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martedì 23 Agosto 2011, 18:46

L’era del baratto

Circola in questi giorni per la rete una parabola, riportata anche da Byoblu, che parla di economia. Sostiene che la crisi economica non esista, ma che sia indotta dall’esistenza degli intermediari, che in quanto speculatori e parassiti lucrano alle spalle dei lavoratori e che li affamano per guadagnare alle loro spalle, arricchendosi senza faticare; e che la soluzione della crisi sia eliminare le sovrastrutture – gli intermediari, il commercio, il mercato – e ritornare all’economia del baratto.

Indubbiamente la distanza tra finanza (moneta) ed economia (lavoro) è alla radice della crisi globale, con numerosi sotto-problemi: l’uso del debito per mantenere un livello di vita ingiustificato, la manipolazione dei prezzi di beni essenziali a fini speculativi, la gestione delle risorse e delle industrie con ottiche di breve anziché di lungo termine, l’accumularsi di rendite di posizione ingiustificate, la mancanza di democrazia e di garanzia del pubblico interesse nella finanza globale, compreso il tema della sovranità monetaria.

Tuttavia, io sono preoccupato dall’offerta di soluzioni semplici, stile “ci sono i cattivi, prendiamoli, cacciamoli, e tornerà l’età dell’oro”. L’odio per la finanza, equiparata per principio alla speculazione, non è nuovo e ritorna ciclicamente in ogni momento di crisi; fu per esempio la base per l’affermarsi del nazismo e dell’antisemitismo.

La parabola del baratto è seducente, perché prospetta una soluzione semplice e perché si riallaccia alla nostalgia per il passato, per la ricchezza di cui l’Italia godeva quando eravamo giovani e per una presunta età dell’oro in cui gli uomini vivevano liberi e felici in armonia con la natura – anche se, a ben vedere, l’Italia della dolce vita non era una civiltà agreste, ma una potenza industriale in pieno boom; nell’Italia agricola abbiamo trascorso secoli a scannarci e a morire di fame.

La verità è che la nostra è una società complessa e che può sopravvivere soltanto grazie a tale complessità, di cui la finanza è una componente imprescindibile. Fin che si parla di frutta, formaggio, mobili e indumenti si può pensare ad una economia fondata solo sul baratto, a patto naturalmente di vivere in una parte del pianeta dove coesistano naturalmente grano, frutta, pecore e legno, cosa che può essere vera per l’Italia ma non per tante altre parti del mondo. Ma io vorrei chiedere a Byoblu come ci si può procurare per baratto, ad esempio, una automobile, o un qualsiasi mezzo di trasporto più evoluto del cavallo; oppure un telefonino o il computer con cui ha scritto il suo post, o il pannello solare che dovrebbe rappresentare la nostra sorgente di energia rinnovabile per il futuro, o le grandi infrastrutture come ferrovie, autostrade e reti di telecomunicazione, o i farmaci di sintesi e le apparecchiature mediche avanzate che ci hanno permesso di raddoppiare la nostra aspettativa di vita.

La nostra società – prima ancora che la nostra economia – si basa infatti su oggetti estremamente complessi, che possono essere realizzati soltanto mettendo insieme risorse naturali sparse per il pianeta e competenze superspecializzate, e che spesso richiedono un investimento collettivo enorme, fuori della portata di qualsiasi singolo, che richiede a sua volta l’esistenza di strumenti per astrarre la ricchezza degli individui, metterla in comune e usarla per sostenere l’investimento, ripagandolo poi in qualche modo: appunto, la moneta e la finanza.

L’esistenza di storture e ingiustizie nella finanza mondiale è indubbia e va affrontata in modo nuovo, senza avere paura di cambiamenti anche profondi nelle regole della nostra economia. Strumenti (finanziari!) come la moneta complementare locale, ad esempio, possono ridurre il potere della finanza globale sulle nostre vite e sui nostri territori; dinsincentivi e limiti alle leve finanziarie, agli arbitraggi speculativi, alla delocalizzazione delle attività, all’arricchimento sul lavoro altrui, sono concepibili e opportuni. Lo stesso baratto è un’ottima cosa dove possibile, perché porta a riusare oggetti anziché produrne di nuovi e a ridurre le distanze percorse dai beni. Questo però non vuol dire che tutta l’economia possa funzionare così e che si possa tornare ad una società senza finanza, senza commercio e senza moneta – a meno che veramente non si voglia vivere in un mondo in cui un maglione di lana è l’oggetto più complesso di cui disponiamo.

[tags]economia, finanza, baratto, moneta[/tags]

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6 commenti a “L’era del baratto”

  1. ArgiaSbolenfi:

    Forse la cosa più inquietante è che ci sia bisogno di qualcuno come te che spieghi a delle persone adulte questi concetti..

