti a ridiventare una nazione grande e importante. Sanno che riceveranno critiche su ciò che ancora non va, ma si aspettano di ricevere con almeno altrettanta enfasi una pacca sulle spalle e un complimento per tutto ciò che sono riusciti a fare – e che è davvero stupefacente – in questi ultimi dieci anni: grattacieli, ferrovie, computer, razzi nello spazio, e centinaia di milioni di persone sottratte all’atavica miseria delle campagne per provare a costruirsi un futuro in nuove città tirate su in un attimo.

I cinesi si sentono in buona misura sotto esame; ma si aspettano che sia un esame oggettivo, non una bocciatura già pregiudicata. Invece, c’è il rischio che, dal loro punto di vista, gli ospiti occidentali si rivelino antipatici e prevenuti, lasciando in loro l’impressione duratura che siano irrimediabilmente stronzi e un po’ barbari proprio come, in Asia, si dice da decenni.

Tanto più che tutto questo accade a fronte dell’amico Putin che durante la cerimonia di apertura manda tank e bombardieri sulla confinante Georgia: e non una autorità occidentale che abbia detto mezza parola, non una bandierina o un girotondo a Piazza di Spagna. Tutti troppo occupati a essere maleducati coi cinesi?

[tags]olimpiadi, cina, russia, buona educazione[/tags]

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venerdì 8 Agosto 2008, 15:28

Nuovo cinema Lufthansa

Da qualche anno non vado quasi più al cinema; la mia principale sorgente di film appena usciti sono diventati i voli intercontinentali. Volevo quindi condividere qualche recensione di ciò che ho visto in questo viaggio.

All’andata, in realtà, non ho visto niente; avevo sonno e ho dormito per tutto il viaggio, e poi non c’era molto da vedere, a meno che non si fosse interessati a Gara di topa in costume, Scarlett Johansson contro Natalie Portman. Ho provato a dare una chance a Emmerich (L’alba del giorno dopo non era male) e ho fatto partire 10000 A.C.; il primo minuto era costituito da una carrellata panoramica, con una voce fuori campo che esponeva delle premesse di una banalità talmente irritante con una pomposità talmente ridicola che ho spento ed è finita lì.

E’ andata meglio al ritorno: mi sono svegliato e ho visto passare delle immagini assurde, una specie di partita a Super Mario Kart però con attori in carne e ossa e immagini super-realistiche in 3-D. Molti attori erano giapponesi e quindi ho pensato di aver beccato un qualche film locale; la trama era un fumettone impossibile sulle gare automobilistiche (fantastico il rally di Casa Cristo, ospitato in un piccolo principato europeo tra le montagne e il mare: solo un giapponese potrebbe trovare un nome del genere come parodia di Monte Carlo) e il montaggio compenetrativo stroboscopico era davvero incredibile, tanto che per i primi minuti ho avuto il mal di mare. Dopo qualche tempo però ho notato una tipa che sembrava tanto Susan Sarandon… e un vecchio panzone che era John Goodman coi baffi… e insomma, alla fine è venuto fuori che era Speed Racer, il nuovo film dei fratelli Wachowski. Merita, ma solo per vedere che anche alcuni occidentali riescono ad essere “oltre” come i giapponesi.

Subito dopo è passato Drillbit Taylor, una graziosa commediola con Owen Wilson che fa il fascinoso scavezzacollo (pare non sappia fare altro). Non passerà alla storia, ma per un’ora e mezza è stata piacevole.

Dopodiché, è arrivato l’ultimo film del programma: The Spiderwick Chronicles, un polpettone immondo e fastidioso che ho sopportato fino alla fine solo perché ero in volo da otto ore, non avevo più sonno e fare qualsiasi altra cosa avrebbe richiesto dello sforzo energetico. In pratica dovrebbe essere un fantasy-horror con acclusa morale e buoni sentimenti, se non fosse che la parte fantastica è originale come una maglietta di Giorgino Armandi, la trama non sta in piedi – mitico quando passano venti minuti a dirsi “ok, dobbiamo trovare Spiderwick” “sì è vero dobbiamo trovare Spiderwick” “oddio, come faremo a trovare Spiderwick?”, poi si mettono in cammino e quindici secondi dopo trovano Spiderwick – e la parte sentimentale è fotocopiata ed appiccicata con lo scotch. L’unico attore decente, Nick Nolte, compare per un totale di quarantacinque secondi e insomma l’unica cosa vagamente salvabile dell’intero film è la magliettina aderente della protagonista femminile.

