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Archivio per il mese di Maggio 2010


lunedì 17 Maggio 2010, 17:46

Dio è morto

La morte per cancro di Ronnie James Dio – aveva già 67 anni – segna davvero la fine di un’epoca delle nostre vite, almeno per chi da ragazzo è stato almeno un po’ metallaro. Dio era la voce epica per eccellenza, che cantasse le leggende fantasy dei Rainbow o i classici dei Black Sabbath; e anche la sua carriera solista non era stata da meno (Holy Diver è un disco magnifico che capita regolarmente nelle mie playlist).

Forse non aveva un grande physique du role, già stempiato all’epoca classica, ma i suoi completini chiodo + jeans e i suoi brani duri ma essenziali, rivisti ora, dimostrano quanta poca distanza ci fosse tra l’hard rock dell’epoca classica e i rocker alla Springsteen. Lui, in più, era noto per aver reso popolare il gesto delle corna, ereditato da una nonna italiana e trasformato nel simbolo dell’heavy metal.

I forum, le piattaforme, i siti di musica sono zeppi di commenti e condoglianze; noi lo ricordiamo con il suo inno spaccastadio (è arrivato persino a Zelig) e con il buffo video di Rainbow in the Dark, con l’assolo dell’allora ventenne Vivian Campbell; e, appropriatamente, con un Long Live Rock’n’Roll degli anni con Blackmore. E poi pensiamo con orrore che, se è morto Dio, potrebbe morire persino Ozzy Osbourne.

[tags]musica, hard rock, metal, dio, rainbow, black sabbath[/tags]

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domenica 16 Maggio 2010, 19:12

Una serata coi Jethro Tull

Sì, sono ancora vivi. Smarcato il punto, vorrei comunque raccontare qualcos’altro sulla veloce gita di venerdì sera a Genova, con i biglietti comprati mesi fa – poco prima che si esaurissero – per l’inizialmente unica data italiana del tour dei Jethro Tull (ora ne hanno aggiunte altre a metà luglio).

Non tutte le leggende del rock invecchiano bene; andando a vedere questo genere di concerto, c’è sempre il rischio di grandi delusioni. E c’è anche un rischio più sottile: quello di trovarsi di fronte non a un concerto ma a una messa, ossia alla stanca riproposizione di un rosario di grandi classici con quarant’anni sulle spalle, suonati secondo il canone e senza più voglia nè energia, soltanto per dare il contentino ai fan in cambio di un biglietto dal prezzo spropositato (ogni riferimento al tour di reunion dei Kiss, martedì prossimo a Milano, è puramente casuale).

La classe si dimostra sul lungo periodo; c’è chi già dopo i primi due dischi ha esaurito le idee (qualcuno ha resistito più di dieci secondi al nuovo singolo di Ligabue?) e chi continua onestamente sulla via già tracciata ma dimostrando l’assoluta mancanza di senso del ridicolo, insistendo attorno ai sessant’anni a sfoggiare vestitini di pelle aderente, chiome fluenti e acuti impossibili in versione ormai afona, cercando di negare il passaggio del tempo (a questo proposito il punto più basso degli ultimi anni è stato raggiunto quando Joe Lynn Turner ha accusato David Coverdale di cantare in playback ai concerti dei Whitesnake, al che Coverdale ha risposto ironizzando sul fatto che Turner si esibisce con una splendida parrucca; ma anche l’idea di rimettere in piedi i Rainbow sostituendo Ritchie Blackmore con lo scarsissimo figlio Jürgen Blackmore, scopo tour in paesi musicalmente gonzi tipo Russia Grecia e Albania, non era male).

I Jethro Tull si sono salvati da tutto questo, perché non hanno mai smesso di suonare e perché hanno avuto il coraggio di cambiare continuamente stile, attraversando blues, hard rock, prog rock, folk rock, new wave elettronica, AOR, jazz/fusion, world music e altro ancora, senza mai perdere la passione. Di fatto, ormai da tempo l’anima del gruppo è ridotta al leader carismatico Ian Anderson e al suo fido chitarrista Martin Barre, che hanno scelto di ridurre al minimo la produzione di nuovo materiale per puntare su una intensa attività dal vivo. Nonostante questo, il concerto è tutt’altro che un “greatest hits” degli anni d’oro; in scaletta ci sono comunque anche brani recenti e altri tratti dai periodi meno conosciuti, ma non per questo meno interessanti – talvolta sono belle scoperte per gli stessi fan.

Il risultato sono quasi due ore di musica, intervallate da una pausa centrale di venti minuti. Si parte alle 21:20 (guai a chi arriva troppo in ritardo…) in modo intimo, con brani quasi acustici; per primo, ripescato dall’oblio, Dun Ringill da Stormwatch, che si rivela un opener fantastico per creare l’atmosfera; e poi due classici deliziosi come Life Is A Long Song e Jack-in-the-Green. Il concerto si scalda passando al blues-rock di Nothing Is Easy e A New Day Yesterday, due pezzi che a tutt’oggi è impossibile ascoltare senza essere trascinati dal ritmo, per poi virare sul rock secco di Cross Eyed Mary e Songs From The Wood; questa è la parte che non convince appieno, perché Cross Eyed Mary è un classico del rock tirato (memorabile anche la cover che ne fecero gli Iron Maiden del periodo d’oro) e a quell’età non è facile averla nelle corde, e perché Songs From The Wood è talmente complessa che rifarla bene dal vivo è umanamente quasi impossibile. Prima dell’intervallo si ritorna ad una atmosfera più intima, con un pezzo nuovo – Hare and the Wine Cup – che non sfigura affatto; poi arriva un vero gioiello, una versione di Bouree in parte fedele all’originale e in parte del tutto nuova, piena di colori e cambi di atmosfera, davvero bellissima.

