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venerdì 10 Gennaio 2025, 08:38

GTT horror

Ieri pomeriggio sono andato fino allo stadio di Venaria a fare un esame medico che richiedeva anestesia; non potendo guidare, ho deciso dunque di andarci in autobus. Certo, secondo Google Maps un viaggio di 12 minuti in auto avrebbe richiesto con GTT minimo tre quarti d’ora, ma io sono amante della sostenibilità, e dunque ho obbedito alle raccomandazioni e ho preso i mezzi pubblici. Mettetevi comodi: questo è uno spaccato dell’horror dei trasporti torinesi di oggi.

All’andata, esco per tempo; il piano è di prendere il 2 e poi il 72. Vado comunque fino in piazza Rivoli, perché la fermata del 2 sotto casa è stata abolita anni fa da una Lapietra qualunque, o forse dalla Lapietra vera, per “velocizzare il percorso” (poi ce ne sono due attaccate dai due lati di piazza Rivoli, ma vabbe’). Già che ci sono, scendo alle macchinette della metro a comprare il giornaliero scontato sulla BIP: quando due anni fa ho provato a comprarlo sul telefono dall’app ufficiale GTT, prima l’app si è presa i soldi da Satispay senza darmi niente, poi, pagando con carta, mi ha dato il biglietto; però, quando ho avvicinato il telefono al tornello della metro per aprirlo, l’app è crashata e il biglietto telematico si è rivelato inutilizzabile, e da allora non li compro più.

Dunque, la macchinetta funziona (ok), ho il mio giornaliero; allora voglio capire quando passa il 2, perché avrei l’alternativa di metro + 62. Apro dunque l’app GTT: mi chiede di attivare l’NFC per usare i biglietti. Io non ho biglietti da usare, voglio solo i passaggi in fermata; non importa. Se non attivo l’NFC, l’app mi sputa in faccia e si chiude da sola.

Così, attivo l’NFC, vado nell’infomobilità, e mi chiede il codice di quattro cifre della fermata (tutti li sappiamo a memoria), oppure il nome. Ora, trovandomi a cinquanta metri dalla fermata in questione, forse l’app potrebbe capire da sola che fermata voglio, ma no. Allora scrivo “Rivoli”, viene un elenco, scelgo la prima “Rivoli”, ma non è lei: è una fermata di emergenza usata solo per i bus sostitutivi della metro (logico metterla per prima, no?). Poi c’è “Rivoli sud”, ma non c’è “Rivoli nord”, che dovrebbe essere la mia. Scrivo per intero “Rivoli nord”: non compare niente. Alla fine, scrivendo “Rivoli” e scorrendo due schermate di roba che non c’entra niente, compare “Rivoli nord”. Ok, seleziono, e l’app GTT mi dice che non sa quando passano i bus GTT, ma posso vedere l’orario teorico. Ho capito: mi metto lì e aspetto.

Dopo un’attesa devo dire breve, arriva un 2: un pullman nuovissimo. Salgo dall’ultima porta in fondo, dove c’è scritto entrata; ma non c’è la timbratrice. Sta vicino all’uscita, in mezzo, separata da me da un grumo di ragazzini tutti con grossi zaini sulle spalle, che loro non si tolgono manco per sbaglio, né si spostano per far passare. Alla fine, a spintoni, riesco a timbrare e arrivo senza altri intoppi a Madonna di Campagna.

Scendo, vado ad aspettare il 72, anche quello arriva nuovo e dopo pochi minuti. Comincio a sentirmi malfidente ad aver subito pensato male. Stavolta però mi faccio furbo: salgo dalla porta centrale. Faccio per passare la BIP, e no: su questo bus, pur identico all’altro, la macchinetta era davanti alla porta posteriore, altrettanto irraggiungibile. Sbuffo e rinuncio a bippare, ma per il resto sembra a posto…