Sarebbe finita qui, se non fosse che c’era ancora tempo e così, non annunciato, ci hanno messo su Kung Fu Panda. E’ due mesi che rido soltanto vedendo i manifesti che annunciano questo film in mezzo mondo; da “pandamonio” a “fenomeno pandanormale”, il panda Po è diventato una star prima ancora di comparire sullo schermo. (E di fronte a tutto ciò, con cosa risponde la Disney? Con un robottino che spala monnezza. Veramente!) Alla fine il film è proprio divertente, con alcune cose da applauso a scena aperta; forse non perfetto (ogni tanto il regista s’addormenta e il ritmo cala un po’) ma comunque decisamente la cosa migliore che mi hanno fatto vedere in tutto il viaggio.

[tags]cinema, 10000 ac, speed racer, spiderwick, kung fu panda[/tags]

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giovedì 7 Agosto 2008, 03:52

La storia vista dall’altra parte

Sono in partenza – domani mattina alle 6:30 devo lasciare l’albergo e andare a Narita per tornare indietro. Oggi ho perso un’ora alla stazione di Tokyo per capire come fare in anticipo il biglietto del Narita Express; se fare qualsiasi altro biglietto è semplicissimo, per i treni speciali non si possono usare macchinette e quindi mi toccherà fare la coda allo sportello (l’avrei fatta oggi ma non sapevo come comunicare che volevo un biglietto per il giorno dopo a una determinata ora…). Speriamo bene.

Nel frattempo ho scoperto un altro paio di cose interessanti. La prima è che anche in Giappone esiste il cielo blu; è apparso per la prima volta dopo otto giorni e in effetti è stato un po’ meglio, nel senso che il caldo faceva male alla testa (tipo 35 gradi e oltre) ma almeno c’era vento e non si soffocava.

La seconda è che, siccome dovevo già vedere Ginza e il palazzo imperiale, ci stava il tempo per un solo museo; vista la data, ho rinunciato al parco di Ueno e ho scelto lo Yasukuni-jinja, il tempio dedicato ai caduti per la patria sin dalle guerre civili di metà Ottocento; e l’annesso museo della storia militare del Giappone.

Nel tempio ero più fuori posto del solito; non c’era neanche mezza riga in inglese, nemmeno sulle mappe, e anche se non ero l’unico turista ho cercato di passare il più inosservato possibile. Ma il meglio è stato l’annesso museo, in cui, in venti sale, viene esposta con dovizia di particolari la storia militare del paese, partendo dall’epoca dei samurai (infatti ho visto esposte armature e spade davvero splendide).

Così, presto si arriva ai giorni nostri e si comincia a narrare: prima di come il Giappone, nel 1894, sconfisse la Cina per liberare la Corea e darle l’indipendenza, cosa di cui i coreani furono tanto grati che nel 1909 chiesero di propria spontanea volontà l’annessione al Giappone come colonia. Solo che pochi giorni dopo la vittoria contro la Cina i terribili russi dello zar si intromisero e, con la complicità delle altre potenze occidentali, obbligarono i giapponesi a restituire parte dei territori conquistati sul continente; ciò obbligò quindi i giapponesi a contrattaccare dieci anni dopo e sconfiggere i russi.

Dopodiché, nei decenni successivi, vengono riportati decine di “incidenti” in cui truppe giapponesi in vacanza in Cina vennero prese di mira dai cattivi nazionalisti, costringendo il Giappone a liberare la Manciuria e poi anche parti della Cina.

Dopodiché, per circa quattro grandi sale, si narra la seconda guerra mondiale, riportando ogni campagna e ogni battaglia con mappe, reperti, descrizioni e foto dei generali coinvolti (ci sono alcuni bellissimi oggetti, come un aereo-kamikaze e un siluro-kamikaze – sì, li facevano anche sottomarini). E poi, nell’ultima didascalia dell’ultima sala, c’è scritto qualcosa tipo “comunque, alla fine, gli Stati Uniti lanciarono bombe sul territorio giapponese, comprese due bombe atomiche: una a Hiroshima e una a Nagasaki. Così il Giappone si arrese.”. Punto. Fine del museo.

Cioè, non c’è nemmeno una foto, un oggetto, niente che riguardi le bombe atomiche se non quella frase e un paio di didascalie in piccolo di una frase l’una. Seguono solo cinque stanze (un quarto del museo) piene zeppe di migliaia di piccole foto di tutti i singoli militari giapponesi di ogni ordine e grado che sono onorati nel tempio.

Avevo già avuto qualche sospetto che certi argomenti fossero ancora tabù, tanto più se da descrivere in inglese e quindi agli occhi degli stranieri: ad esempio nel museo civico di Otaru si narrava per una intera parete del molo ferroviario sospeso sul mare, orgoglio della nazione, che fu costruito negli anni ’10 e svolse la sua funzione di carico delle navi con grande perfezione finché “it ceased to exist in 1945”. Anche qui, punto e fine spiegazione.

