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Archivio per il mese di Settembre 2008


venerdì 12 Settembre 2008, 11:06

Leoni (1)

L’esperienza con i leoni è un mondo a parte; nessun altro animale fa la stessa impressione. L’incontro dal vivo permette poi di capire che i poveri leoni dei nostri zoo non c’entrano nulla con la realtà; sono pallide imitazioni, e lo si capisce facilmente guardandoli negli occhi.

In realtà, al parco Kruger non ho visto leoni: ho visto solo leonesse. Del resto è noto che tra i leoni, la specie suprema della savana, le donne cacciano, cucinano e preparano tutto, mentre l’uomo aspetta seduto sotto un albero sulla collina con una birra in mano, davanti allo spettacolo della natura, finché la donna non gli porta il pranzo. Per questo motivo le leonesse sono facili da avvistare, mentre i leoni lo sono di meno, a meno di non essere invitati a casa loro per vedere la partita.

Il primo incontro con questo animale è stato all’alba, quando il cielo era ancora completamente nero. Stavamo percorrendo la strada con le torce, quando uno di noi ha avvistato un leopardo accucciato in un posto assurdo, cioè in cima a un albero. Ci siamo fermati, abbiamo spento il motore e abbiamo cercato di capire come fosse finito lì sopra.

A quel punto, qualcuno grida: “A lion!”. Ma tutto è buio, e non si riesce a capire niente: davanti a noi c’è solo l’erba ingiallita e altissima della savana.

Poi, a un certo punto, si è sentito un rumore debole, ma molto vicino: frush. Il rumore dell’erba che si piega. Frush. Non si vede niente, è buio, ma il rumore è vicinissimo e a molti prende un po’ di paura; anzi, vorrebbero gridare all’autista di mettere in moto e scappare. FRUSH. D’improvviso, una torcia si sposta e a un metro, un metro e mezzo da me sbuca dall’erba gialla una faccia gialla: è una leonessa. Si muove sinuosa con grande tranquillità; non ci guarda nemmeno e comincia a passeggiare lentamente sulla strada sterrata.

Davanti a lei ne sbuca un’altra; si guardano, si annusano, probabilmente si comunicano qualcosa. Dall’altro lato della macchina, altra gente ne individua un’altra ancora. La guida, a bassa voce, ci dice di non sbracciarci e di non sporgere nulla dal bordo del veicolo, perché per i leoni un veicolo aperto con della gente dentro è un ostacolo inanimato, ma un pezzo di carne che si muove all’esterno è una preda.

Una leonessa si accuccia a bordo strada. Le piace, è caldo, e tanto avrà da stare lì parecchio. Gli occhi sono impressionanti, gialli e cattivi. La guida ci spiega che i leoni cacciano e uccidono i leopardi, non per mangiarli ma per difendere il territorio ed eliminare un concorrente per il cibo. Un’altra leonessa fa un tentativo: si arrampica di botto sui rami bassi dell’albero e ruggisce. Il leopardo ruggisce in risposta, ma non è la stessa cosa. Per sua fortuna, la leonessa è troppo pesante per salire oltre: desiste e torna giù.

Il leopardo sa che deve soltanto resistere una o due ore: dopo l’alba farà presto caldo, e le leonesse se ne andranno per cercare un po’ d’ombra. A quel punto sarà in salvo, naturalmente facendo attenzione a controllare che se ne siano andate davvero.

leoni-1.jpg

[tags]viaggi, africa, sud africa, kruger, safari, savana, leone[/tags]

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giovedì 11 Settembre 2008, 11:37

Un giorno nella savana (2)

La sveglia è presto, perché ci eravamo iscritti al safari dell’alba: appuntamento alle 4:45 alla pompa di benzina, siamo noi quattro e un gruppetto di tedeschi. Arriva una guida nera di nome Hendrik (?) e ci carica tutti su un camioncino aperto; è ancora buio, l’aria è gelida e fa freddo. Ci dice subito di seguire le sue istruzioni e si scusa in anticipo: non c’è nessuna garanzia che nelle tre ore di giro riusciremo a vedere qualche animale, men che meno che vedremo qualcuno dei tanto ricercati “Big 5” (leone, leopardo, rinoceronte, bufalo e elefante).

Certo, proprio così: usciamo dal cancello, facciamo duecento metri sulla strada asfaltata, e incocciamo in un gruppo di bufali a bordo strada. Loro sono scuri e difficili da vedere, ma con le torce riusciamo a illuminarli: hanno un’espressione misteriosa e una faccia che sa davvero di preistoria. Attraversano la strada, si infilano nella boscaglia e spariscono; cinque minuti e prima crocetta sulla scheda.

Proseguiamo in un paesaggio meraviglioso: comincia piano piano a far luce sulla savana selvaggia, così come è da migliaia di anni, ma in fondo in fondo le colline sono puntinate di luci che brillano (siamo ai confini del parco, e quelle sono le casupole dei neri che abbiamo visto il giorno prima). Tempo di svoltare sulla strada sterrata, ed ecco una scena fantastica: tre leonesse e un leopardo. Non svelo il mistero su cosa facessero, perché dei leoni voglio parlarvi più in dettaglio nei prossimi giorni: li abbiamo visti tre volte e tutte e tre le volte sono state scene memorabili; un condensato di vita essenziale. Però, dieci minuti e tre crocette!

