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Numero 66 - 17 Febbraio 2004 (Martedì), 21:32
No, non parlerò anch'io della tragica fine di Marco Pantani, perchè ne hanno parlato già tutti; e del resto bastava prendersi un qualsiasi articolo di ciclismo su un qualsiasi quotidiano degli ultimi tre o quattro anni per leggere dubbi, sofferenze e racconti a mezza voce della sua depressione e delle sue dipendenze.
Quello che invece mi ha colpito di questi ultimi giorni è un insieme di fatti apparentemente scorrelati, che però per me sono un indizio di una caratteristica crescente della nostra società, e specialmente della sua parte più giovane: la fragilità.
Il caso di Pantani, difatti, è un po' il prototipo di tanti altri casi simili successi in passato; di tanti campioni dello sport o dello spettacolo che, lontano dai riflettori, non trovano il modo di convivere con i normali alti e bassi della fama, e con le (purtroppo) normali ingiustizie della vita. In questi casi, la fragilità della persona deve confrontarsi con l'anormale pressione dei media, e l'ostacolo è sicuramente duro.
Il problema è quando bastano ostacoli molto meno duri di questi per scatenare tragedie altrettanto gravi, anche se magari meno propagate dai media.
Un caso classico - è successo due volte in due giorni, ieri a Napoli e l'altro ieri a Como - è quello della fragilità da gelosia, o da insicurezza in amore; quello per cui basta uno sguardo di un altro alla fidanzata per scatenare la necessità di una reazione tanto eccessiva e violenta da essere prova di insicurezza travestita da bullaggine, fino ad uccidere l'altro. Ma lì, a dire il vero, c'entra molto anche l'ambiente da cui si proviene, visto che io non conosco nessuno che giri con un coltello in tasca e lo tiri fuori dopo cinque secondi di discussione.
Ma il caso più tragico è quello del ragazzo di Ovada morto sull'autostrada di Voltri, dopo essere uscito senza un graffio da un incidente in cui però aveva distrutto la macchina del padre, dopo aver già distrutto la propria in un altro incidente pochi giorni prima. Al TGR Gianfranco Bianco, con la usuale cortesia dei piemontesi, ha parlato di "caduta" dal viadotto, mentre gli altri telegiornali hanno parlato apertamente di suicidio.
Fin qui, mi direte, si tratta però di casi isolati, di singole persone che magari potevano avere un carattere particolare e una predisposizione a determinati atteggiamenti.
Quel che invece pare a me è che ormai l'incapacità di affrontare gli ostacoli della vita sia diventata una sindrome nazionale, e che in più noi, da buoni italiani, cerchiamo di affrontarla nel modo peggiore: cercando di barare. Di fronte a una società sempre più competitiva, meritocratica e selettiva (e questo, almeno nella sfera lavorativa, per alcuni fenomeni globali di cui abbiamo parlato) i nostri coetanei non cercano di migliorarsi, ma di apparire migliori; oppure, di abbassare l'asticella, o perlomeno di rimandare il problema il più possibile.
Questo io lo vedo nei curriculum che ci arrivano in azienda, e di cui spesso è impossibile non sorridere. I nostri cassetti sono pieni delle vite di neolaureati trentenni che promettono di cambiare il futuro della nostra azienda, di essere dinamici e intraprendenti, di portare competenze ed esperienze da guru dell'informatica o da megamanager; e poi, a un colloquio, scopri che non sanno accendere un PC, che l'italiano è un optional, che il massimo lavoro che hanno fatto è il barista o l'animatore di villaggio vacanze, e che la loro principale esperienza è data da trent'anni di vita alle spalle dei genitori.
Il problema principale, si badi, non è laurearsi a trent'anni o mancare di esperienza, e nemmeno quello di presentarsi nel modo migliore possibile cercando di abbellire un po' il proprio curriculum.
Il problema è invece il cercare a tutti i costi di presentarsi come un genio quando non lo si è; il mancare totalmente di coscienza dei propri limiti; o peggio, grazie alle dosi massicce di pubblicità e di televisione, il pensare che sia sufficiente sorridere, raccontare palle e chiedere un po' di comprensione per superarli come per magia, e per cancellarli per sempre.