A ben pensarci, trattandosi di un museo di storia militare, credo che parlare e mostrare al suo interno la sconfitta sarebbe vissuto come un insulto ai caduti: il museo vuole onorarli e per il giapponese la sconfitta è il massimo disonore. Certo che – anche avendo letto l’ultimo pannello, che dice qualcosa tipo “le conquiste giapponesi non avvennero invano, perché cacciando gli occidentali e mostrando la potenza di un paese asiatico finirono per portare all’indipendenza di tutti i paesi dell’Asia, quindi l’indipendenza dei paesi asiatici è essenzialmente merito del Giappone” – si capisce perché i vicini abbiano spesso protestato contro la cultura storica dei giapponesi.

[tags]giappone, viaggi, storia[/tags]

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mercoledì 6 Agosto 2008, 01:19

Prospettive di vita giapponese

Oggi ho fatto proprio bene a mettere in programma due cose che i visitatori di breve periodo a Tokyo normalmente non fanno, perché ho avuto un’illuminazione.

La prima cosa è stata quella di investire un po’ di yen in un tour guidato fuori dalla città, a vedere le pendici del Monte Fuji e la zona termale elegante di Hakone. Il tour in sé non è stato il massimo, perché il tempo era coperto e il Fuji si è visto ben poco, ma alla quinta stazione (quasi 2400 metri di altitudine e 28 gradi di temperatura pur in un giorno senza sole) ho di nuovo assaggiato la strabiliante densità di questo popolo: era come andare ad un qualsiasi rifugio alpino di quell’altitudine in estate, solo che invece di esserci un rifugio c’erano sei palazzi di quattro piani, e invece di esserci qualche decina di persone intente a prendere il sole o a partire per le salite più serie ce n’erano probabilmente oltre un migliaio: erano tutti vestiti tecnicissimi da scalatori provetti, ma il sentiero alpino che porta in cima al Fuji era più o meno come via Garibaldi il sabato pomeriggio.

Uscendo dalla città, ho scoperto che il Giappone ha sì 120 milioni di abitanti in un territorio grande come la Germania, ma questi abitanti sono concentrati nel 25% del territorio costituito da pianure o da fondovalli; il rimanente 75% sono montagne praticamente disabitate. Per questo motivo, finché si sta in pianura non si vedono che case, case, case e case a perdita d’occhio per decine e centinaia di chilometri, al massimo – dopo i primi 30-40 km di allontanamento dal centro – inframmezzati da qualche timido campo di riso (non risaia, che a quanto pare qui non li allagano, ma seminano a giugno e raccolgono a ottobre; tanto c’è abbastanza acqua nell’aria per tutta l’estate, è come se le piante fossero a mollo).

Poi, d’improvviso, si arriva al bordo della montagna; e di botto le cose cambiano. Lì gli insediamenti umani sono piccoli villaggi che si fanno faticosamente strada in mezzo a una vegetazione lussureggiante, densissima, quasi impenetrabile; che siano foreste (come per la maggior parte) o prati di erba alta mezzo metro, la natura crea un intrico misterioso che respinge. In più, l’orografia del territorio è labirintica, perché il Giappone non è stato creato da uno scontro di continenti con successiva erosione delle acque, ma da eruzioni vulcaniche che ogni tanto, anche in tempi geologicamente recenti, creavano una nuova montagna dove prima non c’era, in un luogo più o meno casuale.

Si capisce insomma come i giapponesi da una parte si schiaccino in pianura, e dall’altra abbiano questo rispetto atavico per la natura che ce li schiaccia: vorrebbero allargarsi, ma vulcani, terremoti e foreste glielo impediscono.

La sera, poi, sono andato a cena a casa del mio amico Izumi; è un’opportunità molto rara perché non è facile essere invitati in casa da un giapponese. Io mi ero preparato, mi ero portato il regalo, mi ero anche tenuto da parte un paio di calze nuove, ma ero piuttosto teso all’idea di confrontarmi con tutti i vari tabù dei giapponesi, pur se il mio amico ha girato il mondo e in patria è considerato molto occidentalizzato. Invece è stata una bella serata, soprattutto perché ho scoperto un ulteriore livello della cortesia dell’ospite: se il tuo invitato scatarra nel bicchiere perché non sa che è maleducazione (è solo un esempio, non l’ho fatto…), tu non devi semplicemente fingere che vada tutto bene; devi prendere il tuo bicchiere e scatarrare anche tu giurando che quella è la normalità delle buone maniere locali. In alcuni casi ha usato anche l’inganno, ad esempio insistendo perché ci trovassimo alla stazione di Meguro per andare insieme a casa sua, per poi scoprire che casa sua è a 10 euro di taxi, che lui si è fatto una volta per venire a prendermi e una seconda per riportarmi indietro (la terza l’ho pagata io).