Dopo l’intervallo è anche meglio; l’inizio è rinascimentale, poi un altro pezzo nuovo, e poi arriva un superclassico come My God, rifatto per intero con grandissimo impatto. Persino quel polpettone melassoso di Budapest (è del periodo in cui andavano di moda i Dire Straits e purtroppo si sente) scivola via senza danno, ma si fanno perdonare perché, dritto sul finale di Budapest e senza un respiro in mezzo, Barre attacca il riff di Aqualung. E’ il delirio; viene giù la sala letteralmente, nel senso che da tutto il palazzetto centinaia di persone si alzano e corrono sotto il palco, causando l’alzata in piedi di tutto il parterre, e addirittura c’è un’invasione di palco, un tizio nudo dalla cintola in su che si arrampica e saluta la platea tutto eccitato prima di venire portato via di peso, robe che non si vedevano dagli anni ’80 insomma. Anche Aqualung è impeccabile, trascina la folla fino a che non finisce, poi la band saluta e se ne va. Il pubblico vuole il bis, e quando si intravede nel buio il tastierista che entra e si siede al piano, che cosa potrà mai attaccare? Ovviamente Locomotive Breath, per chiudere in bellezza.

Valeva decisamente la pena di vederli, anche perché la forma era notevole; la voce di Anderson c’era (da vent’anni ha problemi di voce e non sempre è al meglio) e l’esecuzione è stata impeccabile, nonostante la grande complessità tecnica dei pezzi dei Jethro Tull. Insomma, è stato persino meglio della serata che vidi a Torino ormai sette anni fa… e non capiterà certo più la scena del concerto interrotto da un tizio dell’organizzazione che sale sul palco senza preavviso e, con un accento genovese fortissimo, legge al microfono un pomposo discorso scritto con cui assegnano a Ian Anderson il notissimo premio Mandolino Genovese 2010, davanti a un Anderson basito che non sa se ridere, incazzarsi o chiamare la sicurezza.

Ah, l’approccio a Genova in auto è stato devastante come al solito (treni del ritorno a tarda sera non ce n’erano), ma il luogo del concerto – il PalaVaillant all’interno del centro commerciale della Fiumara, a Sampierdarena – non è male, anche se l’acustica è un po’ da cubo di cemento; io avevo preso la fila più bassa della tribuna est (una gradinata con seggiolini), non vicino al palco ma centrale e rialzata rispetto al parterre di gente seduta, dunque si vedeva e si sentiva comunque bene, perdipiù a prezzo ragionevole (32 euro se ben ricordo). Molto apprezzata però l’idea del parcheggio multipiano del centro commerciale aperto fino alle 3 di notte e dunque utilizzabile per il concerto. Ci mettessero anche una freccia per spiegarti come arrivarci non sarebbe male, io ci sono capitato per caso girando per le viuzze.

Setlist completa: Dun Ringill, Beggar’s Farm, Life is a Long Song, Jack-in-the-Green, Eurology, Nothing is easy, A New Day Yesterday, Songs From the Wood, Cross-eyed Mary, Hare and the Wine Cup, Bouree; intervallo; Past Times with Good Company, A Change of Horses, My God, Budapest, Aqualung; bis, Locomotive Breath.

[tags]concerto, musica, jethro tull, genova, palavaillant, kiss, iron maiden, rainbow[/tags]

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venerdì 14 Maggio 2010, 12:12

Mi raccomando

La raccomandata da me inviata dall’ufficio postale di via Marsigli, nel pomeriggio del 5 maggio, a Vodafone N.V. (la filiale di Vodafone che incassa i miliardi degli italiani ma paga le tasse in Olanda, tutto ciò nell’indifferenza generale del nostro ministero dell’Economia dato che c’è la libera concorrenza europea ecc. ecc.), casella postale 190, Ivrea, è stata ricevuta (timbro e firma) già il 6 maggio: ottimo.

Peccato che la ricevuta di ritorno, quando già davo la spedizione per persa, mi sia arrivata solo stamattina: 8 giorni per fare 40 km. Considerato che ho pagato il disturbo cinque euro e trentacinque centesimi, ossia quasi quello che avrei speso di treno o di bus per portarla di persona e tornare indietro, non mi sembra un gran livello di servizio.

