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martedì 2 Gennaio 2024, 09:48

Il ragazzo e l’airone

Essendo notoriamente un cultore di Miyazaki, sono andato subito a vedere Il ragazzo e l’airone. Per quel che valgono, vi lascio le mie prime impressioni, incoraggiandovi comunque ad andarlo a vedere.

***ATTENZIONE CONTIENE SPOILER***

Cominciamo da questo: alla fine della prima metà, quando appare l’isola dei morti, ero entusiasta. Ho pensato: caspita, mi aspettavo un film di maniera e invece il maestro è riuscito ad andare ancora oltre, sia come estetica che come racconto. Il concetto è interessante, con richiami occidentali espliciti (ok Alice, ma qualcuno vuole sette nane?). Il disegno è ovviamente nel suo stile, ma già dopo trenta secondi vedi la corsa nell’incendio e capisci che ha trovato ancora qualcosa di nuovo e bellissimo.

La costruzione del protagonista e della storia prende il suo tempo; certo non è un film a ritmo di TikTok. Però, funziona: l’ambientazione rurale è magica e il dolore di Mahito è sincero. Soprattutto, il rapporto con la natura non è scontato: sono sicuro che siamo tutti entrati in sala aspettandoci scene d’amore interspecie tra il ragazzo e l’airone, tipo “salta, Willy, salta!”, e invece… no. È come se il maestro si fosse rotto di sentirsi dire che è un gran pittore delle meraviglie della natura e avesse voluto sovvertire il suo stesso trope.

E però, la seconda parte secondo me è un pasticcio, di sceneggiatura soprattutto. Già subito, lui ritrova quella che è evidentemente la madre e nessuno sembra farne cenno o anche solo intuirlo, salvo che poi alla fine lei dice “Luke, cioè, Mahito, sono tua madre”; e a un certo punto invece lui comincia a chiamare mamma la zia, d’amblé, e si dice che così lui potrà tornare nel mondo come figlio della zia, però alla fine boh, non succede. E poi, i pellicani: ma che senso hanno? Appaiono dal nulla, c’è una scena drammatica improvvisa che ci dice che non sono cattivi come sembrano, poi spariscono di nuovo per quasi un’ora, poi riappaiono nell’ultima scena. Eh?

E poi, improvvisamente appare la popolazione dei pappagallini carnivori, certamente carinissima e funzionale alle classiche scene di massa miyazakiane, ma anche lì, non particolarmente motivata. Andrebbe tutto bene se non fosse che a cinque minuti dalla fine, dal nulla, senza preavviso, si scopre che i pappagalli hanno un re cattivissimo che viene letteralmente imbucato nella scena finale, ma tipo seguendo i protagonisti alle spalle a un metro di distanza per mezz’ora senza che loro mai se ne accorgano, solo per provocare la catarsi finale con la distruzione di tutto e l’apparizione di un gigantesco cervo ah no scusa quello è Mononoke. Insomma, un classico deus ex machina che però, ecco, nelle sceneggiature moderne non si fa così, insomma.

Infine: sappiamo che non sempre nei film di Miyazaki l’importante è la premessa drammaturgica, o “il messaggio” che dir si voglia. Però, ecco, se qualcuno ha capito cosa ci vuol dire il maestro, me lo può spiegare? Alla fine, con la scusa del cattivo, salta fuori qualcosa tipo “siamo noi che con i nostri comportamenti decidiamo se il mondo è bello o brutto”, ma mi sembra banalotto. Mereghetti sostiene che sia un messaggio su come l’equilibrio della natura è entrato in crisi partorendo mostri che ci aggrediscono, e potrebbe anche essere, se non fosse che i mostri sono nel mondo interiore e non in quello esterno; comunque, pure questa non è proprio una breaking news.

Morale: resta lo stesso un bel film, sia da guardare che da seguire; è possibile che a una seconda visione mi entri più nel profondo; però, credo che resterò più affezionato a Mononoke, a Cagliostro, a Si alza il vento, insomma ad altre pietre miliari della carriera di quello che resta il più grande regista giapponese di animazione della storia.

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giovedì 28 Dicembre 2023, 10:21

Tutto il cielo è paese

Il Messico è un paese meraviglioso, davvero, e se non ci siete mai stati vi consiglio di andarci, e non solo sulle spiagge. Per noi latini d’Europa, per certi versi è familiare, anche se per altri è completamente alieno.