Però ho capito una cosa importante: che quel che si vede dall’esterno, cioè la folla inimmaginabile, i formicai umani, il rumore, le luci, la confusione e l’intruppamento, ha un suo contrappeso non evidente nello spazio privato, che pure esiste, nelle viuzze semideserte e silenziose di periferia, e nelle case piccole ma accoglienti che ci si affacciano sopra. Anche esse stracolme di roba, affastellata in modo incredibile, tanto che alla fine mi sono un po’ preoccupato perchè il mio regalo occuperà una trentina di centimetri di diametro e in quella casa è una percentuale significativa dello spazio disponibile. Però tranquille, ben studiate, piene di vecchi mobili di legno o magari di plastica.

La vita è dura per i giapponesi, e noi bene abituati non sappiamo nemmeno immaginare quanto: io sono andato via alle undici e mezza e la figlia più piccola del mio amico, vent’anni e qualcosa, non era ancora tornata dal lavoro come commessa in palestra; i giapponesi lavorano sei giorni su sette, per tutto il giorno e spesso anche la sera, e per riprendersi hanno una settimana di ferie l’anno. Non è un caso che sui treni del sistema ferroviario più efficiente del mondo, dove nulla si rompe mai e un minuto di ritardo vale le scuse in ginocchio dell’intera azienda, si leggano continuamente nei pannelli informativi, tutti i giorni, uno dietro l’altro, annunci di questa o quella linea bloccata per “incidente”. Dopo dieci minuti, pulito il sangue, i pendolari ricominciano a scorrere.

In origine, dal dopoguerra fino agli anni ’80, tutto questo sacrificio – quello che ti viene richiesto in quanto piccola rotellina senza spazio di manovra, ma con l’orgoglio di contribuire al fatto che la tua comunità primeggi nel mondo – era ripagato da una grande ricchezza collettiva, che faceva essere i giapponesi danarosi quasi quanto gli arabi. Da quindici anni, dopo la crisi e la globalizzazione e l’esplosione degli odiati cugini cinesi, non si vede nemmeno più bene il perché di tutto questo; se non, forse, per godersi per sei o sette ore al giorno – tra vita, pasti e sonno – quei pochi metri quadri di periferia.

[tags]viaggi, giappone, ospitalità, fuji, jinshinjiko[/tags]

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martedì 5 Agosto 2008, 01:11

Shopping

Oggi è stato il giorno dello shopping: infatti al mattino sono andato al Museo d’Arte Ghibli di Mitaka, con annesso negozio di souvenir appropriatamente denominato Mamma Aiuto!; poi, approfittando dell’essere sulla strada, mi sono fermato a Nakano per vedere il famoso Mandarake, dove ho comprato un paio di numeri uno di manga giapponesi tanto per averli, ma soprattutto ho osservato il disfacimento umano di ragazzi nipponici che passano le giornate a collezionare gasshapon di Nami di One Piece seminuda in quindici posizioni diverse; e infine sono andato a Akihabara.

Il museo Ghibli è stato per certi versi una delusione, nel senso che il museo è più che altro un complemento del negozio, e in più è veramente centrato sui bambini; allo stesso tempo, due o tre cose lì dentro sono comunque magiche. Poi è stato bello vedere la riproduzione dello studio e del processo di produzione, con un sacco di meravigliosi sfondi dipinti a mano con la tempera, prima di sovrapporre il rodovetro con i personaggi animati; quando li vedi nel film non ti rendi conto di quanto siano perfetti… tanto è vero che una sezione del museo è dedicata a un gemellaggio col Louvre che ospita riproduzioni rimpicciolite della Gioconda e di altre opere, con un effetto per noi buffissimo (anche perché metà delle didascalie in francese erano sbagliate).

A parte questo, in tutto il museo non c’è mezza riga in lingua altra dal giapponese, però se uno conosce un po’ di tecnica dell’animazione e un po’ di opere di Miyazaki se la cava lo stesso. Alla fine sono stato quasi tentato di fare la follia e calare 250 euro per un fotogramma originale (completo, sfondo più rodovetro) di Mononoke Hime, ma poi mi sono trattenuto; comunque, qui è uscito da due settimane Ponyo della scogliera sul mare e, anche se è evidente il tentativo di produrre un nuovo Totoro, i bambini erano tutti lì per quello. Ah, e per salire sul nekobus di peluche: quello li mandava in delirio.

Il Mandarake di Nakano è stato invece un bel contrasto: immaginatevi un centro commerciale tipo gli ultimi due piani della Rinascente di via Lagrange, insomma un posto triste di negozietti un po’ mal messi, un po’ vecchi, un po’ sporchi e abbandonati; solo che per tutti e tre i piani superiori il posto è stato via via colonizzato da Mandarake, un negozio di materiale fumettoso di ogni genere per appassionati duri e puri. I fumetti sono solo un accessorio; esistono una dozzina di diversi negozietti Mandarake, ciascuno di un 20-30 metri quadri pieni zeppi di roba affastellata, ciascuno dedicato a un aspetto diverso.