[tags]poste italiane, raccomandate, vodafone, ivrea, tasse[/tags]

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giovedì 13 Maggio 2010, 12:33

Sfide informatiche impossibili

“Per inserire una vocale accentata digitare la vocale seguita dall’apostrofo (es.: ala’ dei sardi invece di alà dei sardi).” (dal sito dell’Agenzia delle Entrate)

[tags]informatica, lettere accentate, programmatori avanzati[/tags]

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mercoledì 12 Maggio 2010, 16:24

Formazione a tenaglia

Giusto ieri mattina, Specchio dei Tempi apriva con la lettera di una ragazza venticinquenne che esprimeva “sdegno”. Barbara, questo il suo nome, finite cinque anni fa le scuole superiori ha scelto il suo mestiere, e ha seguito un corso di formazione pubblico (per lei gratuito, e interamente pagato dalla Regione Piemonte) per diventare “Tecnico Marketing e Promotore Enogastronomico”. Bene, parrà strano, ma a cinque anni dal conseguimento di cotal qualifica la povera Barbara (alla quale, sia chiaro, va tutta la mia solidarietà) ancora non ha trovato lavoro. E allora si indigna: come mai la Regione non “chiama mai a lavorare” alle fiere del salsiccione e della tinca gobba il personale qualificato come lei, che si vede rubare il lavoro da altri ragazzi, assolutamente non preparati e non competenti nel settore della tecnica del marketing per la promozione enogastronomica?

E’ evidente una serie di ingenuità tutte italiane: quella di credere che per lavorare conti il pezzo di carta, anzi che il pezzo di carta conferisca una precedenza inconfutabile nell’accesso al lavoro; quella di immaginare che il lavoro non si ottenga con lo sbattimento dal proprio lato, ma si riceva per chiamata dalla mamma-Stato (o dalla mamma-azienda), ragion per cui il modo di ottenere un’occupazione sia quello di lamentarsi con gli enti pubblici; e quella di pensare che sia il pezzo di carta e il relativo corso di formazione a creare i posti di lavoro, anziché le esigenze del mercato.

Detto questo, Barbara ha ragione a lamentarsi; perché non ha alcun senso che gli enti pubblici spendano ogni anno palate di miliardi per organizzare corsi di formazione per qualifiche assolutamente strambe. Le fiere si sono sempre fatte, e non credo che si sentisse un problema di sottoqualificazione delle signorine messe lì a vendere barbera o salami nostrani. Ma se è l’ente pubblico ad autorizzare speranze poco sensate nei ventenni di turno, a cui spesso non viene data altra alternativa che continuare a studiare perché il lavoro non si trova, la responsabilità è innanzi tutto dell’ente pubblico stesso.

La verità, peraltro, è nota a tutti: il settore della formazione pubblica, che in sè avrebbe ampio merito, negli ultimi anni è stato gonfiato a dismisura proprio per consentire un travaso ottimo e abbondante di fondi dalle casse pubbliche a quelle di cooperative, aziende e gruppi vari ma invariabilmente vicini alla politica; e così altri settori contigui e ricchi di appaltatori pubblici, come quelli sociali, quelli culturali, quelli di vigilanza. In città il caso più noto è quello di Mauro Laus, la cui carriera politica va di pari passo con quella della sua Rear, che insegue o vince o perde appalti proprio mentre lui passa dalla Margherita al PD e poi ai Moderati e poi di nuovo al PD, naturalmente e sempre per motivazioni strettamente politiche.

Non dev’essere nemmeno tanto piacevole gestire un’azienda così, sapendo che al primo cambio di vento rischi di dover mandare a casa la gente. D’altra parte c’è il vantaggio che questi settori ben si prestano all’uso di forme giuridiche defiscalizzate come la cooperativa o l’associazione senza fine di lucro; tanto lo scopo non è pagare dividendi, è sufficiente pagare bei stipendi e bonus a chi li dirige o anche solo far girare i soldi verso sub-fornitori. E in tutto questo è essenziale che i corsi siano gratuiti o addirittura prevedano qualche lira per chi li frequenta, in modo da essere certi che si presentino degli studenti a giustificare lo stanziamento pubblico.

Esistono però anche altri “modelli di business”: ad esempio, il corso può non essere pagato dalle casse pubbliche, ma dagli studenti, costretti mediante l’istituzione di albi professionali dal dubbio significato a mettere mano al portafoglio nella speranza di poter poi lavorare. In questo caso, il ruolo della politica non è quello di finanziare direttamente le aziende incassatarie, ma quello di creare regole pensate essenzialmente per imporre alle famiglie una “tassa sull’aspirazione a lavorare”, nel contempo mantenendo comunque il controllo sui beneficiari dell’affare e creando l’ennesima castina all’italiana che, oltre a diventare un organizzato bacino elettorale, distingue chi può lavorare da chi no (salvo amicizie che permettano di chiudere un occhio).

In questa categoria ricade l’ennesima chicca che mi hanno segnalato oggi: la Regione Piemonte ha pronto un nuovo imprescindibile corso di formazione. Non ho idea di chi sia la fortunata azienda appaltatrice che dovrà farsi in quattro per fornire adeguata istruzione; so solo che si chiama Formont (ossia “formazione per la montagna”) ed è un “consorzio di enti pubblici e privati” non meglio specificato (immagino serissimo, eh; mica è tutto da buttare). Sono tuttavia curioso di sapere chi saranno gli insegnanti, dato che il corso intende formare i ventenni torinesi per una attività di grande valore aggiunto che richiede senz’altro altissima specializzazione: quella di buttafuori.

