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giovedì 30 Ottobre 2008, 12:10

Giovani limoni e radici secche

Non pensavo di ritornare subito sul rapporto tra imprenditori e tecnici dell’ICT, nonostante assista regolarmente a perle su perle: l’ultima è una azienda dot com che, pur avendo come unico prodotto un sito web, per scelta non ha un sistemista: infatti il ragionamento è stato “diamo da fare l’installazione dei server in outsourcing, tanto dopo che li abbiamo installati un sistemista non serve più”. Alle richieste di assumere un sistemista, anche solo part time o su chiamata, l’azienda ha risposto sempre di no, perché era una spesa non necessaria. Poi, al primo serio problema con server che si piantano e sito malfunzionante, la reazione del management è stata non di chiamare un sistemista di corsa sperando di trovarne uno, ma di cazziare ancora di più il reparto sviluppo – peraltro composto di un neolaureato e di uno stagista, e che va avanti a forza di serate fino alle 22 e ferie negate per tutta l’estate – perché non era in grado di risolvere il problema sistemistico.

Questo genere di situazione è la punta dell’iceberg costituito da un problema molto più grave: perché, nonostante l’ICT sia uno dei pochissimi settori che possono ancora reggere l’economia di un paese sviluppato, praticamente nessuna azienda italiana dell’ICT ha successo su scala globale, e quelle che reggono lo fanno in buona parte solo su scala nazionale e solo grazie a commesse ricevute per amicizia (quando non per stecche) da pubbliche amministrazioni o manager amici?

La mentalità dell’imprenditore italiano medio è ristretta: se gli date in mano un budget di 100 con cui fare una nuova impresa, lui allocherà 80 a se stesso, al proprio SUV e al telefonino fico, e poi coi 20 rimasti cercherà di assumere (anzi, di non assumere) collaboratori vari, stagisti, consulenti e personale vario, selezionato esclusivamente perché costi poco. Conosco personalmente più d’un piccolo-medio imprenditore che parla dei propri dipendenti con il nomignolo di “carne da macello” o “scimmie ammaestrate”, magari adottando esplicitamente la tattica di prendere una persona in stage promettendo una assunzione, tenerla sottopagata o gratis finché non si stufa, e poi prenderne un’altra.

Purtroppo, nell’ICT questo non funziona: il lavoro dei tecnici è un lavoro ad alta densità di conoscenza, che non può essere programmato come quello di un operaio. Specialmente se ciò che si crea è innovativo, non si può sapere in anticipo quando sarà finito, e nemmeno se lo si riuscirà a fare e come; in questa situazione, l’investire su una persona, il qualificarla, il tenersela – evitando così i costi, che quasi nessun imprenditore considera, di inserire nuove persone e di doverle formare da capo – è vitale per il successo dell’azienda, a tutti i livelli; le persone non sono intercambiabili.

Sperare di competere globalmente nell’ICT con aziende piene di stagisti e giovani-limone, da spremere fin che ce n’é, è pura utopia: è chiaro che l’Italia, con questo approccio imprenditoriale, non andrà mai da nessuna parte. Alla fine, però, nel malato sistema economico nostrano le cose comunque vanno avanti: tanto le commesse arrivano raramente per via della qualità dei prodotti e dei servizi dell’azienda, e arrivano più spesso per capacità commerciali o direttamente per amicizie. Tanto, dall’altra parte c’è spesso un’altra azienda piena di giovani limoni, che per carenza di competenza non è in grado di capire la qualità del prodotto informatico che sta comprando.

Anzi, probabilmente nemmeno gliene frega, dato che esistono molti giovani limoni che provano piacere a farsi spremere per poche lire, ma solo per qualche anno di inizio carriera; poi tutti i giovani italiani imparano che alla fine la via migliore per il successo è lavorare il meno possibile, stare al proprio posto e leccare sederi. E quindi, se il capo vuole quell’applicativo inutile e pieno di bachi perché il commerciale è suo amico, vada per quell’applicativo inutile e pieno di bachi.

Stringi stringi, il punto fondamentale è sempre lo stesso: la mancanza di meritocrazia e di capacità in tutta la nostra società, evolutasi addirittura nel disprezzo per la meritocrazia e per la capacità stessa. Certo che è difficile immaginare un modo con cui questa mentalità possa cambiare… eppure, non dimentico la lezione della mia visita africana: a forza di non irrigare il terreno, prima o poi le radici seccano, e presto i limoni non avranno più nemmeno il succo.

