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Mononoke Hime: L'epica della vita

ATTENZIONE: Questa pagina contiene spoiler (anticipazioni sulla trama).
Se non avete ancora visto il film, la sua lettura potrebbe rovinarvi la visione.

Una tragedia senza un lieto fine

"La Principessa Mononoke" è, indubbiamente, una grande tragedia. E' la storia di un cambiamento, che, come ogni cambiamento, non può che essere doloroso. E' la narrazione di un momento confuso della storia, della rottura di un equilibrio che porta, faticosamente, ad un altro equilibrio; di una evoluzione storica che è saldamente piantata nel Giappone medioevale, e che pure riflette perfettamente la realtà dei nostri giorni.

Ma da una tragedia del genere, in un'opera cinematografica, ci si aspettano sostanzialmente due cose. Ci si aspetta un cattivo, contro cui parteggiare, e ci si aspetta un lieto fine, con la sconfitta del cattivo, e la catarsi finale: la cancellazione della nostra angoscia e della nostra paura. Tragedie così, al cinema, se n'è viste molte. Al limite, se n'è viste anche alcune con un finale negativo, con la vittoria dei cattivi e delle nostre angosce. Ma questo film ha una particolarità veramente rara. E' una tragedia senza un cattivo; è una tragedia senza un lieto fine, ma anche senza un finale negativo.

La fine di Mononoke Hime è una fine. Punto. Non è né positiva, né negativa; ci sono aspetti positivi, e aspetti negativi. E' semplicemente una delle fini possibili; uno dei nuovi equilibri che il mondo, partendo dalla rottura dello stato iniziale, poteva raggiungere, e, contemporaneamente, l'unico che potesse essere raggiunto. Non c'è un vero vincitore, e un vero sconfitto; ognuno dei personaggi, attraverso una danza beffarda di situazioni, di cause e di effetti tra loro inscindibili, giunge infine ad una nuova condizione. Tuttavia, per nessuno di essi questa situazione è nettamente migliore, o nettamente peggiore: è, semplicemente, diversa.

La danza delle situazioni è, in questo film, veramente stupefacente. La seconda metà è costituita da una sarabanda di scene l'una legata all'altra, in cui i personaggi vengono combinati e fatti incontrare in tutti i modi possibili; sono attori di una vicenda che soltanto noi possiamo ammirare in tutta la sua complessità, ma di cui loro vivono soltanto frazioni parziali. Eppure, nessun tassello del mosaico è fuori posto; il quadro, alla fine, si ricompone nell'equilibrio finale. Esiste quindi un disegno secondo cui il sistema si evolve; per questo motivo, la fine è anche l'unica che potesse essere raggiunta. Questo ci viene detto sin dall'inizio: dovremo, insieme ad Ashitaka, iniziare un viaggio che ci porterà a "vedere il nostro destino con occhi non annebbiati", destino che è già stato scritto, e il cui compimento non possiamo evitare, ma soltanto rinviare; destino che tuttavia non prevede per noi né straordinari successi, né tremende sconfitte, ma prevede invece la cosa più difficile di tutte: vivere.

La profondità del film sta in gran parte qui: nel mostrare l'epica di una vicenda quasi normale, in cui anche le magie, le apparizioni, le guarizioni magiche assumono un ruolo secondario rispetto alle scene di massa e alla vita comune; nel mostrare una vicenda triste e sanguinosa, costellata da momenti di riflessione e di spiritualità straordinari, di immagini liriche che lasciano a bocca aperta, ma sempre mescolate alla vita di tutti i giorni, a scene di massa, ad atti comuni (mangiare, dormire, lavorare), mostrati con un realismo assoluto. Non c'è niente, proprio niente di fantastico, in questa storia; la magia dello Shishigami non è per nulla soprannaturale, ma è semplicemente il respiro della natura, l'alternarsi infinito delle stagioni, della vita e della morte, ed è quindi perfettamente naturale, perfettamente reale. I cinghiali, i lupi, le scimmie, sono creature viventi e pensanti esattamente come gli umani; non sono animali antropomorfi come nelle favole (questa non è una favola, questa è la vita, colta nel momento in cui diventa storia), ma sono raffigurati in modo perfettamente realistico.