Ora siete liberi di ipotizzare in cosa consisteranno le 51 ore di corso, divise tra 24 “giuridiche” (come pestare un passante e non finire in galera), 9 “tecniche” (le migliori posizioni spaccaossa) e 18 “psicologico-sociali” (il dramma interiore del buttafuori moderno), che permetteranno poi di iscriversi all’agognato “albo dei buttafuori”. Sono certissimo che l’istituzione di questo pezzo di carta a pagamento permetterà di ridurre quegli incresciosi episodi di accoltellamenti e risse tra buttafuori e clienti: un po’ come l’ordine dei giornalisti garantisce in Italia una grande libertà di stampa.

[tags]formazione, regione piemonte, laus, moderati, pd, fondi pubblici, buttafuori, lavoro[/tags]

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martedì 11 Maggio 2010, 11:31

Ripagare le banche con la loro moneta

Il bello dei dogmi è che, dato che non possono essere messi in discussione, permettono di prevedere con certezza cosa succederà. I dogmi di questi giorni, per la precisione, sono due: il fatto che anche gli Stati, come già le banche, non debbano fallire, e il fatto che l’Europa debba essere unita da una sola moneta. E sono talmente forti che alla fine la Merkel ha accettato di perdere le elezioni in casa propria pur di non doverli rinnegare.

E’ chiaro che noi stiamo stappando champagne: la strada imboccata dall’Europa vuol dire che possiamo continuare a fare debiti in allegria, tanto li pagheranno i tedeschi, gli olandesi, gli austriaci e così via; anzi ora abbiamo tirato dentro pure il Fondo Monetario Internazionale, per cui li pagheranno anche gli americani, i giapponesi e persino i brasiliani, gli indiani e i cinesi. In questo senso, la nostra entrata nell’euro è un capolavoro di pacco all’italiana.

D’altra parte, gli economisti escono da questo fine settimana con le ossa ancora più rotte: per motivi politici, la Banca Centrale Europea ora si metterà a comprare i titoli di Stato del Sud Europa per stabilizzarne il mercato. E con cosa pagherà questi acquisti? Si è parlato di una “tassa europea” di qualche genere, anche se limitata alle transazioni finanziarie; e questa è la via che spiacerebbe di meno ai finanzieri, anche perché sarebbe un ulteriore passo avanti verso l’“unione europea dei banchieri”, accentrando per la prima volta nella Storia il potere di imporre tasse nelle mani dell’Unione e dunque sottraendo ancora un po’ di sovranità agli Stati nazionali. La verità però è un’altra; che, alla fine, se la crisi peggiorerà (e prima o poi i debiti verranno al pettine), l’unica cosa che potrà fare la BCE è stampare euro, facendo crollare il pilastro della politica monetaria europea da quando esiste la valuta unica – quello che gli Stati non possono finanziare la propria allegra spesa pubblica con la stampa di nuova moneta.

Dal punto di vista politico sono due le visioni che si scontrano; da una parte, gli economisti e i liberisti sostengono che la crisi non è causata da loro, ma dai livelli insostenibili di spesa pubblica abbracciati dai politici del Sud Europa a fronte di una crescita insufficiente; dalle baby pensioni calcolate col sistema retributivo, dalla bassa produttività dei lavoratori, dalla eccessiva spesa in cassa integrazione e in incentivi per sostenere aziende decotte e fallimentari, in generale dalla “bella vita” che greci, spagnoli e italiani farebbero. In questa visione l’unica via d’uscita possibile è data da tagli e sacrifici per le persone, e manovre di “copertura” come quella di sabato sono solo l’ennesimo atto irresponsabile da parte di politici populisti.

Dall’altra, c’è la visione anticapitalista per cui la crisi è solo l’ennesimo sussulto di manovre speculative globali, in cui una manciata di banchieri americani prendono di mira questa o quella nazione per arricchirsi sul suo affossamento e poi arricchirsi di nuovo con i soldi pubblici immessi nel sistema per evitarlo; e per cui la colpa della situazione mondiale ricade proprio sugli economisti, sui finanzieri e su tutti coloro che hanno disegnato e gestito l’economia globale per trent’anni, e che non sono in grado di affrontare il cambiamento di scenario dovuto all’esaurimento dello spazio di crescita.

Qual è la verità? Probabilmente sono vere entrambe; è vero che, in Grecia come in Italia, il debito cresce in maniera irresponsabile e molto denaro viene sprecato in privilegi, sprechi e ruberie, espressamente voluti dal sistema politico per motivi di interesse personale o di consenso politico; ed è vero che le ricette “lacrime e sangue” proposte dalla finanza internazionale solitamente vogliono scaricare sulla classe media i sacrifici, a fronte dell’arricchimento e della speculazione di pochi, cercando poi di ritornare al “business as usual” – e chi ha fatto i soldi se li tiene.