Una delle cose a noi familiari è l’invadenza della politica nell’economia, e in particolare nel trasporto aereo. Questa storia comincia dunque già negli anni 2000, quando l’aeroporto di Città del Messico, situato in mezzo alla città, comincia a essere insufficiente; si decide dunque di costruirne uno nuovo. Il Messico è uno stato presidenziale, e ogni nuovo presidente ha il suo progetto, portando a una pletora di piani alternativi. Quando infine viene eletto l’attuale, Lopez Obrador, lui organizza un referendum per abbandonare a metà la costruzione del nuovo aeroporto del presidente precedente e iniziare di nuovo in un posto diverso, con un progetto ancora più pantagruelico.

Il nuovo aeroporto, noto in breve come AIFA, viene costruito in fretta con l’aiuto dell’esercito, spianando ritrovamenti archeologici e i resti di almeno duecento mammut. Inaugurato l’anno scorso, ha un piccolo problema: è una cattedrale nel deserto, lontanissima dalla città e mal collegata, per cui le linee aeree non ci vogliono andare.

Cosa fa allora il presidente? Semplice: sempre con l’aiuto dell’esercito, mette in piedi una nuova linea aerea, 100% pubblica, che faccia base all’aeroporto e lo riempia di rotte. La chiama Mexicana, riprendendo il logo di una precedente storica compagnia fallita una decina di anni fa.

Qualche giorno fa, dopo vari rinvii, Mexicana è finalmente pronta per il suo primo volo ufficiale, da AIFA fino al nuovo aeroporto di Tulum, anch’esso costruito dall’esercito e appena inaugurato per servire la città turistica a un’ora a sud di Cancun, anche se l’aeroporto di Cancun era ampiamente sufficiente.

Così, molti in Messico seguono col fiato sospeso il volo, che parte, attraversa il paese, si mette sul percorso di discesa e… devia all’aeroporto di Merida, ufficialmente per problemi di maltempo, ma pare perché qualcosa non ha funzionato.

E insomma, la storia finisce qui, con l’aereo che poi riesce a ripartire e ad atterrare a Tulum, ma viene fotografato con un’inquietante bacinella sotto un’ala, posizionata sopra una macchia d’olio che si è formata sulla pista dopo che l’aereo è stato parcheggiato.

Però, noi possiamo divertirci con questa storia perché sappiamo come funziona, perché è la stessa storia di tante nostre infrastrutture da Malpensa a Alitalia, perché anche noi viviamo in un paese dove la politica fa disastri con i nostri soldi, fino a quando non arriveranno nuove elezioni e nuovi governanti, che faranno disastri simili, ma diversi.

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venerdì 6 Ottobre 2023, 23:30

La notte ha due facce

Non vorrei mettermi a scrivere davvero, perché queste giornate sono splendide ma massacranti, con un ritmo adeguato alla società giapponese. Oggi, per dire, ho guidato per quasi sei ore, tre al mattino e tre alla sera.

La prima metà era poco prevista e un po’ improvvisata: invece di prendere la statale comunque tortuosa che porta da Iya alla valle e poi all’autostrada per Kochi, ho preso la strada del passo Kyobashira, una specie di mulattiera che ogni tanto, incredibile per qui, aveva persino dei tratti con le buche.

In pratica, abbiamo percorso trentacinque chilometri in un mondo magico, fatto soltanto di boschi e di montagne – e di cantieri, perché comunque qui anche sulle strade più sperdute rifanno continuamente ponti e carreggiate – però a 20-25 orari massimo, perché la strada è a una sola corsia, con qualche raro punto di incrocio, ed è larga poco più di una macchina, ed è senza guard rail, perché questa è una società selettiva e se sbagli muori e va bene così.

Sulla discesa poi abbiamo incrociato i primi borghi agricoli di mezza montagna, e siamo rimasti fermi in attesa di un cantiere, e poi in coda dietro camion e camioncini vari, e anche se loro accostano appena possibile quando vedono dietro un veicolo più veloce, ci abbiamo messo tutta la mattina per arrivare a Kochi; e ci siamo fermati solo a metà foresta, per ripiantare il fiore che ci ha regalato il padrone di casa e non lasciarlo morire così, e al passo, 1100 metri di altezza, per fotografare la fila infinita di montagne rotonde che si perdono nella nebbia, e il cartello “attenti agli orsi”.