Altrettanto preoccupante è che questa tendenza sia presente sempre di più non solo nelle fasce meno acculturate della nostra gioventù, ma proprio in quel mondo universitario che, in teoria, dovrebbe formare la classe dirigente del futuro.
Negli scorsi mesi, ad esempio, mi sono trovato ripetutamente di fronte a casi di studenti stagisti o aspiranti tali che si aspettano che uno stage consista in un professionista che ti spiega tutto, fa il lavoro per te, e ti manda anche una tesina da copiare per farti prendere 30. Quando gli fai notare che non tutto è dovuto, che una azienda non è una mamma, e che potrebbero anche rimboccarsi le maniche da soli, la reazione è spesso di sorpresa e di indignazione, seguita poi da proteste e da accuse. Quasi mai segue un esame di coscienza e la voglia di capire che, forse, si ha ancora qualcosa da imparare.
Per carità, non tutti sono così; ma non pochi lo sono. Spesso sono anche quelli che, da laureati, non trovando un buon lavoro cominciano a lamentarsi di presunti complotti e della malafede di chi non li assume, o ad inveire contro lo Stato che dovrebbe garantirgli quel posto sicuro e ben pagato che dovrebbe essere loro, presumibilmente, per diritto naturale.
Insomma, sono rimasto abbastanza sconvolto quando l'altro giorno ho visto sulla Stampa un intero paginone dedicato alla protesta degli studenti del Politecnico, che si lamentavano dell'"impossibile" esame di inglese richiesto dalla Facoltà per laurearsi: addirittura il PET con votazione "pass with merit" (per i non pratici, è il livello che un madrelingua medio acquisisce più o meno a dodici anni).
Invettive piene di rabbia contro l'inutile severità della facoltà; accuse del tipo "noi dobbiamo dare questo esame e mio cugino che fa un'altra facoltà no"; drammoni familiari tipo "per quell'esame non posso laurearmi e i miei genitori si tolgono il pane di bocca per mantenermi agli studi"; insomma, si riportava qualsiasi possibile scusa per evitare quella che è una constatazione evidente a chiunque frequenti il mondo del lavoro, ossia che ormai quasi dappertutto si ha a che fare tutti i giorni con colleghi di altre nazioni, e che chi non sa comunicare efficacemente in inglese (efficacemente, non semplicemente togliendo la vocale finale alle parole italiane) non viene neanche più penalizzato; semplicemente, non viene nemmeno assunto.
Una persona normale dovrebbe pensare: se non so l'inglese, e se il livello richiesto è questo, vuol dire che devo mettermi di buona voglia e studiare per bene. In Italia, invece, scatta la corsa al piagnisteo e all'autoassoluzione collettiva; se non si è abbastanza capaci e si ha paura di non diventarlo mai, basta fare i bulli e ottenere l'eliminazione dell'esame.
Peccato che tutti questi laureati, ottenuta con la protesta di piazza una laurea senza inglese, andranno poi a scontrarsi con il resto del mondo, che l'inglese lo sa. E a quel punto non ci saranno più sconti per nessuno... nemmeno per l'Italia.
--vb.
<Commenti>
Attenzione: quanto segue potrebbe non essere vero. |
sciasbat
17 Febbraio 22:04
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E' ufficiale, vb sta sul Pero
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Simone Caldana
17 Febbraio 22:50
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Io l'ho sempre detto.
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Bruno
18 Febbraio 9:27
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Beh, nella definizione di stagista rientra il fatto che non sappia nulla se non quello che c'è sui libri e che sia lì per imparare, anche come si lavora, quindi non c'è nulla di strano in certe ingenuità .
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.mau.
18 Febbraio 9:35
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Allora il PET è equivalente al mio Zertificat Deutsch als FremdSprache? E uno vuole laurerarsi in ingegneria senza quel livello di inglese? bah. Avevo letto il paginone e pensavo fossimo caduti in basso, ma non *così* in basso.
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Frank
18 Febbraio 10:07
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PET: dicesi pet il rumore, spesso accompagnato da fetore, che l'uomo medio emette ogni mattina appena alzato.
