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Torinolat (part II)
Numero 61 - 12 Gennaio 2004 (Lunedì), 21:21

Vecchio Commonwealth Oggi su fotoblòg

Vecchio Commonwealth

Molto inglese.

Dunque, dicevamo ieri che Torino sarebbe in crisi, persino più di quanto vogliamo ammettere noi stessi; e che molte aziende vanno via da Torino e si spostano non solo nei paesi in via di sviluppo, dove il lavoro costa meno, ma più prosaicamente a Milano o in altre medie città del Nord e Nord-Est.

E' proprio questo secondo fenomeno, secondo me, quello più preoccupante.

Perchè se il problema fosse solo la concorrenza globalizzata, direi (come pure dico) che c'è stato comunque un errore di fondo, quello di pensare che, sì, la produzione sarebbe andata nel terzo mondo, ma la ricerca sarebbe rimasta nel primo. E questo è un errore, perchè, signori, quello era il trend degli anni '70, '80, primi '90; negli anni Duemila, molto terzo mondo non è più tanto terzo, e anche la ricerca o la produzione più avanzata si spostano tranquillamente laggiù. Questo è un problema che dobbiamo affrontare urgentemente, ma non è ancora il principale tra quelli che abbiamo.

Il problema maggiore, in questi anni, è l'emorragia di aziende verso Milano. In parte, è effetto anch'essa della globalizzazione: l'intera Italia sta diventando una colonia economica di grandi gruppi francesi, tedeschi, inglesi e americani, che hanno man mano acquistato le nostre aziende. Chiaramente, chi già è molto lontano con la testa tende a razionalizzare le proprie attività italiane accorpandole nel punto più centrale, cioè Milano.

Si diceva poi, anni fa, che la rete e la competizione "virtuale globale" avrebbe portato alla delocalizzazione del lavoro, per cui avremmo tutti lavorato da casa, non solo da Torino o da Alessandria ma persino in mezzo ai monti di Biella. Sì, chi può, lavorerà da casa, ma il grosso delle persone deve comunque parlarsi e incontrarsi fisicamente; e per questi, in realtà, succede l'opposto.

Proprio perchè la concorrenza è globale e spietata, anche il più piccolo risparmio di costi è vitale, compreso quello che può dare il trovarsi a dieci chilometri di ingorgo dai propri fornitori e clienti, piuttosto che a centocinquanta chilometri di treno ottocentesco.

Questo però ancora non spiega Parma, Bologna e Treviso; non spiega perchè questa crisi là non ce l'abbiano o ce l'abbiano di meno.

Dunque, il "buco" di Torino non è nè culturale (in senso aulico), nè industriale; non è dovuto a disonestà, nè a mancanza di know how tecnico, nè a incompetenza gestionale. Dal mio punto di vista e per la mia esperienza, le carenze di Torino sono tre: mentalità, peso politico, soldi.

Innanzi tutto, a Torino manca quella mentalità che hanno tra il Ticino e l'Isonzo, dove ognuno è imprenditore di se stesso, si sbatte per diventare ricco, e di conseguenza si sbatte per creare ricchezza nella collettività. Qui da noi, l'obiettivo di quasi tutti quelli che conosco (anche e soprattutto giovani!) è quello di arrivare a fine giornata per portare a casa uno stipendio sicuro, in modo da goderselo con la famiglia o nelle nostre fantastiche attività culturali.

Ciò è bellissimo, ma sfortunatamente non tiene conto del fatto che lo stipendio sicuro non esiste più, che quelle aziende che potevano darcelo se ne sono andate, e che l'unico modello che funziona in questi anni è quello della microazienda diffusa, che presenta costi ridotti e velocità aumentate con cui gli aziendosauri tradizionali non possono competere.

Questo, le nostre istituzioni l'hanno capito, tanto è vero che sono fioriti sportelli e incubatori. Purtroppo non l'abbiamo capito noi torinesi, visto che la maggior parte di questi sportelli e incubatori vanno deserti, o al massimo ospitano progetti di profilo troppo basso, che possono creare cinque posti di lavoro, non cinquecento o cinquemila. Se vogliamo che Torino viva, tocca a ognuno di noi di prendersi la responsabilità di creare un pezzettino di nuova ricchezza per sè e per gli altri.