Siamo rimasti mezz’oretta lì, poi abbiamo proseguito; nelle tre ore di giro – nel raggio di quindici chilometri dal campo – abbiamo poi incontrato ancora due o tre gruppi di rinoceronti, svariate giraffe, varie marche di gazzelle ovunque (dopo mezz’ora non le guardi nemmeno più), l’uccellino azzurro, l’uccello imbecille (che meriterà pure lui un post a parte) e un’aquila pescatrice. I rinoceronti sono altrettanto impressionanti: sono bruttissimi e non si capisce come facciano a tenere su la testa, però quando un gruppo di una decina di loro, a tre metri dal veicolo, ha cominciato a puntarci, parecchi hanno avuto paura. Le giraffe, invece, sono animali fantastici: è un po’ come se avessero preso un cavallo e gli avessero stirato le gambe e il collo, però sono eleganti, pacifiche, dolcissime mentre mangiucchiano foglie incuranti di tutto il resto.

Torniamo al parco assolutamente estasiati e festeggiamo con una ricca colazione a buffet all’inglese (compreso un ottimo spezzatino di fegato di animale misterioso). Il tempo di liberare le capanne e di insegnare alla cameriera come si fa il cappuccino e ripartiamo da Pretoriuskop: sono le dieci e dobbiamo uscire a metà pomeriggio dall’altro lato del parco, a Crocodile Bridge.

Ora, sarebbe bello raccontarvi tutta la giornata, ma non vale la pena di farlo senza le tonnellate di foto; comunque, il viaggio è memorabile, in mezzo all’infinità della savana, su cui ogni tanto, dall’alto di una collina, si aprono panorami indimenticabili. Nelle ore calde è difficile vedere animali, però ogni dieci minuti succede lo stesso, magari sotto un albero o in fondo a una valletta. E così, abbiamo visto un po’ di tutto.

Le cose che più colpiscono della savana sono due. La prima è la convivenza insieme alla rarefazione: la savana è infinita, e gli animali tra loro sono in realtà piuttosto separati. Alcuni animali sono territoriali (come leoni e leopardi), altri si spostano, ma si ha l’impressione che i vari gruppi siano sempre abbastanza lontani tra di loro, e che la densità relativamente bassa sia una delle chiavi dell’ecosistema. Allo stesso tempo, colpisce la convivenza: io immaginavo che le varie specie vivessero in zone diverse, che so, gli ippopotami nei fiumi, i facoceri sotto gli alberi, gli elefanti in pianura e i leoni sulle colline. In realtà no; sono tutti abbastanza mescolati, e nello stesso territorio convivono pacificamente decine e decine di specie anche piuttosto grandi, senza che una domini sulle altre o soggioghi il territorio come facciamo noi. Certo, il leone mangia le gazzelle, ma non si ha affatto l’impressione di una guerra; stranamente, pare un ammazzamento pacifico, come se la gazzella sapesse che, tutto sommato, diventare hamburger è il motivo per cui sta lì.

L’altra cosa è il contrasto che si vede con l’esterno, particolarmente stupefacente ai bordi del parco. Semplicemente per via della recinzione e della protezione accordata dall’uomo, di qui della rete c’è savana; di lì ci sono prati, campi coltivati, paesi all’europea oppure distese di casupole. Noi tendiamo ad avere l’impressione che l’Europa, senza di noi, sarebbe più o meno simile: cioè, non ci sarebbero le case e le strade, e ci sarebbero prati al posto delle coltivazioni, ma poi cambierebbe poco. Nulla di più sbagliato: in realtà, ci sarebbero probabilmente o una foresta intricatissima, o la giungla, o un quasi deserto come la savana. I prati, gli alberi isolati e il verde sono una costruzione artificiale, imposta dall’uomo mediante migliaia di anni di irrigazione; qui lo si vede benissimo, tanto è vero che ai bordi estremi del parco spuntano improvvisamente in mezzo alla terra arida degli alberi verdi, invece che secchi e contorti, alimentati dall’umidità generata dall’irrigazione della valle vicina. Insomma, il comando “Irrigate” di Civilization ha veramente un effetto profondo; lentamente, ha cambiato completamente la faccia del pianeta.

L’attraversamento del Kruger è lentissimo: il limite è di cinquanta orari, ma tanto ogni cinque minuti ti fermi perché c’è qualcosa da vedere, per cui la media effettiva è attorno ai 20-25 km/h. Accosti, apri il finestrino (fuori ci sono quasi quaranta gradi, pochi perché qui è inverno) e guardi, scatti foto, filmi. Durante la giornata abbiamo visto varie volte tutti gli animali, completando man mano tutte le crocette: un gruppo di facoceri furiosi sotto un albero, e un altro gruppo nella loro tana scavata nella terra; gli avvoltoi che danno da mangiare ai figli nel nido in cima a un albero; gli ippopotami nascosti nel fiume, oppure distesi sulle rocce accanto al laghetto (artificiale, creato per facilitare l’abbeverata) a prendere il sole; lo gnu che sta lì e non fa niente; le zebre in mezzo alla boscaglia; i fenicotteri sulla riva dello stagno; scimmie e babbuini di ogni genere che saltano tra gli alberi o chiacchierano in terra, con i cuccioli che giocano in mezzo alla strada; e infine, quando ormai cominciavamo a dubitare, gli elefanti, in giro a bere e mangiare sulla riva piena d’erba del fiume Sabie. Erano un po’ lontani, ma li abbiamo visti comunque bene, mentre tiravano su l’erba con la proboscide.