Dalle cinque alle otto, dopo le visite in città, altre tre ore o quasi: da Kochi a Matsuyama non per l’autostrada, perché in autostrada stanco così mi addormento e mi ammazzo, ma per la ben più breve ma più tortuosa statale 33. La prima ora è stata terribile, avremo fatto sì e no trenta chilometri in mezzo al traffico della periferia: perché qui ogni angolo piano è coperto di case, e fuori dalle autostrade si viaggia tutti a velocità inconcepibilmente lente (pure in autostrada, eh: il limite spesso è di 80, ma nei tratti più pericolosi diventa 50) anche se poi tutti sforano abbastanza, e vorrei vedere. Però, fin che sei in zona abitata sei incolonnato nel traffico, dietro a dozzine di kei car dalla targa gialla con il motore di un Ape Piaggio e il nonnino alla guida, e le strade sono tutte irreggimentate, con corsie separate per qualunque cosa, semafori infiniti per dare tempo a tutti, e ovviamente nessun parcheggio, che qui in strada non si può parcheggiare.

A un certo punto, però, di botto finiscono le case e si entra tra i monti e si passa dal giorno alla notte (anche perché è tramontato). Improvvisamente non c’è più nessuno, e si corre a velocità folli, 60, 70, talvolta (nelle gallerie della statale) anche 80, pazzesco. Nel buio si intravvede una diga e poi un immenso lago artificiale, e si segue la valle fino a scollinare, attraversando paesini sempre più spopolati, al punto che puoi fare una sosta pipì davanti a un gruppetto di case, tanto sono tutte abbandonate con l’erba sopra le finestre. Si corre e infine si sbuca verso la piana di Matsuyama, dall’altro lato dell’isola, dalla costa oceanica a quella interna, e dall’alto dei tornanti si vedono le luci della pianura di nuovo piena di case fino all’orlo, e infine si arriva in una città piuttosto grande, con un affollato quartiere di night club e tutte le scene tipiche, tipo il quarantenne impiegato in vestito nero e camicia bianca in giro con la ventenne scosciata coi tacchi alti, combinati chissà come e a che prezzo.

Tutto questo è per dire che il Giappone è una moneta con due facce, e gli occidentali in genere ne conoscono soltanto una: quella superiore, quella delle città luminose e tecnologiche, delle strade impossibilmente affollate, dei microappartamenti pigiati. Dall’altro lato, però, c’è il resto: come e più dell’Italia fatto di mari e di monti, di zone abitate da pochi umani, molti animali e moltissimi misteri, perché rimaste arcaiche e ben più selvagge delle nostre. In mezzo, c’è un buco rotondo che le collega e le risucchia, e fa passare l’aria e gli spiriti dall’una all’altra.

Ed è così che immerso nel bagno bollente delle dieci e mezza, al tredicesimo piano del mio albergo, la testa all’aria aperta e il corpo sotto l’acqua, fissavo il pezzo di cielo che dava su di me e pensavo che ci sarebbe ancora molto da dire, ma ora ho veramente sonno; buona notte.

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martedì 12 Settembre 2023, 21:10

Nel vento del tempo

Tornare bambini ci rende felici, dice oggi lo spot del Mulino Bianco. Ma è falso; e lo dimostra il fatto che oggi è il mio compleanno, e il compleanno è la festa dei bambini per eccellenza, e io non sono particolarmente felice. Sarà che mi ricordo le tristezze dell’infanzia e dell’adolescenza, o che anticipo quelle della vecchiaia; ma tutte le storie che scrivo, che come noto non leggerete mai, contengono sempre, e senza particolare pianificazione, un compleanno triste, talora straziante.

In fondo, il compleanno è uno specchio forzato dal tempo; e ogni tanto, mentre viaggio, io cerco di catturare il mio riflesso (qui a Londra, lo scorso novembre). Non riesco però bene a metterlo a fuoco; so solo che c’è qualcosa di destrutturato e fatto a pezzi, un po’ come l’Internet del mio saggio. È un periodo di scioglitudine, di spezzatino del sé e di accesso a parti interiori che sarebbe stato meglio lasciar macerare nel buio. È un’esperienza di vita; ma una poco piacevole.

In tutto questo, però, vi ringrazio di cuore per gli auguri. Spero prima o poi di potervi donare qualcosa in cambio, qualcosa che sia bello e luminoso; non so però se ne sarò mai capace. Se ognuno di noi ha un talento, il mio ancora non mi è chiaro; lo cerco e non lo trovo. Dev’essere il talento nel bucarsi i vestiti e le gomme da solo, nel restare a terra persino volando e nel volare ovunque senza mai andare da nessuna parte. Dev’essere il talento nell’entrare nei tunnel senza più uscirne, e nello strappare di notte le tele che i ragni delle mani tessono di giorno; dev’essere la lama di non poter essere, estratta da un fodero laccato e piantata dietro un orecchio come un gioiello tagliente. Dev’essere un autunno incombente e perenne, pieno di aceri rossi e morenti che chiedono perché; una cascata che sommerge e costringe all’apnea persino nell’aria pulita. Tutto questo è una descrizione accurata, eppure fantastica; e non c’è nulla di più reale per noi di ciò che immaginiamo, tra i nervi e i segnali di un misterioso calcolatore di carne.