Poi, a Torino manca peso politico; perchè Tronchetti Provera non si sarebbe mai permesso di spostare la sede legale di Telecom, se qualcuno di grosso da Roma avesse alzato il telefono e gli avesse detto "Che cazzo ti pensi di fare?". Invece, probabilmente da Roma gli hanno fatto i complimenti.

Questo è probabilmente una conseguenza della nostra mancanza di soldi, di cui parleremo tra poco; in parte del fatto di essere visti da Roma come una periferica città di cumunisti; ma anche del fatto che dovremmo abbandonare definitivamente il nostro understatement e combattere con le unghie e con i denti. (Quando, dopo uno sgarro del genere, vedremo le dimissioni dell'intero consiglio comunale?)

Infine, i soldi. Questo è il dramma maggiore, anche per il futuro. Perchè, vedete, ora che in seguito alla competizione globale si spostano in India non solo gli operai, ma anche gli ingegneri, c'è una sola cosa che rimarrà ai paesi occidentali: il controllo. La testa e la proprietà dell'azienda.

Il controllo si sposta non per efficienze o calcoli globali, ma per motivi personali (leggi, attaccamento dei proprietari) e politici; è l'unica parte che può resistere alla globalizzazione, perchè è meno legata a calcoli di convenienze economiche. Se i proprietari di Telecom fossero torinesi, vi assicuro che la sede legale non si sarebbe mai spostata, ancora di più che se avesse telefonato Berlusconi in persona; così come Fiat porta in Polonia la produzione, ma non l'amministrazione.

Ma, sfortunatamente, il controllo di una azienda si ottiene con i soldi. E noi non li abbiamo.

Il problema però è che la mancanza di soldi, unita alla mancanza di mentalità (questa volta, purtroppo, anche nelle istituzioni), produce la mancanza della capacità di rischiare soldi, ossia di fare investimenti a rischio alto e ritorno potenziale altrettanto alto.

Non avendo qui una cultura manageriale internazionale (perchè anche l'internazionalizzazione della nostra piccola impresa è storia recente: fino a dieci anni fa lavoravano tutti solo per la Fiat) non abbiamo la capacità diffusa di prendere cinque, dieci, cinquanta miliardi e creare 200 o 1000 posti di lavoro, perchè non siamo abituati a rischiare cifre del genere, o forse perchè non ne abbiamo la possibilità.

E però, per creare aziende degne di nota servono soldi, e non pochi. Di solito si dice che, in un business medio, è necessario investire almeno 50-100.000 euro per ogni posto di lavoro creato. Fate voi il conto di quanti soldi servono, anche azzeccando l'investimento, per crearne anche solo mille.

Poi, se volete, vi dico quello che (pur con grandi complimenti, fiducia e sbattimento da parte di alcune istituzioni) siamo riusciti a raccogliere noi a Torino... diciamo che, forse, con quei soldi di posti di lavoro ne creiamo mezzo.

Si potrebbe continuare, ma non voglio deprimervi oltre. Soltanto, vorrei concludere dicendo che sarebbe ora di affrontare questi problemi con coraggio, ed evitando di nascondersi sempre dietro le Olimpiadi. Perchè esse, da sole, non basteranno a dare un futuro alla città.


--vb.

<< Torinolat (part I)Benvenuti a fotoblòg >>

<Commenti>

Attenzione: quanto segue potrebbe non essere vero.
massimo infunti
14 Gennaio
16:49
Vittorio hai ragione.

Questo tema della Torino impoverita dalla grandi aziende italiane che spariscono mi accalora da anni... (da quando hanno spostato ciaoweb a milano).

Forse ci vorrebbe una legislazione internazionale che metta regole precise sulla possibilità di sfruttare i popoli deboli (se non posso sfruttare i coreani, magari non sposto là la produzione)

Stesso discorso per il capitale naturale. Se far viaggiare i computer dalla cina all'europa costasse davvero il costo che il trasporto causa al mondo forse sarebbe più conveniente produrre in europa.