Tutto questo è inframmezzato dai campi; circa ogni cinquanta chilometri ce n’è uno, dove ci si può fermare, uscire dalla macchina (per quello ci sono anche alcune aree sosta in giro), mangiare e, prenotando, dormire. Skukuza è il capoluogo del parco, ed è praticamente una città di capanne; c’è persino una biblioteca. Lower Sabie, invece, è un insediamento più nuovo con uno spettacolare ristorante-balcone sul fiume. Crocodile Bridge è stato attraversato di corsa, quindi non vi saprei dire… infatti a un certo punto, complici anche i lunghi e ripetuti bio-break femminili, eravamo a rischio di restare chiusi nel parco. Noi eravamo esausti, le batterie degli apparecchi elettronici pure, e quindi abbiamo accelerato un po’; solo che poi, vuoi non fermarti a fotografare la giraffa sullo sfondo del tramonto? Siamo arrivati in fondo solo alle 17:30, mezz’ora prima della chiusura; io ho fatto tutte le mie macumbe e sono riuscito a mantenere la macchina fotografica attiva fino a cinque chilometri dall’uscita.

E naturalmente, l’esperienza più pazzesca di tutte ci è capitata a cento metri dal cancello d’uscita, e ne rimane solo una unica foto sfocata fatta con una macchinetta semplice semplice.

Ma per quel racconto dovrete aspettare ancora un paio di giorni!

P.S. I costi: dodici euro a testa l’ingresso nel parco; nove euro a testa la capanna per la notte; tredici euro a testa il safari dell’alba; quindici euro cena abbondante al ristorante, dieci euro colazione abbuffé (in alternativa, bar o provviste e cucina: ci sono anche fornelli comunitari). Sto seriamente pensando di mettere in piedi un gruppo safari per l’estate 2009…

kruger.jpg

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mercoledì 10 Settembre 2008, 16:37

Un giorno nella savana (1)

Bisogna dirlo: al parco Kruger abbiamo avuto una fortuna sfacciata. La gita era stata organizzata dai nostri ospiti italiani, che ormai si sono perfettamente integrati nella mentalità mozambicana: quindi, non eravamo per nulla preparati; non avevamo prenotato; non avevamo una cartina e non sapevamo dove andare, né come fare per vedere gli animali. Eppure, abbiamo messo insieme in un solo giorno una serie di esperienze che molti non riescono a fare in una settimana.

Siccome nel non-piano era prevista una sosta nella città sudafricana di Nelspruit per fare shopping (sosta che ovviamente si è rivelata impossibile a causa della strada persa in Mozambico, dell’ora e mezza di dogana non calcolata e di altri errorucci simili), abbiamo percorso la regione meridionale del parco da ovest a est, dopo averla prima costeggiata in autostrada nella direzione opposta.

Arrivando dal Mozambico, si risale una valle verdissima e piena di coltivazioni di vario genere (banane, cedri, ananas…); poi si attraversa una gola meravigliosa che ricorda molto i canyon dei film western. Si sbuca così nel cuore di Mpumalanga, la regione orientale del Sud Africa: un posto davvero bellissimo. In pratica sono le colline toscane trasportate in Africa; e sebbene ci siano lo stesso anche i vigneti, lo sfondo delle montagne e del sole africano al tramonto le rende spettacolari.

Peccato che, in Sud Africa, non sia troppo sano restare in giro dopo il tramonto; la zona in questione non è Soweto, ma è pericoloso lo stesso. Così, di fronte alla flemma dei nostri ospiti, noi siamo andati in fibrillazione, man mano che il sole calava e non sembrava esserci alcuna vera intenzione di trovare un posto per la notte, anzi saltavano fuori idee bislacche tipo (a mezz’ora dal buio) “facciamo ancora mezz’ora di macchina e andiamo all’ingresso del parco a vedere com’è e se si può dormire lì”.

Per completare il quadro, la mezz’ora di macchina in questione è trascorsa in mezzo a una metropoli fantasma: l’unica zona dove abbiamo visto chilometri e chilometri di colline completamente tappezzate di casupole abitate dai neri più poveri. Lungo la strada, infatti, c’era traffico, gente che camminava, bambini che giocavano, baretti-discoteca pieni di gente del posto; tutto diverso dai cento chilometri precedenti, in cui saremmo potuti benissimo essere in Germania. Le casupole erano decisamente meglio di quelle mozambicane: praticamente mai di paglia, tutte con l’elettricità e l’acqua, e varie di loro erano sviluppate a un livello non dissimile dalla media casa di campagna o di mare del Sud Italia.

Invece, noi europei-previdenti siamo stati scornati, perché è successo il primo miracolo: arrivati alle cinque alla Numbi Gate, un’ora prima della chiusura per buio, abbiamo chiesto se c’era posto nell’unico campo ancora raggiungibile e ci hanno detto che eravamo davvero fortunelli, perché si erano liberate delle capanne. Infatti, per dormire dentro il Kruger bisogna solitamente prenotare con settimane d’anticipo, mesi in alta stagione; se no puoi dormire nei vari albergoni esterni, che però costano il triplo e sono molto meno affascinanti, e poi entrare all’apertura del parco, alle sei di mattina, perdendoti però i safari dell’alba organizzati dal parco. Insomma, dormire dentro è tutta un’altra cosa e se mai ci andrete assicuratevi di farlo.