Quindi, grazie, e forse ci sarà un anno prossimo, speriamo; con occhi sempre più miopi e vecchi, ci rivedremo di nuovo nel vento del tempo.

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mercoledì 6 Settembre 2023, 17:01

Una serata altrove

Insomma, finisco di lavorare e sono le sette e mezza di sera, che è come dire le nove, e qui l’ora di cena è agli sgoccioli; e non ho tanta fame ma qualcosa mangerei, certo però non il cibo dell’albergo. Così, dopo rapida ricognizione, esco a valutare un paio di posti qui in giro, nel villaggetto di case basse che sta dall’altra parte dello stradone, quella verso l’interno, quella opposta a questa fila infinita di albergoni da spiaggia di tutte le catene del mondo, nessuna esclusa.

Attraverso la strada – è la parte più pericolosa – e seguo il marciapiede, e poi mi infilo in un vicolo sul retro e finisco nell’altra via, una ex stradina di campagna circondata da case basse in cui la gente sopra abita e sotto fa cose, anche se la popolazione principale è dei motorini. E anche guardando non capisci cosa facciano, però la zona è turistica, quindi la metà sono bar e posti da cibo, ma sono tutti deserti.

Alla fine arrivo a quello che mi interessava, ed è deserto; l’ora è tarda, è buio, e non è stagione, e insomma non c’è nessuno tranne loro, la famiglia. Qui tutto è a conduzione familiare, quindi lo è anche questo caffè ristorante, con un menu stampato bene in tre lingue, vietnamita inglese e coreano. Sono una mezza dozzina o più, di cui la mamma è il capo, e un ragazzo ventenne che parla l’inglese molto bene, e una sorella più giovane, e poi qualche parente, e un’infilata di bambini imprecisati. Sono seduti in strada attorno a un tavolo di plastica, e chiacchierano per far passare la serata, come si faceva d’estate anche da noi una volta.

Così, il ragazzo mi fa sedere nel salone che dà sul fuori, ed è deserto; c’è anche un certo tentativo di arredamento, che gli stranieri se no si spaventano, e c’è un bancone da bar, con sopra improbabili ma vere bottiglie di Jack Daniel’s e sciroppi Monin, e pile di calici con sopra la polvere di almeno un paio di generazioni. Il ragazzo mi porge il menu, poi prende due ventilatori grossi come un frigorifero, e me li spara addosso dai due lati, schiacciandomi nella tormenta come un panino.

Io guardo il menu, questo è un caffè, ci sono pochi piatti ma saranno buoni, e prendo un mi quang, che è tipo il pho ma con meno brodo e tiepido, adatto all’estate. Gli chiedo se devo prendere altro, ma mi dice che una cosa basta, che qui le porzioni sono grandi (è così ovunque). Prendo anche una birra, ovviamente la birra vietnamita originale, la Larue, che però ha praticamente lo stesso logo della Tiger, la birra singaporthai che qui passa per un nettare; e gli dico due parole, che vengo dall’Italia, che vado via tra poco.

Così aspetto la mia ciotola, e giochicchio col cellulare, e arriva un bambino: avrà cinque o sei anni. Mi si ferma a fianco e mi fissa, e insomma non è che non siano mai passati occidentali da qui, ma dev’essere comunque uno stupore; e io guardo lui, e quegli occhi asiatici che a noi sembrano sempre strabici, e quello stupore che non sappiamo più di avere dentro. Non c’è gran modo di comunicare, e poi lui va via subito, e arriva il mio piatto.

Ovviamente è ottimo, come tutto il cibo qui, e ha questi spaghetti bianchi e piatti che si gonfiano nel brodo, e delle fettine di manzo, e di contorno un’insalata e la salsa di pesce fortissima che qui si mette su tutto. Me lo mangio tranquillo, anche se il bambino riappare, ma poi si mette a giocare con un’altra bambina, e corrono di qua e di là per la sala e giustamente nessuno ci fa caso, perché questa in fondo è casa loro, e so che dietro c’è la cucina e sopra le camere e la loro vita intera scorre qui, in una strada di periferia di Da Nang, sotto la montagna dell’acqua e dietro uno stradone di turisti che corrono anche loro, ma senza sapere bene dove andare.

