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	Numero 109 - 27 Novembre 2005 (Domenica), 23:49 
 
 
 
Gli esseri umani, ovunque si trovino e qualsiasi cosa facciano, sono per definizione provvisori: ombre che occupano un punto dello spaziotempo per un solo fotogramma, e subito si spostano altrove senza lasciare traccia.
 Questo concetto è portato all'estremo in un volo intercontinentale come quello su cui mi trovo ora, in vista dell'atterraggio a Vancouver.
 
 Per cominciare, gli aeroporti sono entità aliene e impersonali, costruiti uguali in tutto il mondo; tutti secondo gli stessi schemi, e tutti descritti e operati in inglese, anche nel paese più culturalmente isolato. Sono tutti grigi d'alluminio e di vetro trasparente, ovattati, puliti; e danno la sensazione di un non luogo inesistente, algoritmico quanto figlio di esaltazioni futuristiche già passate di moda.
 
 E poi, si decolla. I grandi aerei sono costruiti per diventare una casa provvisoria, in cui ogni formica ha una bolla invisibile, sessanta centimetri di gomito-gomito verso un vicino senza volto e senza nome, fastidiosamente adiacente eppure moralmente, dignitosamente separato da un muro invisibile. Dentro quel gomito-gomito ci si costruisce una abitazione, ci si organizza premurosamente la posizione della coperta, del libro, delle cuffie, si apre e si chiude il tavolino, ci si riconfigura le ossa per provare invano a dormire; diventa casa, una casa vera; ma provvisoria, perchè al termine del volo sparisce d'improvviso, e viene abbandonata precipitosamente, lasciando sul pavimento una storia già antica di cartacce e coperte spiegazzate.
 
 Le otto o dieci o tredici ore di volo diventano così un'esperienza astratta, un'isola di essenza in mezzo al nulla, circondata dal vuoto spinto a diecimila metri d'altezza. La carlinga è come uno di quei tunnel che, nei film di bassa fantascienza degli anni Cinquanta e seguenti, assorbivano come in una caduta a spirale la navicella sperduta, con i suoi viaggiatori impotenti, fino in fondo al loro destino.
 
 Il volo intercontinentale, si sa, fa impazzire i pazzi, deprimere i depressi, infuriare i furiosi; è una gabbia fisica che sottende una gabbia mentale, l'avere consciamente ceduto la propria libertà in cambio di un lungo teletrasporto non istantaneo, da A a B per dieci ore di nulla.
 
 Di solito, io cerco di mettermi in stand-by, come un qualsiasi elettrodomestico di casa. Non cerco alcuna attività; mi limito a passività come dormire, ascoltare musica o guardare i film. E' la via meno rischiosa, perchè l'attività, in dieci ore da trascorrere soli con se stessi legati a una sedia, potrebbe solo frustrarmi come un animale atterrito. E così, in un luogo dove mi spoglio di tutto e sono l'ultima cosa che mi rimane, esiste soltanto il mio mondo interiore; quello in cui è meglio che non mi addentri, che non mi spinga troppo lontano a cercare la verità.
 
 Al massimo, per risvegliarmi dal torpore può succedere che, al secondo pasto precotto, l'ostessa mi rovesci addosso mezzo bicchiere di vin rosso, sadica e piena di scuse a posteriori come un carceriere di Abu Ghraib; non sarà stato il Grande Disastro del Carrello da Tè, ma ci è andato vicino.
 
 E poi, alla fine, arriva l'atterraggio.
 
 
 P.S. Vancouver è veramente un bel posto.
 --vb. 
 <Commenti> 
 
| Attenzione: quanto segue potrebbe non essere vero. |  | Bruno 28 Novembre
 9:02
 
 | "Il Grande Disastro del Carrello da Tè"!! Il più grande avvenimento aziendale dopo la "grande truffa dei buoni mensa"!!!
 
 |  | vb 30 Novembre
 7:29
 
 | E' che non avevo idea di quanti potessero cogliere la citazione da Bristow. 
 |  
 
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