All’ingresso, ci siamo fatti subito riconoscere: infatti abbiamo imboccato la strada a velocità allegra (ben oltre il limite di 50 km/h che vige nel parco per non investire animali) e con la portiera dei sedili posteriori, scorrevole, aperta per fare meglio le foto. (Inutile dire che io mi sono dissociato sin dal principio e che questo comportamento è tutto effetto del mix culturale Italia-Mozambico.) Le porte vanno tenute chiuse, se non altro per evitare che un leone, o più facilmente una scimmia, ti saltino in macchina! Comunque, dopo tre chilometri è successo questo: il van davanti a noi, di una delle compagnie private di safari, ha accostato in mezzo alla boscaglia e ha detto qualcosa a qualcuno. Tempo di arrivare lì e sbucano fuori due poliziotti neri, che erano seduti tra l’erba davanti a un autovelox; ci fermano, ci chiedono la patente, e ci annunciano la multa. Italia-Mozambico reagisce dicendo che ha aperto la porta “solo un attimino per fare una foto”, al che il poliziotto s’incazza e fa notare che il tizio davanti gli ha raccontato tutto. Alla fine, dopo cinque minuti di cazziatone, visto che eravamo appena entrati non ci ha fatto la multa; però il messaggio è stato chiaro e di lì in poi siamo stati bravissimi.

Arriviamo al campo di Pretoriuskop al crepuscolo: ci danno le nostre capanne, cioè costruzioni tonde in muratura col tetto di paglia, dentro le quali ci sono due letti, un tavolo, due sedie, un lavandino, una lampada elettrica e un ventilatore a pale. Ce le avevano presentate come spoglie e poco accoglienti, ma in realtà sono bellissime: hanno pure le zanzariere e, davanti all’uscio, il barbecue privato. Altre, però, hanno l’aria condizionata, gli utensili da cucina, il bagno privato e tante altre cose… Oltre ad un centinaio di capanne, nel campo – ovviamente chiuso e circondato da recinti elettrificati – ci sono un bar, un ristorante, un negozio di alimentari e souvenir, una pompa di benzina, un bancomat, e persino due piscine rotonde e semi-naturali; ed è pieno di uccelli e di gazzelle che pascolano tra le capanne. Insomma, altro che campeggio: pur sembrando ampiamente selvaggio (e risalendo originariamente agli anni ’30: il parco fu istituito nel 1926) è un posto moderno ed organizzatissimo!

Ceniamo: zuppa e antipasto caldo a buffet, spiedini di kudu e il dolce, più birra e acqua. La notte è fantastica; dopo le 21:30 c’è la consegna del silenzio, anche se le rane e i grilli fanno discoteca tutta la notte; il buio è quasi totale, a parte qualche luce sui passaggi. Il cielo è incredibile, pieno di stelle: uno di quei cieli che scioglie il cuore, facilita l’accoppiamento e (come direbbe qualcuno) ispira un intero disco di ballate a Paul McCartney. Dopo averlo visto non si riesce più a dormire, e così le ultime ore prima della sveglia delle 4:15 sono dedicate alla passeggiata e alla fotografia notturna.

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martedì 9 Settembre 2008, 11:08

Confronti impietosi

Domenica e lunedì siamo andati in Sud Africa, al Parco Nazionale Kruger: uno dei più noti parchi africani, dove la savana e i suoi abitanti si conservano nel loro ambiente naturale.

Arrivare da Maputo in Sud Africa, in teoria, è una passeggiata: la frontiera dista meno di cento chilometri di “autostrada” – cioè di stradone a due corsie con qualche allargamento e una bella banchina su cui le carrette si spostano per farsi superare. L’hanno costruito i sudafricani e l’unica cosa che funziona è il pedaggio: circa 60 centesimi di euro per il tratto urbano a quattro corsie da Maputo a Matola (5 km) e circa 3 euro per il tratto nel deserto. Il problema è che tra i due tratti c’è un po’ di tutto: è l’unica autostrada che nel mezzo delle quattro corsie a scorrimento veloce presenta un dosso alto mezzo metro, seguito da un semaforo, al quale l’autostrada gira a destra. Se non te ne accorgi e vai dritto (ed è facile, perché agli incroci le segnalazioni sulle direzioni sono normalmente un optional), finisci in Swaziland; e così stavamo facendo noi. Dopo ampi giri, siamo finiti sulla “strada vecchia”, ossia una vecchia rurale portoghese del 1944 che da allora non è mai stata riasfaltata; era la strada precedente all’autostrada, e ci ha preso un’ora e mezza per 40 km.

Bisogna poi metterci anche la terrificante dogana mozambicana, un carnaio di uomini, macchine, camion e animali in cui i non-locali vengono vessati in modi incomprensibili, a seconda di come gira, per far loro pagare il fatto che non esiste alcun paese al mondo, vicino o lontano, che accolga volentieri un mozambicano senza fargli penare i visti.

Però, la sensazione che ho provato passando dal Mozambico al Sud Africa è stata incredibile: credo di non aver mai provato nulla del genere.

Subito prima del confine, c’è Ressano Garcia:

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ossia una landa desolata, bruciata dal sole, inutilizzata per un qualsiasi scopo, occupata soltanto da casupole di cemento quando va benissimo, di mattoni di cemento pressato quando va bene, di paglia quando va male, di fango se piove; in cui migliaia di mozambicani neri (di mozambicani bianchi in sostanza non ne esistono) vivono, anzi muoiono di fame, nell’immondizia e nello sterco, senza acqua ed elettricità. (La foto, per pietà, si riferisce alla parte più bella dell’abitato.)

Appena al di là del confine, invece, c’è Komatipoort:

komatipoort-1.jpg
komatipoort-2.jpg

ossia chilometri e chilometri di terre meravigliose, verdissime, tutte ordinate e pulite, perfettamente coltivate grazie a pozzi, tubi e canali di irrigazione; e una cittadina che è africana, ha ancora le palme e lo sterrato, ma è anche assolutamente dignitosa, dove le case sono mediamente villette con giardino, e anche i neri più poveri magari vivono in casupole di cemento, ma che comunque hanno tutte dei muri, un tetto, la corrente elettrica, l’acqua, le fogne; e comunque, la terra non si sfalda in polvere e deserto, ma dà da mangiare a tutti.