I bambini invece vanno avanti e indietro, e alla fine spalancano le porte di legno lucido che danno sul retro, e io mi giro pensando di vedere la cucina, ma in realtà vedo la nonna, cioè, il butsudan della nonna, con una fotografia in bianco e nero di una vecchina vecchissima che non c’è più da tempo e una candela tra le offerte di cibo, e un pugno di riso per non dimenticare. Ma è un frammento di vita altrui che si apre, ed è un bel vedere, certo a chef Barbieri non piacerebbe, e sulla nonna metterebbe un topper, ma siamo qui per fare cena e ringraziare, e per una sera saper di vita vera; e brucerei senz’altro il cellulare, e le recensioni su Google dei locali, e tutti gli aspiranti Masterchef in ogni pizzeria d’Italia, per poter andare fuori anche da noi com’era prima, semplicemente da qualcuno che ti offre le cose di casa perché tu possa essere sazio, e continuare contento la tua vita.

Alla fine prendo il conto, che fa centotremila, e arrotondo a centoventi; sono comunque cinque euro scarsi. Saluto, e non ci rivedremo, però grazie; grazie anche al karaoke cinese stonato della casa poco più avanti, e alla gente su un patio aperto che guarda la televisione, e al buio appena illuminato dei lampioni, in un posto in cui fa caldo, sempre.

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sabato 2 Settembre 2023, 13:33

Un vero Vietnam

E insomma, se non mi è venuto un collasso oggi… Era una giornata libera e volevo andare a vedere le parti più lontane di Da Nang, così ho preso un Grab fino alla gigantesca statua della Buddha femmina sulla collina sul mare (Grab è l’Uber del sud-est asiatico e funziona benissimo, in un paese quasi privo di trasporti pubblici come questo non ha alternative).

Sulla strada, però, ho visto un grosso tempio di Buddha, la spiaggia, il porto galleggiante dei pescatori e un sacco di panorami, e così ho guardato la mappa, ho visto che erano quattro chilometri in discesa e salutata la statua mi son detto: andiamo a vederli facendo una passeggiata, così risparmio anche sul ritorno. Solo che invece di partire dall’albergo alle otto ero partito alle undici, e il cielo era coperto, quindi non avevo nemmeno preso l’ombrello; e quando ho iniziato la passeggiata era l’una e mezza e non c’era più una nuvola, c’erano 35 gradi, umidità al 200 per cento e sole a picco.

Mi sono ritrovato così su una statalona a curve a mezza costa sul mare che, avevo visto, non aveva marciapiede ma aveva un’ampia corsia-banchina tracciata sul lato; ho capito solo dopo che per loro è una corsia riservata per le centinaia di motorini e moto che viaggiano ovunque e comunque con 2-3-4 persone sopra, Napoli style. Quindi ho fatto delle belle foto ai panorami ma ho rischiato la vita a ogni curva cieca, e quando sono finalmente arrivato all’inizio della città e del marciapiede ho ringraziato qualunque santo preghino qui, ma ero già sciolto.

E sì, è vero che persino in mezzo al nulla, ogni qualche centinaio di metri, c’è un tizio steso sotto una palma che vende bibite: in queste condizioni, dev’essere una specie di presidio sanitario pubblico. Però, avrei dovuto spendere quei 20-30 centesimi di euro, solo per la mia debolezza nel soffrire il caldo, e quindi non me lo sono permesso. Ho invece tirato avanti con una marcia automotivata di tipo militare e ho avuto successo, però ho capito molte cose, e anzi ora mi sorprende che gli americani abbiano resistito per un decennio.

Comunque, alla fine sono arrivato alla passeggiata sul mare, e sedendomi ogni tanto (quando mi girava troppo la testa) ho fatto le foto alla spiaggia e ai navigli dei pescatori (tantissimi, sembrava un’isola greca tipo Fistfakòs) e infine sono arrivato lì, al tempio di Buddha (qui son tutti templi di Buddha, a parte la cattedrale francese). Come vedete, ero abbastanza cotto e accecato dal sole da non riuscire nemmeno a fare la foto dritta; poi sono entrato e il testo non l’ho visto, perché era totalmente deserto (chi cacchio va al tempio alle due del pomeriggio col sole a picco?) ma guardato da un cane randagio.

Ora, chi mi conosce meglio sa che intimamente ho un’identità di volpe, e notoriamente tra volpi e cani è come tra italiani e francesi, si è parenti ma non ci si sopporta. Infatti il cane si è messo a ringhiare, e siccome la rete è piena di storie di turisti che a Da Nang sono stati morsi da cani randagi, io mi sono limitato al cortile, che tanto era pieno di draghi (qui adorano i draghi ancora più che in Cina).