E' grazie a questa scelta che, nel contesto di un cinema, non solo d'animazione, in cui l'allegoria delle favolette intrise di buoni sentimenti trionfa ovunque, Mononoke Hime ci colpisce per il suo messaggio complesso, contemporaneamente angosciante e rassicurante: non è vero che il bene vince sempre, ma non è neanche vero che vinca il male; a vincere è sempre la vita, che è costituita dalla fusione inscindibile di eventi positivi e negativi.

Una tragedia senza un cattivo

Simmetricamente, Mononoke Hime non è soltanto una tragedia senza una fine di segno definito; è anche una tragedia senza un cattivo.

Se non ci credete, esaminate tutti i principali candidati al ruolo. Ashitaka? No, Ashitaka è l'eroe buono - sebbene, insomma, un eroe che prende il pegno d'amore di una ragazza e lo regala ad un'altra, e che abbandona definitivamente il popolo di cui è destinato a diventare il capo per vivere con una ragazza-cane, possa anche sollevare qualche perplessità. Allora San? Lei è la principessa, e, se questo fosse un film Disney, noi dovremmo innamorarci di lei, in modo da acquistare poi le tazze e le lenzuola con la sua faccia, giusto? Sì, è un po' antipatica, spesso irritante, ma è un po' poco per farle fare la parte del cattivo. Okkotonushi, re dei cinghiali? E' probabilmente responsabile dell'attacco allo Shishigami, rischia di uccidere San ed è stupidamente orgoglioso, ma ci aspetteremmo un cattivo un po' più serio, possibilmente umano (noi teniamo per Ashitaka, San e la natura, no?), magari con un bel ghigno malefico e con un mantello scuro.

A questo punto, abbiamo individuato il cattivo perfetto: Eboshi. D'accordo, è donna, e un film con un cattivo femmina farà incazzare tutte le femministe del mondo; però ha causato la follia e la maledizione nel cinghiale, quindi anche la ferita di Ashitaka, e soprattutto abbatte gli alberi della foresta per fabbricare l'acciaio, con cui costruire fucili e conquistare il Giappone!! Il vostro cuore ecologista, pacifista e anticapitalista starà certamente sanguinando. Perdipiù, è fredda, strafottente, ed irritante; a differenza di quasi tutti i personaggi femminili degli anime, non ha due belle tette; e ha pure il mantello scuro. Insomma, la cattiva perfetta. Peccato che ci sia una quantità di gente che la santifica; che lei abbia migliorato le condizioni di vita della gente; che abbia accolto le donne ripudiate dalla civiltà maschilista medioevale; che abbia perfino provveduto a curare i lebbrosi con le sue stesse mani (e voi, verdi e difensori dei poveri alberi indifesi, sareste disposti a tanto?). A questo punto ci sono due alternative: o pensate che Gonza sia il suo Goebbels, e che lei abbia ottenuto l'adorazione della propria gente con un'abile campagna di stampa, oppure vi rassegnate a constatare che, dopotutto, non è così cattiva. Anzi, forse se conquistasse il Giappone lascerebbe sul terreno, oltre a qualche migliaio di morti, anche un bel po' di povertà e di ingiustizie sociali.