…fino al colpo di scena: alla svolta di corso Lombardia, l’autista imbocca corso Toscana invece di strada Altessano. Panico a bordo: abbiamo sbagliato bus? No, è l’autista che non sa dove andare e ha sbagliato strada. Arriva all’angolo di corso Cincinnato e fa scendere in mezzo alla strada la gente che protesta, poi fa per girare lì, ma come fai a fare quella curva con un bus di 18 metri? Così desiste e va fino in via Sansovino, gira lì, poi si ferma e grida: c’è qualcuno che vuol scendere qui? Nessuno scende, così va avanti, gira in strada Altessano, accosta subito lì col culo in mezzo a via Sansovino e fa scendere altra gente a caso, poi riparte e fa una ulteriore fermata cento metri dopo. Comunque, alla fine arrivo: tempo totale, 55 minuti.

Al ritorno, decido di cambiare strada: vado alla fermata del 62 in via Sansovino. Noto sulla palina un grosso QR code con scritto novità! Lo si può inquadrare per conoscere gli arrivi in tempo reale. Inquadro, apro l’URL, si apre una pagina che è identica a quella dell’app, e pure quella dice che il sito GTT non sa quando passano i bus GTT, ma posso leggere l’orario teorico. Nel frattempo arriva un 75, una signora sbuffa e fa: è quaranta minuti che aspetto il 62, non è possibile! Ok, capito: cambio di piano.

Attraverso di corsa via Sansovino e prendo al volo un 72: anche questo è nuovo. Certo, il display a bordo non ha idea di dove siamo e non annuncia le fermate, però in compenso manda pubblicità contro l’omofobia (ah, ok, allora tutto a posto).

Scendo in corso Potenza e vado alla fermata del 2: non provo nemmeno più a scoprire quando arriverà. Tuttavia, dal cellulare, scopro che nelle carte comunali il 2 è stato ribattezzato Bus Rapid Transit, per giustificare le telecamere sulle preferenziali a difesa dello spazio necessario per far passare due o tre autobus all’ora se va bene. Concordo: mi pare appropriato riciclare la terminologia delle città americane, in modo da farci capire qual è il modello culturale di riferimento, quello in cui i trasporti pubblici sono solo per immigrati e barboni. Infatti, aspetto cinque, dieci, quindici minuti: nessuna traccia del 2. Però arriva l’ennesimo tram 9, nuovissimo e vuoto. Sai che c’è? Secondo cambio di piano.

Salgo sul 9, pensando di andare in piazza Bernini a prendere la metro. Mi faccio un giro tortuoso ma ameno tra landmark torinesi, tipo lo spaccio di mutande Alpina e il paninaro Mister Mimmo Number One, e andrebbe tutto bene, se non fosse che il tipo seduto davanti a me puzza di verdura marcia e si sarà fatto l’ultima doccia l’anno scorso. Anche per questo motivo, quando all’incrocio con via Cibrario vedo apparire un 13, cambio il piano per la terza volta e scendo lì.

Il 13 è nostalgia: è il solito tram grigio anni ’80, con il linoleum a bugne per terra e gente appesa pure ai finestrini, tra cui un ragazzino che mi spintona per arrivare a sedersi prima di me. Finalmente mi sento tranquillo: è vecchio, è brutto, ma va avanti senza pretese, e fa pure la fermata sotto casa, che pure quella era stata abolita da una Lapietra qualunque, ma per fortuna poi l’hanno rimessa. Arrivo a casa dopo un’ora abbondante di giro turistico.

Alla fine sono qui, sul divano, ho perso ore dietro a GTT, e nulla mi toglie dalla testa questa morale di fondo: puoi anche spendere fantastiliardi (non tuoi, dei cittadini) per comprare bus e tram nuovissimi, ma è uno spreco inutile se non sei in grado di mantenerli e farli circolare decentemente. Il degrado progressivo ed evidente non è solo questione di impoverimento delle casse pubbliche, perché i soldi alla fine sono saltati fuori. Il degrado progressivo ed evidente è dovuto a una somma di piccole mancanze che tutte insieme diventano devastanti, e le piccole mancanze derivano dalle piccole incurie e dai piccoli menefreghismi; e dunque resto qui, con la sensazione che il vero problema sia che a tutti quelli che ci lavorano, dal ministro dei trasporti fino all’ultimo dipendente di GTT, di offrire un servizio non dico di eccellenza ma almeno decentemente affidabile non possa fregare di meno.