Per questo la discussione su chi abbia ragione mi interessa poco; certo l’idea di ripagare Francia e Germania rendendo carta straccia la moneta che hanno fortemente voluto è interessante; sul fatto che ciò possa preludere a un luminoso futuro (o che possa portare ad altro che alla forzata esplosione dell’Unione Europea) sono però molto scettico. La verità è che la nostra economia è un camion fermo col motore fuorigiri, a cui pare avvicinarsi uno tsunami; come ripartire in tempo per evitarlo, e soprattutto in che direzione muoversi, pare non saperlo nessuno.

[tags]economia, banche, europa, euro, bce, grecia, italia, debito pubblico, finanza[/tags]

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sabato 8 Maggio 2010, 11:08

A voi comunicare

Piazza Bottini è l’equivalente milanese del nostro passante ferroviario: una zona che era già devastata dai cantieri dieci anni fa quando ci passai per la prima volta, che lo è sempre stata ogni volta che ci passavo e che lo è tuttora. Quella che doveva essere una piazza a semicerchio con le sue brave aiuole e i capolinea dei pullman è quasi sempre un buco terroso con passaggi provvisori, pozzanghere, pietrame abbandonato, grate e recinzioni semidivelte; è per le condizioni medie della piazza che la prospiciente stazione (peraltro tenuta a un livello di decoro non dissimile) è giustamente soprannominata Milano Lambraids.

Questa volta però in piazza Bottini Milano ha superato se stessa. L’altro giorno sono sceso dalla S9 per prendere il bus per tornare a casa – e avevo ben due scelte: il 54 e la 93. Il problema, da sempre, è questo: dove fermeranno oggi il 54 e la 93? Ogni volta, a causa del cantiere, fermano in un posto diverso; e dato che la piazza è un semicerchio su cui si affacciano cinque vie ad angoli regolari, c’è l’addizionale quiz del “da che via arriverà e in che via si infilerà stavolta il bus?”. Data la cronica mancanza di indicazioni, la cosa migliore è girare per la piazza cercando di avvistare le paline delle fermate, finché non ne trovi una e puoi leggere se lì ferma il tuo bus.

Stavolta, però, la palina accanto all’edicola mi è apparsa così:

IMAGE_106s.jpg

Apprezzate bene: la palina c’è, ma è all’interno di una zona di cantiere di cinque metri per cinque recintata da una rete arancione, dunque non ci si può avvicinare a meno di due metri (se non verso il retro, dove non c’è scritto niente). Sulla palina è indicato il percorso della 93, ma poi, appeso in basso, c’è un cartello scritto in corpo 8, che evidentemente discute le varie deviazioni: provate voi a leggere un cartello scritto in corpo 8 affacciandovi da una rete a due metri di distanza. Il problema è stato risolto da qualcuno che, con un pennarello, ha scritto con calligrafia stentata sul bordo arancione della palina “93 FERMA IN VIA VIOTTI (50 MT)” e subito sotto “93 SOPPRESSA” – peccato che siano due indicazioni potenzialmente contrastanti (soppressa la fermata o la linea?).

Basta però camminare per altri cinque metri sul marciapiede per trovare questo:

IMAGE_108s.jpg

Ok, qui c’è una fermata. Ma di cosa? Il cartello corpo 8 ora è leggibile, ma non contiene alcuna informazione utile; spiega dettagliatamente che la linea che prima passava di lì ora passa di là, usando nomi di minuscole vie del quartiere che sono perfettamente ignote non solo a un torinese come me, ma, a giudicare dagli sguardi, anche ai milanesi non della zona. Ma non dice da alcuna parte quali siano le linee che fermano lì.

Alla fine ci siamo organizzati; abbiamo visto la 93 apparire e ci siamo buttati in mezzo alla strada finché non ha fermato. Peccato che, dopo un paio di svolte, la 93 sia effettivamente arrivata in via Viotti, dove c’era uno slargo con una palina che recitava “93 CAP.” e una ventina di persone in attesa; la 93 ha bellamente saltato il capolinea per andare ad arrestarsi accanto a una normale fermata cinquanta metri più avanti, dove c’era il solito cartello corpo 8, lanciando una scena da comica in cui le venti persone si sono messe a correre implorando l’autista di aspettare. Evviva le chiarissime indicazioni all’utenza dell’ATM milanese…

P.S. Alla fine Milano mi ha comunque regalato un altro grande episodio. A una fermata, il bus apre la porta centrale e due persone si trovano l’una davanti all’altra: da un lato un anziano che scende dal bus, e dall’altro un ragazzo scapigliato che vi sale. Vedendo libero lo spazio davanti a sè, il ragazzo fa subito per salire; a quel punto l’anziano, con lo scatto di un bradipo stagionato, si butta lateralmente addosso a lui (che nel frattempo, vista la velocità dell’azione, è già interamente sul bus) e gli dice “uè, si lascia scendere prima di salire”. Il ragazzo si scusa: errore madornale, perché, come davanti al lupo sottomesso che mostra la gola, l’anziano parte con una filippica in milanese stretto (tenendo fermo tutto il bus per dieci secondi). Infine scende, il bus chiude le porte e riparte, e mentre scorriamo via vediamo l’anziano fermo sul marciapiede con gli occhi inquisitori puntati sul ragazzo sul bus. Inquietante.