Per esempio, c’è il Mandarake per il cosplay, dove a un centinaio di euro puoi comprare i vestiti da Sailor Moon fatti e completi; c’è il Mandarake per i collezionisti di automobiline; c’è, ed è enorme, il Mandarake per le statuine di plastica dei personaggi dei fumetti, i gasshapon appunto. C’è il Mandarake per i doujinshi per lui, pieno di belle ragazze che la danno via in ogni posizione ma solo su carta disegnata, e il Mandarake per i doujinshi per lei, pieno di bei pornazzi con uomini muscolosi disegnati in gran dettaglio. I normali manga diventano quasi irrilevanti…

Dopo di questo – ed erano già quasi le quattro del pomeriggio – ho preso il treno e ho attraversato tutta la città per andare a Akihabara, uscita Electric Town (scritto direttamente in inglese). Si tratta di qualche isolato dove sono concentrati i maggiori negozi di elettronica del paese; ognuno di essi occupa i sei o sette piani dell’intero palazzo, anzi i più grossi, come Sofmap, hanno più palazzi tra cui la roba è suddivisa per genere – il palazzo dei videogiochi, il palazzo degli apparecchi elettrici, il palazzo dei computer, il palazzo dei CD…

Grazie alle mie precedenti esperienze asiatiche, sapevo che la cosa migliore era girare un po’, per trovare i prezzi migliori; per ciascuna cosa ci possono essere differenze di prezzo anche di tre o quattro volte. Ovviamente i prezzi più bassi erano nelle bancarelle delle strette vie sul retro, e non certo nei mega-negozi sul corso vicino alla stazione; comunque ho portato via 50 DVD-R 16x, bulkissimi, per circa 7 euro (Urbani & discografici, tiè), una mini-SD da 2GB per il mio nuovo cellulare a circa altrettanto, e un adattatore per i controller PS2-USB (->PS3/PC) a una decina di euro. Devo ancora decidere se comprare un’altra compact flash per la macchina fotografica (quelle cinesi base sono a 24 euro per 8 GB) e una SD per la PS3 (ma la mia PS3 schifida da 40GB legge le SD?).

Nel frattempo, girare per i vari palazzi è stato istruttivo. Intanto ho capito che la PS3 qui è stata un fiasco pazzesco: ci sono interi piani di giochi per la PS2, mezzi piani per la PSP, e solo un angolino per la PS3, anche se i giochi costano leggermente di meno; per esempio è appena uscito Soul Calibur IV e si trova in offerta lancio sui 30 euro; sarà solo in giapponese, però pare che i giochi per PS3 siano region-free, quasi quasi…

Poi, è stato interessante vedere il reparto dei giochi per PC: due o tre piani per palazzo, in cui uno scaffale di una corsia ospitava, che so, Age of Empires e Civilization. Tutto il resto ospitava giochi soft-porno, di quelli in cui puoi dialogare con le donnine fino a farle spogliare; corsie e corsie di giochi del genere. Addirittura c’era lo spazio dedicato a prenotare le nuove puntate delle varie serie prima che uscissero, in modo da essere sicuri di non mancarle.

Per fortuna oggi era un giorno feriale, e non c’era così tanta gente in giro; è stato piacevole. Domani gita in giornata; vi racconterò.

[tags]giappone, viaggi, ghibli, nakano, akihabara, computer, videogiochi, playstation[/tags]

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lunedì 4 Agosto 2008, 02:47

Bazooka

Premetto che subito prima di cominciare a prendere questo post ho assunto coca-cola e aspirina insieme: infatti ieri, avendo passeggiato per mezza giornata sul lungomare di Otaru con i capelli completamente bagnati, mi sono preso un bel mal di gola che stanotte non mi ha praticamente fatto dormire. Dopo aver scoperto che nella borsa da bagno avevo praticamente qualsiasi cosa ma nessun analgesico o antipiretico a parte il Moment in dosaggio placebo, raggiunto l’aeroporto di Shin-Chitose-Kuukou (questa l’ho imparata) più o meno in mezzo il delirio, ho comprato l’aspirina perché era l’unico medicinale in un intero scaffale che avesse un nome riconoscibile scritto in caratteri occidentali. Stamattina l’ho assunta nella lounge insieme al té verde; stasera, tornando in albergo a Tokyo, ho preso al distributore una Coca-Cola per la cena senza ricordarmi che volevo prendere l’aspirina. Poi però ho cercato in rete e ho trovato che Attivissimo garantisce che non c’è nessun problema, quindi se stanotte deliro di nuovo picchierò lui.