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giovedì 9 Gennaio 2025, 10:19

Guai agli standard troppo accessibili

Ogni tanto, nel mondo super-specialistico degli standard ICT, succedono fatti clamorosi che nessuno conosce, ma che hanno un impatto potenzialmente importante. Per esempio, si è da poco saputo di una causa piuttosto particolare: ISO e IEC, le due maggiori organizzazioni di standardizzazione tecnica a livello mondiale, hanno denunciato la Commissione Europea, pare (le carte sono segrete) per violazione del copyright.

Il motivo è semplice: qualche mese fa, una sentenza europea ha stabilito che, se uno standard tecnico è incluso o citato in una norma di legge, la Commissione Europea è tenuta a fornirne l’intero testo in risposta alle richieste di accesso agli atti. Infatti, se una legge obbliga uno sviluppatore di software o un fabbricante di qualunque tipo di prodotto a rispettare un determinato standard, quello standard assume valore di legge, quindi dovrebbe essere liberamente e gratuitamente disponibile come qualunque testo di legge. E così, da allora, la Commissione Europea ha iniziato a fare.

Tuttavia, ISO e molte organizzazioni simili mantengono il proprio staff e i propri uffici con le entrate ottenute vendendo gli standard. Dovete certificarvi ISO 27001, lo standard sulle buone pratiche di cibersicurezza? Bene, se volete semplicemente leggere la norma a cui vi dovete attenere, dovete comprare il PDF da ISO per circa 140 euro; ma siccome poi ogni norma punta ad altre, il prezzo totale sale rapidamente. Così, per ISO il fatto che l’Europa distribuisca gratis i suoi standard è una minaccia mortale: di qui la causa per violazione del copyright.

Per chi viene dal mondo di Internet e dell’open source, è ISO a essere assurda: da sempre, IETF, W3C e simili distribuiscono gli standard gratuitamente, e il processo di standardizzazione è interamente gestito da volontari e da un piccolo staff pagato con fondi donati (l’IETF è mantenuta da ISOC, che è mantenuta da PIR, che incassa i soldi delle registrazioni dei domini .org). Ad ogni modo, l’esito di questa causa potrà determinare molto della futura direzione di questo settore.

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mercoledì 3 Luglio 2024, 16:19

Giappone wtf

L’escursione giapponese di stamattina mi ha regalato il momento giapponese “wtf” dell’anno. Sono andato all’onsen della Keio sotto il Takaosan, un posto moderno ma tutto in legno chiaro, con ambizioni già di un certo livello (il biglietto d’ingresso a tutto il complesso termale costa ben 6,30 euro). Pertanto, tutti i presenti nel bagno maschile, a parte me, erano giapponesi dai 50 anni in su.

Dunque, io arrivo, mi spoglio, faccio la mia doccia seduta, mi sciacquo, esco e vado ai bagni all’aperto, e appena arrivo lì trovo la seguente scena. A sinistra, il bagno frizzante a 37 gradi, sotto una tettoia, pieno di giapponesi paralizzati; a destra, il bagno all’aperto a 39 gradi, sotto il sole, con una sola persona. Guardo meglio: è un vecchiettino ottantenne di quelli minuscoli e fatti ormai solo delle ossa del pollo, seduto nell’acqua.

Però, il vecchiettino ha appena portato le mani alla bocca, anzi forse proprio dentro la bocca, e ha iniziato a soffiare, emettendo una melodia che va su e giù senza molto senso, come se stesse cantando, ma con un suono che ricorda quello dell’orifizio posteriore, o al massimo di un palloncino che si sgonfia; ed è anche del tutto stonato. È lì fermo, imperterrito, e va avanti per almeno un paio di minuti, bruciando le orecchie a tutti.