[tags]milano, lambrate, piazza bottini, bus, atm, indicazioni[/tags]

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venerdì 7 Maggio 2010, 09:19

Sulla scienza e sulla libertà di Internet

Ieri sono andato all’annuale assemblea di Società Internet, il chapter italiano della Internet Society, di cui sono socio da dieci anni e di cui sono stato consigliere fino all’anno scorso. Quest’anno, tra Movimento e altre cose, sono stato meno coinvolto che in passato, tanto è vero che a margine dell’assemblea alcuni vecchi saggi hanno cercato di coinvolgermi più a fondo nelle attività associative “così la smetti di pensare di cambiare il mondo con la politica”.

Peraltro, anche quest’anno qualcosa per ISOC l’ho fatto: ho scritto un lungo articolo scientifico che introduce una visione globale del dibattito sulla neutralità della rete, cercando di mettere insieme aspetti che normalmente sono studiati separatamente – quello tecnico dagli ingegneri, quello economico dagli economisti, quello sociale quasi da nessuno – e di tracciare un filo concettuale che leghi tutti questi problemi all’architettura fondamentale della rete. L’articolo è stato pubblicato sul quinto Quaderno dell’Internet Italiano, uscito da poche settimane, che potete leggere online o di cui potete richiedere la copia cartacea a Società Internet; contiene vari articoli interessanti, alcuni più strettamente tecnici e altri, come il mio, più concettuali e sociali.

Dopo l’assemblea si è tenuto un convegno, anch’esso organizzato da Società Internet, sul tema della responsabilità dei gestori dei servizi Internet, a valle della sentenza Google-Vividown e di altri casi che secondo me sono veramente allarmanti (si è parlato di Bakeca e di Zopa). Come sempre in questi casi, buona parte del convegno è stato dedicato a interventi scandalizzati sul fatto che un giudice possa permettersi di chiedere a chi gestisce un sito di contenuti inviati dagli utenti di rispondere dei contenuti stessi, con tutti i soliti paragoni: è come condannare chi gestisce l’autostrada perché ci viaggia sopra un rapinatore, è come condannare il proprietario del muro di un palazzo per una scritta fatta di notte da qualcun altro.

Io sono d’accordo sull’importanza della neutralità della rete – vedi l’articolo che ho scritto – e sul fatto che chi distribuisce i contenuti non debba essere immediatamente e ipso facto responsabile di ciò che viene immesso dagli utenti sulla sua piattaforma; è dieci anni che mi do da fare per questa causa. Sono però molto preoccupato della litania scandalizzata di cui sopra; perché spesso esagera, e comprende un inaccettabile scarico di responsabilità.

E’ comprensibile che chi possiede e gestisce Google voglia ottenere i benefici del suo investimento in Youtube (le entrate economiche da pubblicità) senza doversi assumere il rischio e l’onere derivante da responsabilità sui contenuti che li generano, così come è comprensibile che chi gestisce Wikipedia voglia gestirla come il proprio giocattolino e prendersene gli onori senza doversi poi beccare le cause per i contenuti potenzialmente diffamatori che essa potrebbe ospitare. Ma è anche giusto?

E non è vero che, per difendere la possibilità di un dissidente cinese di mandare in giro un video senza censure, si debba per forza accettare che Youtube trasmetta per settimane pestaggi di disabili, maltrattamenti di animali, corse automobilistiche illegali, cadaveri martoriati e chi più ne ha più ne metta. Va benissimo che questi gestori non siano responsabili se non dopo segnalazioni formali e provate, va benissimo che vengano stabilite regole chiare per giungere a decidere cosa va eliminato, limitando i rischi di censura politica ed evitando di lasciare le scelte alla sola decisione del provider di turno (che, nel dubbio, censurerebbe qualsiasi cosa vagamente scomoda per non prendersi alcun rischio), ma non si può accettare che Internet diventi l’amplificatore di qualsiasi immondizia diseducativa e illegale perché non abbiamo voglia di vigilare e di fare qualche distinzione.

Youtube e Wikipedia, come Facebook e come tanti altri, sono chiaramente servizi fondamentali e di pubblico interesse, esercitati in una posizione di predominio quasi monopolistico sul rispettivo “mercato” (della trasmissione di video on demand l’uno, delle enciclopedie elettroniche l’altro). Da questo non derivano solo i benefici in termini di guadagno (che sia fatturato o donazioni) e di visibilità, ma anche le conseguenti responsabilità; e prima ancora delle responsabilità giuridiche vengono quelle etiche, morali, deontologiche, sociali, politiche. Mi piacerebbe che prima o poi questi intermediari se le prendessero, all’interno di un framework condiviso con il legislatore e la comunità della rete; e fa specie che su questo tema siano spesso più collaborative e responsabili le multinazionali private rispetto ai progetti che vengono dalla rete.