Comunque, Tokyo è tutta un’altra cosa rispetto a Sapporo: due civiltà diverse. Sapporo sembra la Svizzera: non c’è un solo brandello di carta in terra, nonostante in Giappone non esistano i cestini della spazzatura – a parte qualcosa per lattine e bottigliette davanti ai supermercati e ai distributori automatici, il resto va portato obbligatoriamente a casa – e pur con la grande abbondanza di imballaggi. Tokyo, invece, è sporchina: sempre poco per i nostri standard, ma si trovano abbastanza di frequente cumuli di sacchetti di immondizia e materiale da cibo abbandonato in giro, anche se quest’ultimo potrebbe derivare dai turisti pigri. In più, ho visto per la prima volta dei barboni: certo, rispetto ai nostri sono un’altra cosa, perché vivono in casette di cartone coperte con un telo blu (credo glielo dia il Comune) perché siano dignitose, sono spesso dotati di pentole e fornelletto, e quando vanno a dormire lasciano le scarpe fuori, sul marciapiede, proprio come in una casa vera.

Soprattutto, Tokyo ha messo i miei nervi a dura prova: sia a Shinjuku che a Shibuya volevo disperatamente procurarmi un bazooka, se non fosse che la Lonely Planet purtroppo non contiene alcuna indicazione sui negozi di armi (mi lamenterò con l’editore). E’ come vivere in un formicaio: ci sono persone ovunque, che sciamano continuamente, spingono o più spesso scorrono silenziosamente in modo totalmente inquietante, senza uno scopo apparente. Quando per caso c’è un passaggio obbligato, ad esempio dentro le stazioni, allora si forma una marmellata umana, che l’istinto dei giapponesi a mettersi in fila cerca invano di spalmare.

Se gli Stati Uniti sono il luogo dove l’ambiente è incredibilmente ingrandito, qui l’ambiente è incredibilmente condensato: le dimensioni certo sono notevoli, ma soprattutto il tasso di pigiamento è aumentato a dismisura. Se ci si mette in quest’ottica, si capisce come mai c’è un treno ogni minuto e mezzo, un McDonald’s ogni cento metri, un supermercato ogni cinquanta, un distributore automatico ogni venti: certo potrebbero anche mettere un distributore automatico ogni cento metri invece che ogni venti, ma data la densità di persone in giro si formerebbe subito una lunga coda.

E’ stato meglio quando sono riuscito ad andare in posti meno frequentati, come il parco del tempio Meiji, dove c’erano solo alcune centinaia di turisti, tra cui alcuni americani che sono arrivati alla fontanella dedicata al rito religioso shintoista di bagnarsi le mani all’ingresso, e hanno cominciato a bere e a versarsi l’acqua sulla testa tra gli sguardi inorriditi di tutti. Va bene che siamo stranieri, ma si può anche evitare di esibirsi; li aspetto a San Pietro a lavarsi nelle acquasantiere.

E poi, al parco di Yoyogi – oltre ad avere fatto un passo avanti nella raccolta del cibo, essendo riuscito a pronunciare alla signorina del chioschetto la fatidica frase “asahi biiru” per farle capire cosa volevo – ho raccolto un altro paio di filmati “oltre”, ma quelli li tengo per i prossimi giorni; adesso vado a dormire per cercare di riprendermi.

[tags]giappone, tokyo, sapporo, viaggi[/tags]

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domenica 3 Agosto 2008, 01:14

Cibo

Oggi – cioè ieri, per voi che leggete (cioè sarebbe oggi, ma io scrivo stasera e metto il post in pubblicazione per domani mattina, che però per voi sarà ancora oggi, ma solo se sarete svegli molto presto, quindi sono quasi sicuro che sarà domani e quindi parliamo di ieri) dicevo, oggi sono andato a Otaru, secondo l’ufficio del turismo “the romantic city of Hokkaido”, nella realtà un magico incontro tra il porto industriale di La Spezia e le periferie di Los Angeles. E’ stato comunque piacevole – la cosa migliore è la linea ferroviaria che corre chiusa per alcuni chilometri tra le montagne e la spiaggia, anche se mi sembra di averne già viste del genere nella mia vita – ma ve lo racconterò poi, perché stasera parliamo di cibo.

Sapevo infatti che, finita la conferenza, avrei rischiato di morire di fame: la mia riluttanza ad andare al ristorante da solo è notevole, per cui quando sono all’estero vivo di fast food, di supermercati o comunque di posti dove posso prendere del cibo e mangiarmelo al volo per i fatti miei. Soffro comunque il complesso del commesso, per cui se la lingua del posto non è l’inglese devo anche vincere la resistenza secondo cui, entrato nel negozio, alla mia incapacità di comunicare nella lingua locale verrà opposta una sonora risata, dopodiché tutti i presenti nel negozio si fermeranno per gridarmi in coro “ah-ha”, e poi spunterà d’improvviso la mia maestra delle elementari per cacciarmi a bacchettate nell’angolo in castigo.