Dall’altra parte della scena, i presenti sono impietriti. Sono fermi col culo nell’acqua, gli occhi spalancati, la bocca aperta, senza emettere un suono. Quel che sta succedendo è totalmente fuori dalle regole: negli onsen è vietatissimo emettere qualunque rumore, per non disturbare il relax e la meditazione. Il vecchiettino invece è perso nel suo mondo, e continua a produrre suoni, nonostante gli arrivino in contemporanea almeno cinque o sei sguardi della morte, che sono quelli che fa il giapponese quando qualcuno attorno a lui compie azioni molto maleducate; non oserebbero comunque mai dire nulla, ma guardano male.

Io cerco di non disturbare questa scena meravigliosa, e mi infilo nell’acqua in un angolo, ma girato, in modo da vedere le facce dei presenti invece che il vecchietto. Mi godo lo spettacolo ancora a lungo, poi il suono smette e ritorna la normalità. Ma è stata una scena indimenticabile.

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lunedì 15 Aprile 2024, 19:40

Partire da Torino Caselle

Dopo diversi viaggi da Malpensa, capisci che stai di nuovo partendo da Caselle perché:

1. Il tabellone partenze segna nel prossimo paio d’ore solo tre voli, e sono tutti e tre Ryanair verso il Mediterraneo.

2. Ai tornelli di ingresso verso i voli la fila è bloccata da almeno una mezza dozzina di passeggeri che non sono in grado di aprire l’app, visualizzare il codice qr e mostrarlo allo scanner.

3. Al controllo di sicurezza, un signore di mezz’età arriva in cima alla fila, viene chiamato, e parte a passo di marcia verso il metal detector con due borse in mano. Devono rincorrerlo e spiegargli che deve fermarsi alla postazione e fare una serie di cose, anche se non sembra capire, allora chiamano la moglie che traduce in un qualche dialetto.

4. Oltre il metal detector, mentre aspetto il mio zaino, arriva la vaschetta di un altro passeggero: ci sono cinque o sei piccoli brik di latte Tapporosso parzialmente scremato, e l’addetto fa anche notare che non sono nelle buste di plastica. Comunque, non so se andasse in Spagna o in Sicilia ma garantisco che esiste il latte anche lì.

5. Vai a fare pipì prima del volo e ci sono solo due orinatoi, ma uno è fuori uso.

6. L’app indica gate 21, gli schermi indicano gate 21, ma il gate aperto col volo sul monitor è il 19.

7. In teoria c’è la fila priority e quella non priority, ma a metà della fila priority cominciano a imbarcare anche l’altra e di lì in poi è uno scontro di gomiti e trolley per le cappelliere.

8. Sei seduto in aereo in attesa di decollo, posto C, e la tizia nel D apre il tavolino, ci mette il portatile e comincia a vedere un film. Arriva la hostess e glielo fa chiudere, lei aspetta due minuti che le hostess si siedano e lo rifà: decolliamo a tavolino aperto e occupato.

9. Mentre l’aereo accelera per decollare, le due passeggere alla tua sinistra si fanno il segno della croce.

10. Subito dopo il decollo, lo studente spagnolo seduto davanti alla tizia del film prende una custodia di auricolari neri che gli sfugge di mano, spargendo il contenuto su due file. Di lì in poi, con l’aereo in ascesa secca, è tutto un mobilitare gente alla ricerca.

11. Non potendoti tagliare i piedi li sporgi nel corridoio, ma è un continuo passare di hostess e carrelli che cercano di vendere qualcosa.

12. Vai in bagno, l’unico funzionante, ma resti bloccato in coda dietro una signora il cui culone fa comunità autonoma, rendendo impossibile qualunque manovra. Poi esce dal bagno un’altra signora, chiama la hostess e le chiede come fare a tirare l’acqua, perché da sola non riesce a capirlo.