E quindi, a Komatipoort vi accoglie persino un centro commerciale, con un supermercato Spar, un benzinaio Caltex identico ai nostri, un bancomat che prende pure Banca Sella, un fast food Wimpy, dove entri e per terra è pulito, non ci sono blatte ovunque, ai muri ci sono i manifesti degli hamburger invece che buchi e macchie ventennali, il personale (nero) sa leggere e parla tre lingue (inglese, afrikaans e lingua tribale locale), è vestito bene e non muore di fame, e dove ordini e ti portano un doppio cheeseburger con bacon che è fantastico, e non biscotti thailandesi di cartone pressato e gamberi (peraltro ottimi) a cena, pranzo e colazione perché è l’unica cosa che non richieda sforzo di allevamento e costi poca fatica raccogliere.

E’ come se di colpo fossimo atterrati su Marte. Dopo dieci giorni di moderna nègria mozambicana, l’insegna verticale di un benzinaio incombe sulla strada come il monolito nero di Kubrick sulle scimmie: diecimila anni di differenza in termini di evoluzione.

Allora, fatevi delle domande, e datevi delle risposte: la terra è la stessa, il clima è lo stesso, persino la tribù e la lingua madre dei neri del posto è la stessa. L’unica cosa che cambia è che da centocinquant’anni Komatipoort è gestita dai bianchi, mentre Ressano Garcia è gestita dai neri (pur se con qualche contributo degli ineffabili colonizzatori portoghesi, che però, così lontano dalla costa, non mettevano mai piede).

Ma non pensate che a godersi la mecca sudafricana siano solo i bianchi: noi ne abbiamo visti in giro pochi, e tra gli avventori del Wimpy la metà era nera, anzi nel dehors c’era una coppia di fidanzatini poco più che ventenni, lui nero e lei bianca, e si tenevano per mano. Anche nel resto del nostro giro abbiamo visto che, sì, magari il grande capo del ristorante era bianco, ma sotto di lui c’era personale nero che sfoggiava competenza, capacità, gentilezza, persino una buona organizzazione (da sempre il punto debole dei neri), e anche autorevolezza. Per dire, la guida del parco, che ci ha portato in giro facendoci lezioni di etologia, era nera; così come era nero il poliziotto che ci ha fatto un grande e giustificato cazziatone perché violavamo le regole del parco; non certo solo sguatteri e zappatori.

Apparentemente, in Sud Africa è riuscito un evento che nel resto del continente non è accaduto: cambiare almeno un po’ la cultura dei neri. Perché non è che in Mozambico siano più scemi del resto del mondo; semplicemente, non avendo mai fatto il passaggio per noi preistorico dalla pastorizia e dalla pesca verso l’agricoltura (e da lì all’urbanesimo), non sono capaci a trasformare il deserto in campi; se provi a insegnarglielo, quasi sempre non gliene frega niente di impararlo; e se anche lo sapessero fare, comunque non avrebbero voglia di farlo, perché non sarebbe parte della loro cultura e del loro modo di vivere, tutto basato sul minimo risultato con il minimo sforzo e sulla pianificazione zero.

La controprova è che in Zimbabwe, un tempo paese ricco come e più del Sud Africa, non appena hanno cacciato i bianchi l’irrigazione ha smesso di funzionare, la terra non è più stata fertile, i raccolti sono morti; e ora tutto il Paese sta morendo di fame.

Il Sud Africa, per ora, è l’unico paese dove regge la cooperazione tra bianchi e neri, pur tra grandi difficoltà e violenze, fornendo una speranza di sviluppo all’intero continente. Purtroppo sono molti a pensare che, non appena Mandela morirà, anche esso finirà come lo Zimbabwe.

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domenica 7 Settembre 2008, 11:56

L’autoscontro

Per capire un po’ la magia dell’Africa – perché c’è, ed è forte – è stato molto utile andare in autoscontro.

Vi ho già raccontato infatti della cena al ristorante disorganizzato; il ristorante sta nella feira, ossia uno spiazzo sterrato che contiene le cadeirinhas voadores (“seggioline che volano”), la giostra e l’autoscontro. Attorno, ci sono una dozzina di ristoranti costituiti da una cucina in muratura e da una tettoia di paglia, tendone o cemento sotto la quale ci sono dei tavolini di formica, come nei paesi dell’Italia meridionale; si contraddistinguono per i vari tipi di cucina – il francese, il libanese, il cinese – ma tanto fanno tutti lo stesso cibo locale, cioè carne o pesce alla griglia con verdure, riso e xima (polenta bianca). Alla feira si entra pagando un biglietto d’ingresso, o forse no, nel senso che alle volte all’ingresso c’è qualcuno in divisa che ti chiede dei soldi, altre volte no.

Dopo aver cenato, abbiamo visto lì l’autoscontro, con tre o quattro macchine piene di bambinette nere e borghesi che si davano delle mazzate mica male. Con diffidenza, ci siamo presi tre auto; e invece è stato liberatorio, e ci siamo divertiti un sacco, facendo anche amicizia con le bambinette, specie una seienne vestita di rosa che arrivava a malapena ai pedali ma aveva lo sguardo assassino e puntava regolarmente al frontale.

E’ stato dopo essere scesi di lì che improvvisamente il posto è apparso trasfigurato: non una misera baraccopoli, sporca e fatiscente, con tre piatti di cucina in croce; ma un luogo dove la gente si trova per divertirsi insieme. Ovviamente sono ritornati fuori i ricordi d’infanzia, le estati in spiaggia o i giochi con la terra in campagna; ma soprattutto abbiamo ricatturato per un attimo la differenza fra lo spiazzo tra le capanne (o l’aia di una cascina) e lo stare in casa davanti al televisore. Sarà che eravamo talmente poco abituati, che ci ha sorpreso.