  2. Anonimo codardo:

    È esattamente la stessa cosa che pensai quando lessi il post di Byoblue. Come è possibile contestualizzare in un modello basato sul baratto un bene immateriale come la conoscenza?

  3. Piero:

    Concordo con Byoblu, solo che invece di Baratto, parlerei di Economia di Comunione.

  4. Claudio C.:

    Non mi sembra che Byoblu parli “realmente” di ritorno al baratto. La sua era solo una parabola per spiegare certi meccanismi perversi della finanza.

    Provo a fare un esempio anche io: un’azienda produce in un anno 100 automobili grazie a 100 dipendenti. L’anno dopo, il mercato è stabile: 100 auto vendute e 100 dipendenti. Bene…questo per la finanza è un insuccesso e l’azienda sarà costretta a ridurre i propri costi di produzione e magari a licenziare alcuni dipendenti. Questo secondo me è un meccanismo perverso al quale, non so in che modo, bisognerebbe opporsi.

  5. vb:

    In realtà la progressiva riduzione del numero di dipendenti a parità di produzione non è tanto un meccanismo finanziario quanto l’effetto del progresso tecnologico, ovvero del continuo aumento di produttività dei processi industriali: l’azienda viene di fatto obbligata ad aumentare la produzione per mantenere l’occupazione perché i nuovi impianti permetterebbero di produrre quelle 100 automobili non più con 100 persone ma con 90, e dunque o licenzia dieci persone o aumenta le sue vendite a 110 automobili per poter mantenere 100 dipendenti.

    Ovviamente a questo fenomeno, sin dall’inizio della rivoluzione industriale, è stata proposta la soluzione “luddita” di “fermare il progresso” ovvero di non migliorare le tecnologie di produzione in modo da non rendere superflui i lavoratori. Il problema è duplice: in primis, se non progredisco io lo fa qualcun altro e dunque l’unico risultato di una azienda che non ottimizza costantemente i propri processi produttivi è quello di finire fuori mercato e chiudere; se anche fossimo tutti d’accordo in tutto il pianeta a non migliorare la produzione per non attaccare l’occupazione (cosa comunque impossibile perché esistono varie parti del mondo che hanno bisogno e desiderio di maggior produzione e maggior benessere materiale e nessun interesse ad essere generosi con i lavoratori dei paesi sviluppati) il mancato progresso finirebbe per renderci incapaci di far fronte alle richieste derivanti dalle altre curve di crescita, tra cui quella della popolazione e quella dell’esaurimento delle risorse naturali.

    In pratica, la nostra società ci forza a correre per non rimanere indietro e l’unico modo per evitarlo sarebbe (forse) quello di congelare la popolazione mondiale…

  6. mfp:

    Chiaro che il baratto non basta, pero’ e’ necessario. Intendo che i sistemi finanziari (top-down) sono gia’ in posizione da secoli … e falliscono periodicamente da secoli. Quello che e’ venuto gradualmente a mancare – o, peggio, esiste solo per un paniere limitato a tutto cio’ che e’ illegale e in mano a persone senza scrupoli – sono i sistemi economici locali (bottom-up; moneta locale e/o baratto che sia).

    E poi c’e’ un enorme problema di trasparenza: non farmi pagare il traffico telefonico (ie: il nulla) come fosse oro (ie: bene tangibile), in modo che poi la telco (emanazione di una qualche entita’ finanziaria) possa contrattare rame e carbone nella borsa in modo che 1 kg di rame non costi il suo prezzo reale all’utente finale (es: idraulico) perche’ il suo prezzo e’ stato calmierato usando i flussi di denaro che arrivano dalla telco. Con tutte le manipolazioni che questo comporta e che tu descrivi bene nel post; e manipolazioni che volenti o nolenti intersecano le istituzioni pubbliche degradandone funzione e fiducia.
    Fammi piuttosto pagare una tantum l’anno alla telco per mantenere in funzione le tlc, e una tantum l’anno a UniCredit per sostenere le sue attivita’ in Kazakstan e Mongolia su rame e carbone, e una tantum l’anno all’Eni/Finmeccanica/etc per comprare il petrolio da Gheddafi, etc. Basta cioe’ con la tassetta sui carburanti istituita nel 1913 a seguito del terremoto in Cispadania, o la farsa del libero mercato che fa lievitare il prezzo della farina, come scuse per fare altri impicci.

    P.s.: Piero, piu’ che di “economia di comunione” parlerei di “economia del dono”; stesso succo ma numenclatura laica e quindi universale.

 
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