Me lo son visto per bene, poi ho chiamato il Grab per ritornare. Ho rischiato la vita in molti modi, ma effettivamente ho risparmiato: quattro euro invece di sei euro e cinquanta.

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domenica 20 Agosto 2023, 22:59

Creare immagini con l’AI

Oggi, domenica d’agosto con poco da fare, ho deciso di dedicarmi al piacere e al dovere insieme: dopo averne tanto parlato, ho passato la giornata a provare Stable Diffusion, una delle AI specializzate in disegno. Me la sono installata in locale sul portatile; c’è voluto un po’ di smanettamento, la lettura di prontuari su diversi siti, la comprensione di una dozzina di acronimi e componenti, nonché un bel po’ di spazio disco (comprese tutte le aggiunte, ho già occupato una quindicina di GB), ma dopo un paio d’ore ero a posto.

Bene, che dire? Come primo esperimento, ho scelto per soggetto un famoso personaggio cinese, Xiao di Genshin Impact (non preoccupatevi se non sapete cos’è, se avete più di vent’anni è normale): l’ho scelto perché è allo stesso tempo complesso da disegnare ma molto diffuso. Questo mi ha permesso di recuperare in rete una serie di modelli già pronti: il generico modello ottimizzato per il disegno in stile anime, e poi il modello specialistico per disegnare questo specifico personaggio.

Infatti, a differenza di quasi tutti i sistemi AI concorrenti, Stable Diffusion è un sistema molto aperto che può funzionare anche sui personal computer: così, c’è stato qualcuno che ha passato una montagna di tempo a far vedere all’AI centinaia o migliaia di immagini di questo personaggio, specificando per ognuna tutte le caratteristiche del disegno, in modo che l’AI imparasse a disegnarlo in qualunque forma e posizione.

Insomma, c’è voluta un’oretta per capire come mettere insieme i vari componenti e come usare l’interfaccia utente, ma alla fine… la prima delle immagini che vedete è soltanto la quinta che ho generato in tutta la mia vita: le prime quattro non c’entravano nulla, ma questa è già notevole.

C’è però un piccolo problema: come ho scoperto nel pomeriggio, è relativamente facile generare immagini piuttosto belle, ma è molto difficile generare immagini perfette, nonché davvero corrispondenti a ciò che vorresti tu. Non mi riferisco soltanto al fatto che ogni tanto – non spesso, a dir la verità – escono fuori immagini con una gamba sola o con tre. Mi riferisco piuttosto al fatto che tu puoi anche dare una caterva di istruzioni e dettagli su come vuoi l’immagine, ma più ne metti più il sistema si incasina, perché può soltanto mettere insieme imitazioni di ciò che ha visto: e se “Xiao in piedi con lo sguardo truce” è abbastanza semplice, “Xiao vestito di un kimono blu mentre guarda a sinistra col braccio piegato e una spada in mano, sullo sfondo del cielo con le nuvole” è già troppo complicato, e non viene mai eseguito alla lettera. Ogni tanto, al posto della spada c’è una candela, oppure il cielo è nero e senza nuvole, e il kimono è sempre bianco perché il modello ha imparato solo kimono bianchi.

Insomma, è come guidare una Ferrari senza volante, provando a partire venti volte per sperare che almeno una vada più o meno nella direzione che desideri. Ovviamente io sono un operatore AI molto incompetente, eppure pare che tutti facciano così: si prova a dargli un insieme di istruzioni, viene fuori un risultato più o meno carino, gli si dice “riprova”, magari si aggiunge o si toglie una parola, e poi semplicemente si ripete, anche perché più ripetizioni diverse delle stesse istruzioni danno risultati anche piuttosto diversi; quindi, si ripete a caso fin che l’AI non ne imbrocca una meno brutta.

Non parliamo poi di disegnare scene con più personaggi: a quanto pare, al momento – a meno che non si tratti di un generico gruppo – non è fattibile, non con questi strumenti almeno. E poi, non ho ancora provato le illustrazioni fotorealistiche: penso che lì ottenere buoni risultati sia ancora più difficile.

Morale: è un giochino divertente, ma per ora può sostituire i disegnatori umani solo in certi tipi specifici di composizione, e solo per committenze che si accontentino, che non abbiano un’idea molto precisa dei dettagli che vogliono e che si adattino a quel che viene fuori dal sistema. Però, è impressionante che per quel tipo specifico di illustrazione io, con un normale portatile e poche ore di addestramento, possa fare quel che fino a ieri richiedeva talento, manualità e anni di studio; e questi strumenti certamente continueranno a migliorare.