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sabato 6 Settembre 2008, 09:53

Contrattempi

Ieri era il giorno delle visite: infatti, il progetto per cui sono qui è legato anche allo studio della lotta all’AIDS e dell’accesso ai medicinali, e così ogni tanto mi aggrego al gruppo che va a incontrare chi lavora sul campo.

L’inizio di mattinata, però, va raccontato perché è molto indicativo di come funziona la vita in Africa. Infatti, dovevamo alzarci, prendere la macchina parcheggiata sotto casa, guidarla per due-isolati-due fino all’ufficio, dove l’autista nero doveva prenderla in consegna e portarci tutti alla prima visita.

E invece, ci siamo alzati, siamo scesi (ieri mattina funzionava addirittura l’ascensore), abbiamo preso la macchina, e immettendoci da bordo strada nel caotico traffico di Maputo abbiamo centrato col nostro fuoristrada una vecchia berlina verde che ha stretto di colpo; nulla di grave, data la velocità minima, ma un copricerchione è saltato per aria ed è rimbalzato in giro. Ci siamo fermati, abbiamo contato i copricerchioni delle due auto, e ce n’erano quattro per ognuna: abbiamo concluso che o quello volato via era stato frutto di magia, oppure era lì abbandonato per terra in mezzo alla strada e in realtà non ci eravamo toccati.

Fatti i due isolati, siamo arrivati all’ufficio; lì ci hanno detto che c’era un po’ di casino perché il giorno prima erano andati a rubare in casa a uno degli italiani che lavorano lì; l’inferriata che proteggeva l’ingresso era rotta da settimane e non era mai stata riparata dai padroni di casa, e comunque si sospetta che siano state le guardie del palazzo. Hanno portato via un computer e un proiettore, e l’ultimo backup era di dicembre: costernazione.

Quindi, uno dei due autisti dell’ufficio era stato mandato a riparare la porta di casa del derubato; l’altro doveva essere lì per noi, ma non c’era perché, secondo le segretarie, era andato un attimo a trombare. Non scherzo: l’autista è un gran bel ragazzo, quindi quasi tutti i giorni, stazionando davanti all’ufficio, rimorchia una tipa per strada, si appartano, trombano un po’ (non so dove, onestamente) e poi lui torna in servizio.

Pertanto, con già mezz’ora di ritardo, siamo partiti noi, due donne bianche e il sottoscritto a proteggerle, per andare in uno dei bairro lontani. Per fortuna il posto che cercavamo non era tra le casupole del bairro, ma sulla strada principale che collega Maputo al nord del paese, quindi non era pericoloso arrivarci. Però ci è andata bene, anche perché siamo riusciti ad evitare i posti di blocco della polizia: non avevamo gli specchietti (li hanno rubati tre giorni fa dalla macchina parcheggiata) e ciò, almeno per i bianchi, è causa di multa immediata; dovevano essere sistemati dall’autista di cui sopra, ma avete capito che non è molto affidabile.

Andando via, abbiamo chiesto se serie così di imprevisti accadevano spesso: la risposta di chi vive qui è stata “tutti i giorni, basta farci l’abitudine”.

P.S. Il posto dove siamo andati è un ospedale rionale per malati di AIDS realizzato e gestito dalla Comunità di Sant’Egidio, con fondi donati da alcune ONLUS torinesi. Gli stessi abitanti del posto dicono che, fatta 1 la quantità di aiuto concreto fornita contro l’AIDS dall’apposita agenzia ONU finanziata dai contribuenti mondiali, quella fornita da Medici Senza Frontiere è tipo 5, e quella fornita da Sant’Egidio è tipo 100. Sapevatelo.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, africa, contrattempi, aids[/tags]

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venerdì 5 Settembre 2008, 09:56

La donna che partorì tre tazze

Siamo arrivati in Mozambico proprio al momento giusto: poco tempo fa si è verificata una storia che ha tenuto col fiato sospeso l’intera nazione. A noi ne ha parlato Dominga, la domestica di casa, quando avevamo finito il pranzo e stavamo bevendo il caffé.

Infatti, nella città di Xai-Xai, meno di duecento chilometri a nord di Maputo, si è verificato un avvenimento assolutamente magico: una donna, incinta al settimo mese, ha partorito tre tazze. L’evento ha fatto clamore, perché è un caso evidente di malocchio: e infatti i locali ne parlano scuotendo la testa, e ripetendo “fetiche, fetiche”, pensando alla terribile magia che ha trasformato il feto in tazze, e alla povera donna che ha perso così il suo bambino.

Il fatto è assolutamente vero: la donna ha partorito tre tazze, e almeno delle ultime due pare che ci siano filmati e fotografie. La storia, però, è un po’ diversa: qui, infatti, le donne possono sposarsi solo dopo essere rimaste incinte, per provare di essere fertili. La ragazza in questione voleva sposare il suo uomo, nonostante l’opposizione della famiglia di lui, ma non riusciva a rimanere incinta (alcuni hanno suggerito che già quello fosse un feticcio); allora ha dichiarato di esserlo, fingendo la gravidanza, e ottenendo così l’approvazione per il matrimonio.