[tags]italia, informatica, lavoro, economia, aziende, imprenditori, meritocrazia, ict[/tags]

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7 commenti a “Giovani limoni e radici secche”

  1. MarcoF:

    Uh! ricapito qui dopo un po’ di tempo e…guarda, guarda… un discorso che si faceva già parecchi anni fa, parlando proprio del settore ICT (se ti ricordi bene).
    Stammi bene, giramondo!

  2. LucianoMollea:

    Quando parli della dot com pensavo che ti riferissi ad una azienda dove avevo lavorato. Dove il sistemista lo faceva il grafico (che se ne è andato). Dove tutti i giorni un sistema che stava su con lo scotch continuava a stare su con lo scotch. Dove hanno speso sei mesi di disservizi quasi quotidiani per poter fornire lo stesso servizio con 5 giorni di lavoro di un programmatore che però non poteva essere distratto dal suo lavoro su un sito web dove c’erano 3 utenti.
    Ma il capo era un “trader”, quindi di ICT non ne capiva na beneamata…
    Ma non sono loro perchè il reparto sviluppo non sono due persone, ma una sola, solo diplomata con un corso post-diploma che deve badare ad un gruppo di 5 programmatori rumeni (in Romania ovviamente) assieme al “produc manager” che è un ingegnere nucleare che adora il trading e mediamente tratta le persone peggio del suo cactus…

  3. LucianoMollea:

    Ehm scusa, ho scritto di fretta ricompongo una frase:

    Dove tutti i giorni un sistema che stava su con lo scotch continuava a stare su con lo scotch perchè non potevano permettersi 5 giorni di lavoro di un loro programmatore: non doveva essere distratto dal suo lavoro su un sito web dove giravano mediamente 3 utenti al giorno (uno di test)….

  4. Paolo:

    Campano appunto di commesse per amicizia e scambio di favori, e quindi il paese diventa più povero perchè i suoi prodotti ICT non sono venduti nel mercato internazionale, mentre ne acquistiamo moltissimi.
    Ormai mi sono convinto: non ci sarà catarsi finchè non ci sarà la catastrofe.

  5. rectoscopy:

    Ottimo.
    Toglimi una curiosità: tu sei un datore di lavoro? A quale indirizzo ti si può spedire il CV? :D :D

  6. Mike:

    Sono perfettamente d’accordo, tranne che su un punto. Di solito gli operai specializzati sono trattati meglio che chi si occupa di informatica, e se uno è bravo ed ha imparato il mestiere di solito gli imprenditori se lo tengono ben stretti.

    il problema è ovviamente che nel mondo dell’informatica esistono molti “padroni” la cui unica loro abilità e valore aggiunto è quella di rivendere non prodotti o servizi ma dita. In agricoltura questa cosa si chiama “caporalato”.

  7. Claudio Iacovelli:

    L’ICT potrebbe essere il motore del cambiamento in numerose imprese, specialmente quelle piccole, dove la “rivoluzione” digitale non ha mai preso piede, salvo chiaramente le eccezioni. Molto spesso le tecnologie ICT, in particolare quelle informatiche, sono marginalizzate: nelle PMI si utilizza certamente la posta elettronica, si naviga nella rete, ma non sempre sono in esercizio delle piattaforme documentali per dematerializzare i documenti cartacei, e non sempre si fa un uso diffuso dei sistemi di conservazione dei dati negli archivi elettronici.

    Il settore industriale ICT ha, e questo deve essere detto, dei propri limiti, che possono riflettersi nel modesto impiego delle soluzioni presso le piccole imprese: in Italia si consumano le tecnologie, cioè si importano soluzioni software ed apparati hardware, e si implementano in progetti più o meno immediati (dei cui risultati, effettivi, si dovrebbe indagare a fondo, in quanto l’innovazione nelle organizzazioni NON é mai solo tecnologico, ma deve essere prima di tutto culturale ed organizzativa).

    Questa situazione di “arretratezza” dell’industria ICT nazionale, (chiaramente generalizzo, perchè il settore é abbastanza frammentato, é giusto evidenziare che esistono validi esempi di realtà ICT italiane in grado di affermarsi a livello competitivo anche in ambiziosi programmi di internazionalizzazione), appunto limitata dalla sua incapacità di investire in modo cospicuo e sistematico nella R&S, é tra le ragioni principali della debolezza a livello internazionale: per sintetizzare, sono poche le imprese italiane ICT in grado di “guardare” cosa accade a livello mondiale, e pochissime quelle che si “lanciano” in progetti di ricerca finalizzati a sviluppare quei valori intangibili sempre più determinanti per competere: know-how, ricerca, prototipazione, brand.

 
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