Immaginate quindi come sia per me l’idea di andare a chiedere del cibo in un posto dove non solo non capisco una parola della lingua (beh, tre o quattro le capisco, ma non di più), ma dove non so nemmeno pronunciare i nomi dei piatti, anzi nemmeno i numeri (cioè quelli li saprei, ma poi ho paura di sbagliare e allora non li dico).

Ieri sera, per dire, volevo provare il ramen: Sapporo è famosa per avere una “via del ramen” piena dei classici negozietti, quelli che si vedono in manga come Ranma 1/2 o Naruto, dove il protagonista si siede su uno sgabello al bancone e ordina ramen in quantità (per i non esperti: il ramen è spaghetti + brodo + eventuale altro materiale edibile sparso nel brodo). Così sono arrivato alla via, e mi sono reso conto che è proprio come nei fumetti: anzi, ci deve essere una legge che vieta di vendere ramen se la superficie del locale è superiore a tre metri quadri. In pratica, bisogna ordinatamente mettersi in fila – qui c’è una fila per tutto, altro che Londra – e attendere il turno, poi negoziare il posto al bancone o in un microtavolino, poi ordinare – e non c’era mezza riga di menu in inglese. Così, già intontito dalla folla, ho lasciato perdere: ho risolto comprandomi un sacchetto di patatine al 7-Eleven.

(La folla è un altro problema: io non ho mai avuto paura della folla, ma qui si esagera; in una serata qualsiasi di un giorno feriale, il marciapiede era rigonfio di centinaia di giovani, alcuni punk, alcuni in kimono, tutti in giro per la città. Qui tutti si muovono istintivamente in maniera ordinata, alla stessa velocità, procedendo esattamente diritto, il che permette di evitare scontri; per noi, abituati a sbracciarci e cambiare direzione di botto, è un delirio. Peraltro ho detto a un amico “che folla, qui!” e lui, mentre sincronizzava perfettamente il passo con la persona davanti e quella dietro per evitare l’urto, ha risposto “ma no, qui non c’è nessuno, non hai visto Shibuya!” Domani vedo Shibuya e vi dico.)

Comunque, anche il supermercato è un problema: perché c’è un intero supermercato pieno di roba da mangiare e da bere che sembra la nostra, ma non lo è. Qui ogni assaggio è una sorpresa: le normali convenzioni di associazione tra colore, forma, consistenza e gusto sono tutte definitivamente sospese. Insomma, ci sono scaffali e scaffali di cose, ma quasi nessuna ha un equivalente in occidente; ho trovato giusto in un angolino delle patatine simil-Pringles; come snack dolci, ci sono gli Snickers e un po’ di cioccolato, ma nulla d’altro; ci sono brioche e simili, però spesso hanno i ripieni più strani; gli snack salati sono un delirio, tipo crackers che sanno di fumo, bastoncini che sanno di pesce, palline che sembrano caramelle ma sanno di qualcosa tipo maiale in agrodolce, o chissà cosa. Anche tra le bevande, la Coca Cola sta dimenticata in un angolino (mai vista una cosa del genere); gli scaffali sono pieni di decine di tipi di té e succhi di frutta, oppure di caffé e caffelatte in lattina (non ho ancora osato).

Alla fine, oggi mi sono vergognato di me stesso e ho deciso: basta, oggi compro del cibo serio. Ho passato la mattinata sotto la pioggia, con in più un vento di direzione casuale che tirava l’ombrello dove voleva lui. Poi, all’ora di pranzo, volevo andare a prendere il treno per Otaru: ho quindi pensato di mangiare alla stazione. Sapevo che nel sotterraneo di uno dei tre enormi centri commerciali che costituiscono la stazione (dieci piani l’uno) c’era una food court; però era già tardi, e non volevo perdere tempo, per cui ho deciso di mangiare dai chioschetti davanti all’ingresso dei binari. La scelta era quindi limitata: c’era un bar che faceva curry bianco e altra roba troppo raffinata, una panetteria/pasticceria e un caffé con roba fritta.

Ho girato in tondo per dieci minuti, poi ho detto: basta, adesso proviamo. Il caffé-fritto aveva i fritti in vetrina vicino alla cassa: ho pensato che, mal che andasse, avrei indicato.