P.S. Naturalmente, questo è un esperimento: dato che nelle discussioni di policy che seguo per lavoro si parla continuamente di AI, mi sembrava il caso di capirne di più. Le immagini generate sono prove per uso personale; nel frattempo, la discussione sulla legittimità dell’uso di questi strumenti senza compensazione degli autori originali è tuttora aperta.

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sabato 15 Luglio 2023, 10:11

Basta oggetti

Dopo aver passato mezz’oretta a riordinare la credenza del tinello per riuscire a infilare ancora un set di tazze che rischiava di crollare sulle mie tazzine da caffé ogni volta che aprivo lo sportello, ho un importante appello da fare a tutti voi: basta oggetti.

Per favore, basta coi ricordini materiali, con i regalini di compleanno, con il pensierino per Natale che poi resta lì fino a Pasqua, con il souvenir che ti ho portato da Ibiza o da Sharm, che tanto restano posti di merda.

Basta con i nuovi accessori da cucina convenienti e imperdibili, che io ho ceduto e infine la friggitrice ad aria l’ho comprata, ma è soltanto un fottuto forno e in cucina ne avevo già due, e adesso il ripiano del mio cucinino sembra la vetrina di un negozio di elettrodomestici del Lidl.

Basta con le bomboniere utili agli ospiti dei matrimoni, che “così quando userai questo prezioso vassoietto di design ti ricorderai di noi”, che tanto io mangio direttamente dalla pentola o comunque porto le cose in tavola con le mani, e comunque se siamo amici vi ricorderò anche se non mi fate un regalo, e se mi avete invitato solo per applaudire penserò che siete stronzi lo stesso, anche con il vassoietto in mano.

Certo, dobbiamo far girare l’economia: se smettiamo di comprare e regalare puttanate, tutto si ferma. Ma tanto si fermerà lo stesso, perché non abbiamo più spazio fisico e neanche mentale. Quindi, anche basta, grazie: e buona giornata.

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sabato 17 Giugno 2023, 09:41

L’invasione

Dunque l’avevo già capito sul volo, che c’era qualcosa di strano: da Washington Dulles a Francoforte su un’inguardabile carretta Lufthansa, un 747-8 con le ginocchia nei denti che neanche Ryanair, i piedi a zigo zago tra sostegni dei sedili e scatole dell’entertainment, il touchscreen che non funziona e soprattutto una marea di bambini di ogni età, di cui quattro – quattro! – sotto l’anno, a darsi i turni a rompere le orecchie. Già dopo un’ora dal decollo, lo steward si è scusato in questo modo: “a causa dell’elevato numero di ragazzini, abbiamo finito la Sprite”.

La situazione è degenerata del tutto a dieci minuti dall’atterraggio: nonostante l’obbligo di stare seduti con le cinture allacciate, vedo passare accanto a me nel corridoio un ragazzone americano di quelli pompatissimi, con magliettina tecnica, culo scolpito e bicipiti da sollevatore di pesi. Il volo era tranquillissimo, eppure lui fa altri tre passi in avanti, si gira verso un lato e buargh, vomita anche l’anima come neanche i bambini di cui sopra. Il passeggero a fianco, anche lui americano, interviene prontamente: si alza, lo abbranca e cerca di scaraventarlo via al grido di “can you just go somewhere else”.

Bene, come dicevo, avrei dovuto capire, e invece no. Arrivo a Francoforte, faccio tutto il corridoio degli Z, e al fondo trovo una nuova freccia: B a sinistra, A a destra. È strano, perché subito a sinistra c’è il controllo passaporti che porta proprio nel cuore degli A; ma io sono un cittadino onesto e devo andare alla lounge degli A, quindi seguo la freccia. Mi fanno fare tutto l’altro corridoio degli Z, e in fondo comincio a vedere una strana folla. Alla fine del corridoio, scopro un nuovo controllo passaporti con quattro sportelli in tutto, e nessuna porta automatica, e una coda di gente per almeno un’ora, tutti col loro passaporto blu; non se ne vede la fine.

Penso che ok, mi son fatto fregare, ma vale la pena di tornare indietro. Ripercorro tutto il corridoio e arrivo alla scala mobile in discesa verso il vecchio controllo passaporti: trovo l’ingresso sbarrato col nastro e una signora che manda via la gente verso il nuovo passaggio, anche se sotto c’è comunque gente in fila. Faccio il finto tonto: vado a Torino, B13, per B dice di qui. La signora mi guarda male, poi però nota una cosa: in mano ho il passaporto, ed è bordeaux. Amico! Mi apre il nastro e mi dice testualmente: “you are lucky, European passport”.