Consiglio questo libro a chi non l'avesse letto, ci sono spunti interessanti:

Capitalismo naturale. La prossima rivoluzione industriale
http://www.ita-bol.com/bol/main.jsp?action=bo lscheda&ean=978888641280
 
jovi berton
14 Gennaio
22:06
hmm.. così su 2 piedi.. direi che son daccordo.. ma anche no.cioè..boh...ne parlavo un po' d tempo fa anche con il buon direttore d torino internazionale.. cmq il succo è che ok alla crisi fiat o quella che vuoi.. a torino c son state ben peggior crisi.. basti pensare anche solo al cambiamento che ha comportato la 'detronizzazione' da capitale d italia quando il re (e più che altro tutto il seguito e le realtà economiche che giravano attorno alla casa reale) si è spostato. ma a parte questo... a torino, città che amo ogni giorno d più, nascono nel silenzio innovazioni e novità come da poche altre parti. come dici tu "il "buco" di Torino non è nè culturale (in senso aulico), nè industriale; non è dovuto a disonestà, nè a mancanza di know how tecnico, nè a incompetenza gestionale" .. e questo già è molto. manca il pizzico d bastardaggine imprenditoriale? forse c'hai preso.. d certo se basta un baùscia milaneis.. mah.. vero anche che le istituzioni sono un po' lente... ma sembra che proprio le colpe abbiano tutte loro allora... allora. boh.. m sa che m tocca rimboccarmi le maniche e spremere le meningi.. torino capitale e roma succursale... e milano io la schifo.. ma è n altro discorso...
 
Bertu
14 Gennaio
23:14
Vittorio ha ragione. Jovi hai ragione nel dire che la perdita della capitale fu un trauma anche peggiore, ma almeno ai Savoia lascio' un certo senso di colpa, che i bava non hanno.

Sicuramente trattasi di citta' di "comunisti" nella percezione governativa, ma allora dopo le prossime elezioni se vince la sinistra si deve rendere a Milano pan per focaccia.

Io resto dell'idea che Torino debba capire una cosa: per l'Italia sara' sempre e comunque periferia, quale che sia il governo. Se vuole ricavarsi un suo spazio quello spazio non puo' ricavarselo se non guardando ai confini e pensando in dimensioni non nazionali.

Sulla mentalita' diffusa tutto vero. Rischiare non fa parte del DNA torinese. Almeno non in genere. Ma insomma, alla fine piu' che il dolor fara' il digiuno, mi pare...

Lo sfruttamento dei paesi terzi non e' interrompibile, inutile contarci. Cosi' come non e' solo la ricerca che se ne andra'. Sono tanti i capitali russi che stanno comprando aziende europee (mica solo le squadre di calcio). Di questo passo se ne andra' anche l'amministrazione. Di nuovo, tutto quello che non uccide rende piu' forti. Si tratta di fare dei propri difetti una forza.
 
vb
15 Gennaio
12:10
Anche perchè il fatto che sia "sfruttamento" è tutto da dimostrare: chiedetelo non solo ai cinesi, ma anche ai malesi o ai vietnamiti, se stavano meglio vent'anni fa o adesso. Si potrebbe persino sostenere che sia un dovuto riequilibrio (con gli ovvi, enormi squilibri interni) tra il livello medio di ricchezza dei paesi sviluppati e quello dei paesi in via di sviluppo; solo che, ovviamente, a perderci sono i meno ricchi dei paesi sviluppati.
 
joviberton
15 Gennaio
12:22
amne
 
joviberton
15 Gennaio
12:22
..volevo scrivere .AMEN ...
cannai
 
Frank
16 Gennaio
14:49
>solo che, ovviamente, a perderci sono i >meno ricchi dei paesi sviluppati.

Perche' ovviamente? Parrebbe ovvio che dovrebbero essere i + ricchi a ridistribuire un po' delle loro ricchezza. Ma non siamo nelle favole.
L'Argentina e' piu' vicina della Cina?
 
AleRoots
17 Gennaio
21:15
Leggo interessato l'interessante post, ma mi colpisce nei commenti questo astio anti-milanese... Voglio dire, credo che se evitiamo di farci la guerra a vicenda la situazione può migliorare per tutti, tanto più che con l'imminente (stavolta sembra facciano davvero sul serio) alta velocità, le due città saranno davvero vicine.
 
name gianca
18 Gennaio
0:07
Sic! - per rilassarci parlaci poi di Norberto Bobbio, a campane ferme: è un "pesante conterraneo". grazie
 
sciasbat
18 Gennaio
12:43
Non è astio antimilanese, è semplicemente un modo differente ed incompatibile di concepire la vita. Slowfood, ad esempio, non sarebbe mai potuto nascere a Milano. Per questo credo che in fondo Torino non sia così in crisi...
 
Bertu
25 Gennaio
15:50
Non e' astio, ma normale e giustificata diffidenza verso un vicino rapace. Di guerra non ha senso parlare, ma la pace sarebbe forse meglio farla armata, visti i precedenti.
 


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