Solo che, verso il quinto mese, l’assenza di pancia cominciava ad essere troppo sospetta: e così lei si è inserita le tre tazze nella vagina. Il piano era di tenerle lì per un mesetto e poi simulare un aborto; solo che quando si è recata dal medico (cioè, spero che fosse un medico) per partorire, all’uscita della prima tazza tutti sono rimasti sconvolti, e la notizia si è sparsa. Il futuro marito ha allora prontamente provveduto a vendere l’esclusiva mediatica per il parto delle successive due, che è avvenuto con successo. Alla fine, tutto si è concluso in gloria: con i soldi della televisione, il marito ha potuto pagare il lobolo – qui è il marito a pagare la famiglia della moglie all’atto del matrimonio, come saldo per il valore dei figli che verranno – e i due hanno potuto sposarsi, visto che era chiaro a tutti che lei era rimasta incinta, e soltanto la magia le aveva impedito di avere un bambino.

Ora, so che non ci crederete e che penserete che io stia esagerando, ma qui sono veramente tutti convinti che ci sia stata di mezzo la magia; non solo nelle campagne, ma anche in città, compresi gli impiegati e gli alti dirigenti dello Stato. Sui media ci sono sì stati grandi dibattiti e talk show, ma non per mettere in dubbio l’effettivo svolgimento dei fatti; la discussione verteva invece su “a fare il malocchio sarà stata la suocera, o chi altro?”.

Quello che io trovo però molto affascinante è l’unico elemento di modernità dell’intera storia: la pronta vendita dei diritti TV. Anche se forse è un po’ triste – ma anche molto indicativo delle attitudini umane – che, di tutta la nostra scienza e tecnica, le uniche cose a far breccia nelle tradizioni africane siano state televisione e telefonino.
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giovedì 4 Settembre 2008, 10:56

Cacana

Il succo di cacana è una delle novità che abbiamo scoperto quaggiù in Mozambico. Ce lo ha dato la nostra amica che ci ospita, quando siamo partiti per un viaggio in giornata: invece dell’acqua, ci ha detto, portatevi questo. Dopo la prima ora e mezza di viaggio in auto nel sole più totale a trentacinque gradi, il nostro autista (nero) ci ha detto che voleva fermarsi a comprare dell’acqua; io allora gli ho porto il succo di cacana, cioè un liquido giallino simile al té chiuso in una bottiglia di plastica riciclata. Lui lo ha guardato in modo strano e ha risposto che no, quello era per noi. Così, mentre gli compravo l’acqua, ho provato a berlo.

Ecco, è difficile descrivere il gusto del succo di cacana; la mia definizione al primo impatto, che è già diventata popolare nella comunità europea di Maputo, è che è disgustoso in dieci modi diversi. In effetti è contemporaneamente amaro, puzzolente, oleoso, ributtante e tante altre cose ancora: sembra un po’ come se nel té verde giapponese avessero sciolto olio di ricino, candeggina, piscio di cane e un cucchiaio di batteri del colera fritti. Ciò nonostante, incredibilmente, funziona: toglie completamente la sete. Credo che sia perché è talmente disgustoso che lo stomaco si stringe e si intorcina e per un po’ rifiuta di ingerire alcunché, sia liquido che solido.

Ci hanno poi detto che ha numerose altre funzioni, tra cui quella di ottimo antimalarico e di diuretico per il corpo e per l’anima; inoltre, se usato in abbondanza, aumenta il ciclo nelle donne e può persino stimolare l’aborto. In effetti dà assuefazione: dopo un po’ di volte, continua a essere disgustoso in dieci modi diversi ma allo stesso tempo, dopo qualche ora che non lo bevi, ti viene desiderio di assumerne ancora. Magari ci sciolgono dentro anche delle sigarette.

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mercoledì 3 Settembre 2008, 11:58

Le strade africane

Le strade africane sono molto diverse da quelle occidentali; e non certo perché sono sterrate invece che asfaltate (anzi, sempre di più sono asfaltate pure quelle africane).

In Occidente, la strada è uno strumento: serve a collegare un posto con un altro secondo il percorso più breve possibile. In Africa, la strada è uno scopo; è per molti il centro della vita. Si esce dalla propria casupola o capanna, e si va sulla strada a far mercato e a stare insieme; le donne e i ragazzi si piazzano sul bordo della strada con una stuoia e qualcosa da vendere. Anche se la vendita è il loro sostentamento primario, non è comunque il motivo principale per stare lì, visto che spesso venderanno sì e no due cose in un giorno. In realtà, stare lì è stare nel mondo: vedere le persone passare.

Le strade africane, quindi, sono sempre piene di gente. Ovviamente fuori dalle città e dai villaggi di gente ce n’è relativamente poca; gruppi di persone che aspettano il bus o che vendono prodotti della campagna. Ma non appena si avvicina un agglomerato, la strada si riempie; talvolta è un fiume di persone in cammino. Del resto, nessuno ha un’auto, quasi nessuno ha una bicicletta, e molti non possono permettersi nemmeno i bus: e così, si va a lavorare, a studiare, a comprare a piedi, camminando per due, cinque, dieci chilometri al giorno.

Anche le strade europee sono piene di gente; ma è tutta gente assente, che ha spento il cervello e sta semplicemente svolgendo una funzione di spostamento, spesso intruppata in movimenti collettivi. In Africa, invece, le strade sono piene di moltitudini attive; ognuno sta facendo una cosa diversa e interagisce con le altre persone che si trova accanto. Trovi la donna che cammina con un sacco in testa, i due uomini che contrattano un lavoro, il gruppetto che guarda la televisione dentro la finestra di una casupola-bar, i bambini che giocano correndo nel fango.

Le strade africane, insomma, emanano energia; anzi, emanano una energia spaventosa, perché sono piene di vita. Per noi, dopo un po’, diventano stancanti ed intimoriscono; non siamo abituati a tutta questa densità di energia. E però, in confronto, è come se le strade europee sembrassero di botto come quelle del paese degli zombi: piene di morti viventi.