[tags]internet, società internet, isoc, neutralità della rete, libertà della rete, censura, google, vividown, bakeca, zopa, youtube, wikipedia, responsabilità, isp, internet governance[/tags]

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giovedì 6 Maggio 2010, 21:12

Morire da simboli

Spesso la Storia, grande o piccola che sia, viene raccontata per persone, riducendo fenomeni sociali e politici a un volto solo che ne diventi il simbolo. Che siano Jan Palach o Ernesto Che Guevara, Enrico Toti o Pietro Micca, si tratta molto spesso dei volti di morti; probabilmente è, oltre che una forma di onore ai caduti per una causa, un retaggio della pratica del sacrificio umano, che sin dalla notte dei tempi abbiamo adottato per placare gli dei in tempi di crisi.

A questo punto starete forse pensando che i morti simbolo di ieri siano i tre di Atene; è vero, probabilmente lo saranno anch’essi. E’ facile (anche se non scontato) che di fronte al sangue la protesta si plachi, e che quella che sembrava una rivoluzione sul nascere – la prima di molte tentate rivoluzioni anticapitaliste che potrebbero punteggiare la crisi disastrosa che probabilmente ci attende – naufraghi ora nella repressione da sdegno. E’ interessante leggere attentamente i resoconti e scoprire che i morti non sono dovuti al nucleo dei manifestanti, anarchici e studenti compresi, ma all’apparizione del solito gruppo di “black bloc”; ed essendo ormai appurato che a Genova e a Seattle li mandava la polizia per conto di chissà chi, se ciò fosse vero anche ad Atene forse quei morti potrebbero diventare, più che il simbolo della violenza contro il sistema, il simbolo della violenza con cui il sistema difende se stesso. Ma non è il caso di scriverlo troppo forte, che il rischio è di finire nel complottismo paranoico – o di sbagliarsi e basta.

Invece, la morte simbolica di ieri per me è un’altra; quella dell’operaio sessantaduenne Aristide Luigi Padovan, sfracellatosi cadendo da dieci metri sull’asfalto mentre smontava le strutture usate il giorno prima da Morfeo Napolitano per dare il via, sullo scoglio di Quarto, ai festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Pensateci bene: potete immaginare morte più simbolica di questa? L’Italia in pompa magna festeggia se stessa, e subito ci scappa il morto sul lavoro.

Sono piuttosto convinto che Italia 2011 sarà davvero la summa dell’italianesimo: dopo il morto sul lavoro sono già in arrivo le mazzette, la retorica fanfarona, l’edilizia di cartone, le polemiche da bar e i fiumi di parole. E’ del resto evidente, senza ipocrisie, che l’unità d’Italia non esiste, non è mai esistita e comunque non l’ha mai voluta nessuno, se non nell’ottica di fregare il vicino; il dibattito pubblico ormai verte sulla questione se abbiano fregato più soldi i piemontesi dalle casse di Napoli all’atto dell’unificazione, o i napoletani dalle casse del Nord nei 150 anni successivi. Rassegniamoci: siamo un paese di individualisti e il fatto che ormai gli stati nazionali non contino più niente, stretti tra la globalità dei fenomeni e la devoluzione dei poteri imposta dalla complessità moderna, potrebbe essere una buona scusa per sciogliere finalmente nell’acido la burocrazia inutile che ammorba l’Italia, trasformandola una buona volta in uno Stato federale.

E se proprio sarà necessario trovare un ulteriore simbolo per l’annuale mano sul cuore quando gioca la Nazionale, non ci sarà bisogno di altri morti: lo sportivissimo calcio nel culo di Totti a non ci sono negri italiani Balotelli va benissimo.

[tags]italia, unità d’italia, storia, simboli, atene, napolitano, totti, balotelli[/tags]

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mercoledì 5 Maggio 2010, 19:05

Uno vale uno, speriamo

Chi legge abitualmente il blog di Grillo avrà notato che negli ultimi tempi Beppe ha parlato spesso del Movimento 5 Stelle per ribadire alcuni concetti fondamentali; in particolare, ha annunciato che da fine giugno sarà pronta la piattaforma online con cui tutti coloro che si sono iscritti al movimento potranno votare su tutto ciò che riguarda le sue attività.

Prima Beppe ha ribadito in un post scriptum quanto scritto nel non-Statuto, cioè che tutta l’attività deve avvenire “senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi”, ribadendo che le associazioni grilline che un po’ in tutta Italia si sono costituite negli anni, e le loro cariche sociali, non vanno intese come aventi alcun ruolo organizzativo o potere specifico nel Movimento: infatti “è quindi disconosciuta ogni carica locale di rappresentanza (ad esempio Presidente) del MoVimento 5 Stelle”.

Poi, nel post di venerdì scorso, è stato molto chiaro anche per ciò che riguarda le future liste civiche: “Il movimento è anche on line, è il MoVimento nazionale, lanceremo il portale  a fine giugno e si potranno poi discutere tutte le idee sul fare liste, civiche, regionali, comunali. Lo faremo insieme. Il principio di uno vale uno sarà finalmente applicato.”

Queste cose sono state ampiamente dette in campagna elettorale e costituiscono, secondo me, uno dei messaggi più forti del Movimento e una delle maggiori ragioni del consenso ricevuto, a cui dunque è obbligatorio tener fede. Tuttavia, rispetto allo stato attuale della nostra organizzazione, esse mettono sul tavolo alcune questioni.