Sotto, stessa scena: ondate di americani in fila, disperati per la connessione da prendere; io mi metto in fondo alla lunga coda, ma noto più avanti il cartello “passaporti europei” verso un passaggio vuoto. Esibisco il passaporto bordeaux, mi aprono il nastro e mi fanno passare accanto a tutta la fila, fino alle mie solite e adorate porte automatiche per passaporti bordeaux, completamente deserte; e in un minuto sono di là.

È che in sostanza, su un volo di trecento persone, ero l’unico europeo o quasi. Non so se Lufthansa abbia deciso di regalare biglietti a tutta l’America, ma il volo era pieno a tappo, e ce n’erano altri, e qui adesso c’è una marea di americani in vacanza che vagola per l’aeroporto cercando di capire dove andare e chiedendo a tutti, perché gli americani sono abituati a fermare l’addetto di turno e a chiedere, non a seguire i cartelli in silenzio.

Ora sono nella lounge, e anche qui sono tutti americani: li riconosci perché abbrancano le inservienti tedesco-magrebine e pretendono che gli venga immediatamente approntato un tavolo per fare colazione, chiedendolo in americano stretto a una signora immigrata che a malapena capisce il tedesco. Li riconosci perché è ora di colazione e hanno una sola parola in testa, “cappuccino” (qualcuno anche “latte” o “venti”, sono quelli degli Starbucks), e però si fanno il cappuccino e poi ci mettono non uno, non due, ma quattro cubetti di ghiaccio, giuro l’ho appena visto fare or ora a una signora, mentre il marito chiedeva dove fosse la bottiglia del Jack Daniel’s.

E così, mi mangio uova e salsicce su un tavolino e resisto all’invasione, però, ragazzi, prepariamoci: da qui a settembre, in ogni angolo di ogni città e di ogni paese italiano, ci sarà la folla dei nuovi vacanzieri; una sostituzione etnica del tempo libero da Roma a Venezia. È il mondo del post-lavoro, e porta soldi; e questo mette a sedere qualunque discussione.

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mercoledì 3 Maggio 2023, 14:53

Maree

Se vi state chiedendo dove io sia sparito nelle ultime ventiquattr’ore, ecco qui.

Ieri alle 18 a Milano, alla Cattolica, abbiamo presentato Internet fatta a pezzi. È stato un successone, sala piena, molte domande, multiple promesse di adozione come libro di testo o di riferimento, una caterva di complimenti sia per i contenuti che per lo stile di scrittura (per uno come me che scrive sin da ragazzo ma non ha mai avuto la fiducia in se stesso necessaria per provare seriamente a pubblicare libri fino a pochissimo tempo fa, quest’ultima cosa è bella ma anche una grande sorpresa).

Ma invece che di me vorrei parlare della vita, perché quella di ieri è stata anche una buffa coincidenza. Qualcuno, non molti, sa che il primo vero discorso pubblico della mia vita fu l’8 dicembre 1996: era l’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico e io, da rappresentante degli studenti, mi presentai tutto emozionato con giacca nuova e scarpe nuove per parlare dal palco. Anche allora l’ospite d’onore era Romano Prodi, allora presidente del consiglio, e fu gentile, e ci incontrò anche in privato.

È quindi indicativo di qualcosa che non so, forse solo la supremazia del caso, che alla presentazione ufficiale del mio primo vero libro, ventisette anni dopo, l’ospite d’onore fosse ancora Romano Prodi. Lui ovviamente non poteva ricordarselo, ma quando si è presentato dicendo “piacere, noi non ci siamo mai incontrati” (il momento nella foto) io gli ho subito risposto che non era vero, e che era la seconda volta.

Ho avuto il privilegio di andare poi in auto e a cena con lui, ed è stato una miniera di racconti, considerazioni e aneddoti (che ovviamente non posso riferire). È stato gratificante e arricchente e mi ha ricordato l’ultima persona che avevo potuto incontrare in modi simili e da cui ho imparato molto: un altro grandissimo intellettuale italiano, Stefano Rodotà. Volevo comunque ricordare anche lui, perché molto di quel che c’è nel libro dipende da ciò che ho capito da lui.

Insomma, le fortune nella vita sono strane, e vengono per cicli e per maree che non si possono prevedere e forse nemmeno cavalcare, ma soltanto un pochino indirizzare. Dev’essere per questo che ieri ho fatto una cosa che un tecnico non dovrebbe fare, e mi sono rimesso le stesse scarpe da cerimonia del 1996, molto consumate da numerosi giri del mondo, ma ancora presentabili; e quest’ultima descrizione è un po’ come mi sento anch’io in questa fase della vita.

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