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martedì 2 Settembre 2008, 11:17

L’ascensore

Siamo ospitati in un appartamento di italiani, al quattordicesimo piano del palazzo dei trentatre piani, il simbolo della città: un cubo di cemento in ottimo stato – che, per qui, vuol dire che è cadente ma non pericolante – su cui troneggia trionfante una grande pubblicità luminosa di Mcel.

Il palazzo è tra i migliori della città: è in pieno centro, vicino ai ristoranti e al supermercato, ed è decisamente signorile, come si capisce dalle tre o quattro guardie armate che stazionano in permanenza nell’atrio di ciascuna delle tre scale del palazzo, ma anche dalle persone che incontri all’interno: tutte nere, ricche e ben vestite, i giovani in tiro o abbigliati da sport, i bambini con la divisa scolastica e le cartelle coi personaggi dei cartoni animati.

Nella nostra scala, quella centrale, ci sono due appartamenti per piano, ognuno a sua volta dotato di un mini-appartamento per la serva, con cameretta, bagno e ingresso separato. L’appartamento principale ha una cucina, un salone, tre camere e tre bagni: direi sui 150 metri quadri. I bagni sono scrostati, ma c’è l’acqua calda, anche se alle volte ne viene soltanto un filo. Il maggior inconveniente è che, essendo vicini al mare, a questa altezza c’è sempre forte vento: e siccome i serramenti sono tutt’altro che efficienti, c’è costantemente un mezzo tornado che scorre per la casa.

Ovviamente, al quattordicesimo piano (ma anche al trentatreesimo) non si può certo arrivare a piedi: quindi in ogni scala c’è l’ascensore. Anzi, ce ne sarebbero due, ma nella nostra il secondo è fuori uso da secoli ed è sbarrato alla bell’e meglio, con le porte arrugginite; ne rimane uno solo, un bell’ascensore Otis con le pareti di metallo e lo specchio, molto simile a quello della mia precedente casa di Torino (a parte la sporcizia).

Il problema è che la similitudine si spinge un po’ troppo avanti: infatti, il funzionamento di questo ascensore è spesso interrotto. Almeno metà delle volte in cui arrivi a casa c’è nell’atrio un bel cartello che comunica che l’ascensore non funziona. In pratica, si rompe a sprazzi: mezz’ora è rotto, poi funziona per un paio d’ore, poi per un po’ è ancora rotto, poi riparte e così via.

Nessuno degli italiani che abitano qui da molti mesi è ancora riuscito esattamente a capire come faccia un ascensore a rompersi e venire riparato tutti i giorni diverse volte al giorno: voglio dire, se si rompe un pezzo lo si cambia o lo si aggiusta, e poi non si rompe più; non può mica rompersi un pezzo diverso ogni due ore. Oltretutto gli ascensori delle altre scale funzionano perfettamente; e anche il nostro, quando funziona, non dà problemi nè particolari segni di squilibrio, se si esclude un vago ondeggiamento e una grossa bolla di presumibile ruggine nel pavimento metallico, sotto il tappeto di plastica, che si piega ogni volta che la calpesti.

Le nostre certezze tecnico-organizzative occidentali sono andate però un po’ in crisi quando uno di noi ha incontrato i tecnici, che ormai stazionano in permanenza nel palazzo, e ha chiesto spiegazioni sull’incapacità di risolvere i guasti: uno di loro ha risposto mettendosi a piangere. Nulla di strano, perché pare che qui mettersi a piangere sia la risposta a qualsiasi situazione in cui si è commesso un errore. Qui però c’è qualcosa di più serio.

Nella casa, infatti, si sa perfettamente la causa del problema, e – a mezza bocca – alla fine la spiegazione arriva anche agli inquilini bianchi: l’ascensore della scala di mezzo si rompe continuamente perché all’ottavo piano ci sono i fantasmi, tra cui quello di un guardiano che un giorno, in un passato imprecisato, aprì le porte ad un piano pensando di liberare delle persone chiuse dentro, e invece non trovò la cabina e cadde nella tromba dell’ascensore, morendo. Per poter usare l’ascensore, quindi, pare necessario attendere il momento in cui i fantasmi sono tranquilli e danno il loro beneplacito.

Ma non temete: una delle grandi leggi dell’Africa è che a tutto si trova sempre una soluzione. In questo caso, si può entrare nella scala di fianco, prendere l’ascensore fino al nono piano – i piani dal primo all’ottavo non sono raggiungibili, si parte dal nono in poi; penso che per i piani bassi si entri da un’altra parte e siano dedicati a uffici o appartamenti più popolari – poi uscire sulle scale, scendere di un piano, e attraversare il lungo corridoio che all’ottavo piano mette in comunicazione tra loro le tre scale, e ospita gli uffici dell’amministrazione. A quel punto si può uscire sulla scala centrale, un antro buio e sporco, salire a piedi di sei piani, poi aprire con la chiave il cancello di ferro antifurto che separa le scale dal pianerottolo e dall’ascensore, e di lì entrare in casa. E’ anche più bello, perché lungo il percorso si fa amicizia, ci si aiuta a portare le borse, si sorride alle bambinette che trascinano su la cartella tornando da scuola, e così via.

Ah, siccome tempo fa nell’ascensore dell’altra scala si ruppe la lampadina del pulsante del nono piano e nessuno ha voglia di trovarne una per cambiarla, hanno spostato i fili e quando premete il nove lampeggia un attimo la luce del sedicesimo piano; non disperate, poi si ferma correttamente al nono.

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