La prima è quella relativa al controllo sugli eletti. A livello di lista regionale, il modello che tutti insieme avevamo concepito e promosso era quello in cui le persone elette nelle istituzioni sono intercambiabili e costituiscono dei semplici portavoce del gruppo che lavora con loro e che viene a sua volta legittimato dal basso. La struttura intermedia viene creata sia perché è necessaria una figura giuridica che faccia da “datore di lavoro” del dipendente dei cittadini, sia perché non è pensabile che tutti gli elettori passino il tempo a dar direttive al loro rappresentante su ogni minima questione.

D’altra parte, è vero che una struttura di questo genere può facilmente diventare un direttivo di partito, ed è proprio questo che Grillo vuole evitare. Il risultato è di responsabilizzare totalmente le persone che sono state elette: non esiste un movimento formalizzato, ma esistono solo Grillo, le persone elette, e la rete. Il controllo dei cittadini sugli eletti non è più di tipo giuridico e organizzativo (cosa peraltro difficilmente compatibile con la Costituzione) ma di tipo mediatico: se l’eletto sbaglia, formalmente nessuno potrà farci nulla, ma si beccherà mille commenti incazzati su un forum e magari qualcuno lo aspetterà sotto casa. Si tratta di una forma di controllo efficace? Vedremo; certamente però diventa cruciale la scelta dei singoli candidati, e non è più vero che quel che conta è solo il gruppo o che si punta a “spersonalizzare” la politica – se mai l’opposto.

Una questione ancora più evidente si apre per ciò che riguarda l’organizzazione dei futuri appuntamenti elettorali, che a questo punto non sono più tanto tappe di lavoro di un unico gruppo, ma progetti indipendenti ogni volta costituiti per “far eleggere la persona X nell’istituzione Y” e legittimati da Grillo di volta in volta.

A Torino, in vista delle elezioni comunali dell’anno prossimo, esiste e lavora da anni l’associazione Torino a 5 Stelle, che si è data una serie di regole piuttosto strutturate (che tra l’altro ricevettero i complimenti di mezza Italia all’incontro nazionale di Firenze). In questo momento, l’associazione – come forma, non come gruppo di persone – è di fatto delegittimata. Dall’altra parte, alcune persone che in passato erano uscite sbattendo la porta da tale associazione, dopo aver partecipato al progetto delle elezioni regionali, disconoscono l’associazione e propongono invece di creare un coordinamento di comitati o di gruppi di quartiere, che si strutturi in modo meno formale ma che comunque organizzi in proprio la lista.

Alla luce del non-Statuto e delle posizioni di Grillo, entrambe queste strade mi sembrano impercorribili. Grillo è stato chiaro: fino a fine giugno si aspetta, e dopo, sulla piattaforma di discussione, tutti i partecipanti insieme (a Torino stimiamo che gli iscritti al movimento nazionale siano 1500-2000, del resto i voti sono stati 17.000) potranno dire la loro in maniera orizzontale su come procedere. E io sono totalmente d’accordo con Grillo: che sia una associazione gestita da un gruppo di dieci attivisti storici, o che sia un comitato formato da dieci rappresentanti di questo o quel gruppetto, dopo quel che è stato promesso in questa campagna elettorale – uno vale uno – nessuno ha più il diritto di decidere per conto dei nostri elettori.

Come è evidente anche dalle discussioni sul blog regionale e altrove, in chi da anni dedica il proprio tempo volontariamente al Movimento c’è una certa paura di questa svolta. Si parte da una certa presunzione di superiorità, per cui chi “ha preso freddo ai banchetti a raccogliere firme” deve avere più voce in capitolo dell’elettore qualsiasi; e si insiste sul rischio (che effettivamente esiste) che allargando troppo le scelte si finisca in mezzo a “gare a portare più amici”, magari consegnando il Movimento a qualche ex politico con i pacchetti di voti già pronti, o a persone che nessuno conosce e nessuno sa se siano oneste e degne di fiducia, ma che siano particolarmente brave ad infiammare un forum; e che si finisca per implodere in quanto (già visto in passato) i 100 partecipanti online la pensano in maniera opposta ai 10 attivi, al che i 10 attivi si stufano e nessuno fa più niente.

I rischi ci sono; tutto questo è un grande esperimento. D’altra parte anche il sistema tradizionale è pieno di rischi, e a ben vedere non esiste un solo caso di movimento politico di rottura, dai Verdi alla Lega, che non sia presto diventato preda delle logiche dei capetti, delle tessere e delle cordate. L’idea di Grillo è nuova (per quanto simile a esperienze online già vive da anni); è un esperimento che sogno da dieci anni, e in cui credo; perché non provarla, come peraltro abbiamo promesso? Credo che scopriremo che la nostra base è anche più sveglia di noi e che saprà fare delle buone scelte.

Comunque, come al solito, ho scelto di fare un post (sperando che stavolta nessuno dei miei colleghi di attivismo si offenda) per chiedere un parere a tutti coloro che mi leggono.

[tags]movimento 5 stelle, beppe grillo, politica, organizzazione, torino a 5 stelle, elezioni comunali[/tags]

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