Però, a pensarci bene, alla fine un cattivo salta fuori. E' Jiko-Bou, l'emissario dell'Imperatore, l'unico che alla fine si opponga ad Ashitaka, e alla restituzione della testa dello Shishigami. Alla fine cerca persino di tirare un calcio in faccia al nostro eroe! E poi manovra alle spalle di tutti, sfrutta Eboshi, segue Ashitaka e lo aiuta perché gli fa comodo, manda al massacro contro i cinghiali gli uomini di Tataraba. Peccato che non abbia molto il fisico da cattivo. Che segua le vicende con distacco e senza quelle risate isteriche tipiche dei cattivi di Hollywood. Non si mette nemmeno, nella penultima scena, a raccontare tutto il suo piano per filo e per segno, in modo che anche lo spettatore più scemo possa capire quello che succede. E che alla fine non venga né ucciso né punito - anzi, alla fine quella che si prende la punizione è Eboshi - ma, semplicemente, scrolli la testa, si faccia una risata un po' stupita, e se ne torni tranquillamente dal suo padrone.

Conseguentemente, l'intera storia non vive affatto sul conflitto tra buoni e cattivi, non essendoci né gli uni né gli altri. Al contrario, la storia deriva dall'incrocio di innumerevoli fazioni ed interessi. Agiscono, nel film, almeno sette gruppi diversi (Ashitaka e il suo popolo, i Mononoke, i cinghiali, gli shoujou, Eboshi e gli abitanti di Tataraba, Jiko-Bou e i soldati dell'imperatore, i samurai di Lord Asano), senza contare lo Shishigami, che sovrasta l'intera vicenda; tutti e sette, anche se con diversa rilevanza, partecipano allo scontro finale e alla costruzione del nuovo equilibrio. Si tratta di una situazione complessa, almeno quanto lo è la vita reale; nessuna di queste fazioni, difatti, è qualificabile come buona o cattiva, ma ognuna di esse persegue il proprio interesse secondo la propria visione del mondo, o, più semplicemente, ognuna di esse vive.

"Oh cielo, non posso vincere contro gli stupidi."

Effettivamente, Jiko-Bou è, nell'economia del film, quello che alla fine si rivela essere più vicino ad essere un "cattivo" in senso classico, e ad essere "sconfitto". In realtà, il suo ruolo è chiaro: si tratta semplicemente di un cinico, in parte anche vigliacco ("Uccidere gli dei è piuttosto pericoloso. Lasciamo che lo faccia lei."), ma il cui obiettivo non è altro che quello (egoistico) di ottenere la testa dello Shishigami, a costo di sacrificare Eboshi, Tataraba, la foresta, Ashitaka, e qualsiasi altra cosa. In questo senso è fondamentale la battuta finale del film: "Oh cielo, non posso vincere contro gli stupidi". E gli stupidi, alla fine, sono tutti gli altri: da Ashitaka, che cerca la via di mezzo tra le diversità, a Eboshi, che alla fine sembra imparare dai propri errori.

Ma perché, in una battuta così cruciale, si parla di "stupidi"? Naturalmente dovremmo chiederlo a Miyazaki, ma mi sembra che non ci si possa limitare a considerare questa frase come se derivasse dal mero punto di vista del personaggio. Ashitaka è stupido perché cerca di opporsi al progresso, all'inevitabile cambiamento; peggio, cerca di governarlo nella direzione voluta, ossia in una direzione di armonia, senza vincitori né vinti. Dobbiamo dedurre che sono stupidi coloro che non scelgono, che non cercano una parte per cui combattere e da portare alla vittoria? Al contrario, questa battuta finale marca una distinzione netta: in un momento di cambiamento - come quello raffigurato nel film, ma anche come quello di questi anni - la concezione più diffusa, particolarmente in occidente, prevede che si scelga e che ci si schieri, per il progresso rispetto alla conservazione della natura, in primo luogo; la scelta a favore della "scienza" (l'acciaio, i fucili) e del progresso economico e tecnologico pare culturalmente obbligata e indiscutibile, tanto da far considerare "stupido" chiunque non la condivida. Al contrario, come sappiamo da innumerevoli opere precedenti di Miyazaki, proprio questa scelta è posta in discussione dall'autore. Ma se in opere come Conan o Nausicaa la scelta di campo era netta, in questo film, più maturo, la posizione dell'autore è meno marcata: l'obiettivo è descrivere il conflitto, in tutta la sua dolorosa e inevitabile lacerazione, più che prendere una posizione, giacchè tale conflitto, insito nella sostanza del mondo, non sarà mai risolubile. In questo senso, l'appellativo di "stupido" non è un giudizio morale, ma il tentativo di evidenziare una opinione che sembra scontata, e che invece non dovrebbe esserlo.