Tutto sommato un esame facile, una scorreggia e via.
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sciasbat
18 Febbraio 12:33
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Mah, secondo me il PET è ad un livello inferiore del dodicenne madrelingua (ovviamente potrei avere un'opinione ottimistica dei dodicenni inglesi). Cmq vista dall'interno confermo che è una piagnonata senza senso, che stanno facendo pure alcuni candidati PhD...
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Fabnzio
18 Febbraio 21:24
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mau ci si puo' laureare senza (mi pare!) sfruttando l'incomplete, per cui se ti mancano meno di N crediti ti laurei lo stesso, con una batosta sul voto di laurea.
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D7
19 Febbraio 0:29
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Conosco un laureato ultratrentenne che millanta chissa' quale sapere ma non sa spedire neanche un'e-mail e lavora in un'impresa ICT. Fa il 'commerciale', ovviamente!!! Chi sa vendere l'aria fritta meglio di lui?
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name
19 Febbraio 15:29
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Credo che tu abbia fatto centro. Se tu vai in una qualunque scuola elementare scoprirai che le insufficienze sono diventate sufficienze perchè non si può bocciare un bambino. E io mi domando questi bambini per esempio che psicologi saranno, fra trent'anni. :-)
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Simone Caldana
21 Febbraio 20:19
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Non avessi il server giù bloggherei a casa mia, ma non potevo esimermi dal mandare un salutino dalla Tour Eiffel. Ah, niente vertigini, la prossima volta salici.
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Simone Caldana
21 Febbraio 20:21
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ps: in questo chiosco usano mozilla su linux.
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Captain Nemo
28 Febbraio 15:38
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Lavoro da diversi anni in trasferta estera. Parlo l'inglese così così, lo capisco pressapoco (lo stesso dicasi per il francese). Eppure lavoro senza grandi problemi. Attualmente sto lavorando in nordafrica con dei giapponesi: parlano uno dei peggiori inglesi io abbia mai sentito. Non se ne salva uno. I miei colleghi italiani parlano un inglese improbabile eppure si fanno capire.
Non capisco perché al Poli si siano così irrigiditi su una materia non indispensabile (a meno che le prossime tesi non si discuteranno in inglese).
Dovrebbe essere lasciato allo studente il diritto di rinunciare alla conoscenza di una lingua straniera.
Se poi ai colloqui di lavoro fa delle figure barbine, peggio per lui (nel mio caso compenso il mio pessimo inglese con la disponibilità a trasferte e la conoscenza di alcune tecnologie chiave).
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vb
29 Febbraio 16:19
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Con questo ragionamento, lo studente dovrebbe avere anche il "diritto" di rinunciare a dare Analisi o Geometria, visto che immagino che anche quelle siano "non indispensabili". Forse ogni studente dovrebbe avere il "diritto" di laurearsi senza neanche dare un esame... tanto se poi ai colloqui non lo prendono, peggio per lui.
Peccato che, appunto, lo studente italiano medio punti sempre all'arrangiarsi, al minimo sforzo e al "poi si vedrà "...
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Captain Nemo
3 Marzo 16:31
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Ovviamente non penso che il piano di studi debba essere "personalizzabile a piacere".
Però che il voto finale debba dipendere più da certi esami o da certi "master" che dalle reali capacità dello studente, questo mi sembra assurdo. Anche io ho conosciuto persone che si spacciavano per onniscenti, e non sapevano distinguere un cacciavite da una motosega (uno mi disse tempo fa: "Io sono un fisico teorico, mica uno speriementale!").
Le lingue straniere fanno parte della parte che si impara più sul campo che in un esame.
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Frank
4 Marzo 11:27
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Lo studente si lamenta sempre che la scuola non lo prepara. Il Poli, nel bene o nel male, chiede che lo studente conosca l'inglese ad un livello MINIMO, e non piu' attraverso una prova interna, ma con un esame riconosciuto a livello internazionale. Visto che questo pazzo mondo si sta linguisticamente "inglesizzando", forse le richieste del Poli non sono poi cosi' campate per aria.
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