Effettivamente la cassiera, molto gentile, non parlava nemmeno mezza parola d’inglese, nemmeno “thank you”. Però, con la forza del dito indice, sono riuscito a ottenere un pezzo di pesce fritto e uno spiedino di palle di puré, o almeno sembravano delle palle di puré di media grandezza immerse nella pastella, poi infilzate nello spiedino e fritte, però c’era un retrogusto di qualcosa che sembrava tipo acetone o carcassa di animale, comunque quasi buono; il pesce era eccellente. Sicuramente ho commesso svariate scortesie, anche se non ho contato il resto; per esempio credo di aver portato dentro l’ombrello, e mi sa che non si fa; sono riuscito a non soffiarmi il naso, ma una volta ho starnutito e un’altra mi sono grattato la testa, e quelli vicino a me si sono allontanati. E poi ovviamente io ho usato la salviettina per pulirmi le mani dopo aver mangiato e non prima.

Comunque, galvanizzato dal successo, sono entrato nella pasticceria self service. In pratica è un self service – questo era piccolo, ma poi ne ho visto un altro enorme al piano di sotto, proprio come fosse il Brek – dove tu ti addentri con vassoio e pinzette, e lo carichi di dolci di ogni genere: brioche, pezzi di torta, cioccolato, palline ripiene… Questo aveva anche (sempre da prendere con le pinzette) pezzi di pizza e patatine: a saperlo prima… Poi arrivi alla cassa, porgi il vassoio, e qui…

…ecco, ho scoperto un’altra cosa che noi occidentali ignoriamo: questa è la civiltà dell’imballaggio. Qualsiasi cosa è imballata singolarmente, poi messa in un contenitore che viene imballato, chiuso e messo in un sacchetto – anche se stai comprando degli stuzzicadenti. Due giorni fa ho comprato dei biscottini, tipo quelli americani ma più piccoli: mi è stato dato il sacchetto, con dentro la scatola di alluminio stampato, che dentro aveva il vassoietto di plastica, che dentro aveva venti piccoli imballaggi di alluminio stampato con un biscotto ciascuno. Oppure, ho preso caffelatte e muffin a uno Starbucks: mi hanno dato un sacchetto di carta, dentro il quale hanno messo una base di cartone rigido con un buco tondo, in cui hanno infilato il contenitore di cartone spesso del caffelatte, tappato con una palettina di plastica che permette anche di girare la schiuma; a fianco, c’era un buco quadrato in cui hanno infilato il muffin, avvolto in un sacchettino di carta, e poi hanno ancora aggiunto un pacchettino di plastica contenente la salviettina umidificata. Fanno otto pezzi diversi di materiale, per caffelatte e muffin; l’Amazzonia ringrazia, ma loro sono ossessionati dall’igiene.

Anche nella pasticceria mi hanno avvolto ciascun pezzo in un sacchettino, poi mettendo il tutto in un sacchetto; così sono uscito, ho preso anche da bere alla macchinetta, e poi mi sono seduto su una panchina a mangiare, e solo lì ho realizzato che ero l’unico in tutta la stazione a mangiare sulla panchina. Ho il forte sospetto che non si faccia, anzi, a dire il vero non ho mai visto nessuno mangiare o bere alcunché per strada, nonostante sia pieno di negozi che vendono roba da portar via. Indagherò.

Stasera, quindi, ho tentato il gran colpo: ho provato il mercato del cibo del supermercato Esta, sotto la stazione. E’ come fosse un piano di Rinascente occupato da banchetti che vendono cibo fatto sul momento, di ogni genere; la cosa interessante però è che, siccome erano già le otto e un quarto e alle nove chiudevano, come in un vero mercato la roba era in svendita. Così per circa tre euro ho portato a casa il classico contenitore a scomparti chiuso, contenente riso e bistecca da una parte, e riso e bistecca di altro tipo dall’altra. Per meno di un euro ho preso uno spiedino di pollo; per un altro euro ho preso un dolce dal gusto imprevisto (qualcosa tipo cannella) ma buono, in un’altra pasticceria self service; poi alla macchinetta ho preso il mio té al limone; e, avendo capito le usanze, mi sono portato tutto buono buono nella mia camera d’albergo, dove ho spazzolato ogni cosa: tutto ancora tiepido, quindi fatto da non troppo tempo, e molto buono.

Sono quindi piuttosto contento: ho dimostrato a me stesso di poter provvedere alla necessità più basilare, quella di procacciarmi del cibo, anche in condizioni estreme come queste: io, cinquemila yen in mano, e qualche centinaio di bar, ristoranti, supermercati e distributori automatici nel raggio di cinquecento metri. Però mi son tenuto le bacchette: se trovo un altro posto del genere a Tokyo, sono tranquillo.

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sabato 2 Agosto 2008, 02:44

Oltre (2)

Ieri, come conclusione della conferenza, ci hanno portato nel parco Moerenuma e ci hanno salutato con questa esibizione di yosakoi, che all’inizio è abbastanza normale, poi… ecco… è oltre anche questa.

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