C'è però un elemento ulteriore: Jiko-Bou non si limita a qualificare come stupidi gli altri personaggi, ma dice esplicitamente: "Non posso vincere contro gli stupidi." Qui il messaggio è chiaro: le idee dominanti funzionano fino a un certo punto, ma alla fine a decidere gli eventi sono sempre gli uomini. Siamo noi a dover decidere se vogliamo uniformarci alla dottrina o essere stupidi, e se saremo tutti stupidi non potremo essere sconfitti (si veda, ad esempio, la ribellione degli uomini di Tataraba contro i samurai che non vogliono lasciarli tornare a difendere il villaggio). I personaggi migliori, in senso etico, del film non sono certo i capi, ma è la gente comune, da Kaya al pigro Kouroku, fino a Toki, che si rivela alla fine essere uno dei personaggi più abili e intelligenti. Miyazaki sembra dirci che, per quanto i capi possano essere corrotti o disumani, c'è sempre la possibilità di ribellarsi, di "essere stupidi", e di imporre le proprie idee. E' insieme un messaggio di speranza e di rivoluzione, ma una rivoluzione un po' folle; non certo una rivoluzione cupa e violenta come quelle che hanno segnato il Novecento, ma piuttosto un'allegra presa di coscienza di come la società moderna tenda a prendersi troppo sul serio, e ad imporre la triste e presuntuosa lotta contro le forze della natura, contro lo stesso inevitabile scorrere degli eventi, come modo di vita alienante, da sbeffeggiare, con una nascosta serietà, a forza di "stupidaggini".

E' comunque curioso notare come la cosiddetta "scienza" si riveli poi venata dalle solite vecchie superstizioni: qualcuno ha capito perché Jiko-Bou tenesse così tanto a quella testa? Per uccidere lo Shishigami, lo spirito della natura, o piuttosto… "Non dirmi che persino tu hai cominciato a credere alla leggenda secondo cui la testa dello Shishigami conferisce l'eterna gioventù." In realtà, Jiko-Bou, emissario dell'Imperatore - il più potente degli uomini - pronto a tutto pur di impadronirsi di quella testa, è mosso dal desiderio del suo padrone di vivere in eterno, un desiderio follemente irrazionale e antiscientifico. Di conseguenza, la sua sconfitta non è affatto il segno assoluto di un giudizio morale, né è foriera di pesanti conseguenze: è soltanto l'impossibilità di giungere, nel nuovo equilibrio assunto dalle cose, allo scopo che ci si era prefissi. Ma è una sconfitta relativa, non assoluta; poiché "si continua a vivere", anche Jiko-Bou e l'Imperatore avranno la possibilità di ottenere in futuro delle vittorie.

Comunque, questo aspetto mette in evidenza come gli uomini non stiano tentando di imporre la razionalità della propria intelligenza sull'imperscrutabilità della natura, giacchè è discutibile che bruciare la foresta per fabbricare acciaio - per non parlare poi della caccia alla testa dello Shishigami - sia un obiettivo "razionale", intendendo questo termine come sinonimo di progresso e di raggiungimento di una armonia e di un mondo perfetto in cui vivere. Non si tratta quindi di un vero scontro tra scienza-ragione e natura-irrazionalità, ma dello scontro tra due nature diverse: quella degli uomini moderni, che sotto il nome della scienza nasconde contraddizioni ed ossessioni immotivabili, e quella, preesistente, degli spiriti della foresta.

Già, ma come si concilia l'invito ad essere stupidi, l'esaltazione della gente comune e della sua possibilità di azione, con la necessità di una evoluzione storica già predestinata? In realtà, si tratta della stessa cosa: la vita, come appare nelle splendide scene di massa del film, si concretizza proprio nelle azioni di tutti i giorni, nell'esistenza delle persone comuni. Gli stupidi, che cercano di opporsi all'inevitabile evoluzione della storia, sono proprio i capi, coloro che pensano di poter influenzare gli eventi tramite il potere, le guerre, la stessa scienza; quando invece la vita, ossia nascere, morire, mangiare, lavorare, l'autunno e la primavera, il sole e la luna, sono troppo più forti di qualsiasi volontà. La gente comune, da che mondo è mondo, lo sa; è proprio l'uomo comune ad essere abituato a prendere le cose come vengono, e sempre, comunque, nonostante le sofferenze, a continuare a vivere. Jiko-Bou, l'emissario dell'Imperatore, non può capire questo; come dice ad Ashitaka con un bel po' di stupore, "Inondazioni, frane di fango, tempeste di fuoco… molta gente deve essere morta. La guerra, la malattia… la gente ingoia una maledizione dopo l'altra lietamente, suggellando il destino con la propria morte. Se parliamo di maledizioni, questo mondo è una maledizione di per se stesso.". Quello che lui non ha capito è che la guerra, la malattia, sono parte della vita proprio come le esperienze positive. Subirle non è una scelta, e non è nel potere dell'uomo evitarle, proprio come l'uomo, per quanti alberi abbatta, non potrà mai impedire alle stagioni di alternarsi. Per questo motivo è importante essere, con il sorriso sulle labbra, stupidi; non pensare di poter modificare ciò che è al di fuori della nostra portata, ma limitarsi agli atti fondamentali dell'esistenza; non pensare di poter risolvere i conflitti e le contraddizioni del mondo, ma coglierne gli aspetti unificanti, rispettando le diversità. Non a caso, alla fine, San e Ashitaka non si sposano, ma restano comunque legati: è la vita, la loro stessa natura, che li unisce e li separa insieme, e sarebbe stupido pensare di poter trovare una soluzione diversa.

La storia della gente comune

Uno degli obiettivi dichiarati del film è proprio l'attenzione posta verso la gente comune. Abbiamo già visto come la gente comune sia il vero fulcro del film; ne costituisce l'elemento positivo, essendo la rappresentazione della vera essenza della vita, ma è anche l'elemento causante del conflitto tra uomo e natura che genera l'intero meccanismo della storia.

Anche dal punto di vista stilistico, le scene di massa sono forse quelle che più colpiscono lo spettatore; d'altra parte, dal punto di vista tecnico è certamente difficile mettere in una sola inquadratura tanti personaggi da animare, possibilmente in modo realistico e senza serializzazioni. Eppure, il risultato è valso lo sforzo. Così come le sequenze "liriche" nella natura - peraltro simili a quelle presenti in tutte le opere precedenti, anche se tecnicamente migliori - narrano la straordinaria bellezza della "vita comune" degli alberi e degli animali, le sequenze di massa assumono anch'esse una propria liricità. Che si tratti della rumorosa ed allegra vita di Tataraba, o delle drammatiche scene delle numerose battaglie, ad uno sguardo attento si può cogliere in esse la realtà della vita, sia essa piacevole o drammatica (del resto, anche alle sequenze della natura in tutto il suo splendore corrispondono quelle finali della natura distrutta e sofferente). Bene e male non sono più contrapposti, ma sono strettamente parte della stessa esistenza.

L'uomo e la natura

Anche in questo film, come praticamente in tutti i precedenti film di Miyazaki, il conflitto tra uomo e natura riveste un ruolo centrale. Eppure, in lavori precedenti questo conflitto era visto secondo una prospettiva piuttosto tradizionale, tipica del Giappone del dopo-bomba: gli uomini sono stati puniti per aver spinto le loro conquiste scientifiche troppo oltre, causando quindi un conflitto nucleare che ha distrutto l'ambiente in cui vivono e quindi la loro intera società. Tra i sopravvissuti, tuttavia, ve ne sono alcuni che non hanno capito la lezione, e che cercano di recuperare la preesistente tecnologia per affermare il proprio potere, rischiando una nuova catastrofe. Lo scontro vede quindi da una parte un personaggio innocente, tipicamente troppo giovane per aver partecipato alla guerra e quindi non marchiato dalla follia precedente, che difende la natura e la gente "comune", e dall'altra il cattivo di turno, spinto da interessi personali per raggiungere i quali non teme di mettere nuovamente in pericolo l'intera umanità o di opprimere la gente comune. Il giudizio è netto, sia da parte del regista, sia da parte dello spettatore, e il messaggio positivo è costituito dalla vittoria finale dei buoni.

Nella Principessa Mononoke la prospettiva è diversa, ed è molto più complessa. Come abbiamo visto, non esiste più un vero cattivo, e non è possibile effettuare così facilmente una scelta di campo. Il conflitto tra uomo e natura, finalmente più libero dalle ossessioni della bomba, non è più un conflitto tra bene e male; è, addirittura, un falso conflitto. E' come il conflitto tra acqua e fuoco: nessuno dei due potrà mai vincere. Coerentemente, la storia non si regge più sul conflitto tra due parti, ciascuna delle quali etichettata come "bene" o "male", ma acquisisce lo spessore della vita reale, in cui niente è bianco, niente è nero, ma c'è un po' di bianco e un po' di nero in ognuno di noi. Se opere più giovanili, come Conan o Nausicaa, hanno colpito e conquistato lo spettatore per via del loro invito alla riscoperta della genuinità dei sentimenti, dell'importanza dell'equilibrio tra uomo e natura, e della necessità di continuare a sperare in un futuro migliore, questo film attrae invece per l'evoluzione di questo pensiero, e per la scoperta, triste ma forse anche rassicurante, che anche gli squilibri, anche le sofferenze, anche le malvagità sono parte della vita, e sono un elemento necessario per poter giungere a nuove gioie; e che, d'altra parte, nessuna malvagità può essere tale da cancellare l'infinita bellezza della vita. Bellezza che, oltretutto, tanto bene è resa da certe lunghe, liriche sequenze di questo film; non solo quelle calme, silenziose, dell'attraversamento della foresta, o della notte stellata, ma anche le straordinarie, rumorose, vivissime sequenze nel villaggio, dedicate all'esistenza quotidiana della gente.

In conclusione, resta una sola domanda da farsi: ma, tra l'uomo e la natura, alla fine chi vince? Oppure ha ragione Ashitaka, e si trova il modo con cui uomo e natura possano coesistere? La risposta, in realtà, è semplice: queste due domande non hanno molto senso. Il nuovo equilibrio raggiunto alla fine del film è l'unico predestinato a verificarsi: quindi nessuno ha vinto e nessuno ha perso, perché non c'era affatto uno scontro che qualcuno potesse vincere e qualcun altro perdere. La vita è andata avanti, ha proseguito la propria lenta evoluzione, ha raggiunto un nuovo stato. In questo nuovo stato la natura è apparentemente diversa; ciò nonostante, la natura continua ad esistere ("Lo Shishigami non morirà mai. Egli è la vita e la morte insieme." - per non parlare del Kodama che riappare proprio nell'ultimo fotogramma del film), la vita continua ad andare avanti, verso equilibri sempre nuovi. Anche l'uomo, ciascun uomo, ha proseguito la propria evoluzione, e si trova in una condizione diversa. La coesistenza tra uomo e natura, che appare impossibile - chiedetelo a Moro, chiedetelo a Eboshi - se ci si ferma alle apparenze, agli alberi abbattuti e agli uomini divorati dai lupi, diventa inevitabile e indistruttibile se li si riduce alla loro essenza fondamentale, se ci si accorge che, dopotutto, possiamo, anzi, dobbiamo continuare ancora a vivere.

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