13. Quando finalmente atterri, l’aereo è ancora dritto in frenata e c’è già uno in piedi nel corridoio.

14. Parte anche il canonico applauso, ma non all’atterraggio: dopo un paio di minuti, in un momento a caso.

15. A un certo punto l’aereo si ferma in mezzo alla pista per dare una precedenza, e lì è la fine: di lì in poi, c’è mezzo aereo in piedi con le valigie in mano per tutto il tragitto che rimane fino al gate.

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martedì 2 Gennaio 2024, 09:48

Il ragazzo e l’airone

Essendo notoriamente un cultore di Miyazaki, sono andato subito a vedere Il ragazzo e l’airone. Per quel che valgono, vi lascio le mie prime impressioni, incoraggiandovi comunque ad andarlo a vedere.

***ATTENZIONE CONTIENE SPOILER***

Cominciamo da questo: alla fine della prima metà, quando appare l’isola dei morti, ero entusiasta. Ho pensato: caspita, mi aspettavo un film di maniera e invece il maestro è riuscito ad andare ancora oltre, sia come estetica che come racconto. Il concetto è interessante, con richiami occidentali espliciti (ok Alice, ma qualcuno vuole sette nane?). Il disegno è ovviamente nel suo stile, ma già dopo trenta secondi vedi la corsa nell’incendio e capisci che ha trovato ancora qualcosa di nuovo e bellissimo.

La costruzione del protagonista e della storia prende il suo tempo; certo non è un film a ritmo di TikTok. Però, funziona: l’ambientazione rurale è magica e il dolore di Mahito è sincero. Soprattutto, il rapporto con la natura non è scontato: sono sicuro che siamo tutti entrati in sala aspettandoci scene d’amore interspecie tra il ragazzo e l’airone, tipo “salta, Willy, salta!”, e invece… no. È come se il maestro si fosse rotto di sentirsi dire che è un gran pittore delle meraviglie della natura e avesse voluto sovvertire il suo stesso trope.

E però, la seconda parte secondo me è un pasticcio, di sceneggiatura soprattutto. Già subito, lui ritrova quella che è evidentemente la madre e nessuno sembra farne cenno o anche solo intuirlo, salvo che poi alla fine lei dice “Luke, cioè, Mahito, sono tua madre”; e a un certo punto invece lui comincia a chiamare mamma la zia, d’amblé, e si dice che così lui potrà tornare nel mondo come figlio della zia, però alla fine boh, non succede. E poi, i pellicani: ma che senso hanno? Appaiono dal nulla, c’è una scena drammatica improvvisa che ci dice che non sono cattivi come sembrano, poi spariscono di nuovo per quasi un’ora, poi riappaiono nell’ultima scena. Eh?

E poi, improvvisamente appare la popolazione dei pappagallini carnivori, certamente carinissima e funzionale alle classiche scene di massa miyazakiane, ma anche lì, non particolarmente motivata. Andrebbe tutto bene se non fosse che a cinque minuti dalla fine, dal nulla, senza preavviso, si scopre che i pappagalli hanno un re cattivissimo che viene letteralmente imbucato nella scena finale, ma tipo seguendo i protagonisti alle spalle a un metro di distanza per mezz’ora senza che loro mai se ne accorgano, solo per provocare la catarsi finale con la distruzione di tutto e l’apparizione di un gigantesco cervo ah no scusa quello è Mononoke. Insomma, un classico deus ex machina che però, ecco, nelle sceneggiature moderne non si fa così, insomma.

Infine: sappiamo che non sempre nei film di Miyazaki l’importante è la premessa drammaturgica, o “il messaggio” che dir si voglia. Però, ecco, se qualcuno ha capito cosa ci vuol dire il maestro, me lo può spiegare? Alla fine, con la scusa del cattivo, salta fuori qualcosa tipo “siamo noi che con i nostri comportamenti decidiamo se il mondo è bello o brutto”, ma mi sembra banalotto. Mereghetti sostiene che sia un messaggio su come l’equilibrio della natura è entrato in crisi partorendo mostri che ci aggrediscono, e potrebbe anche essere, se non fosse che i mostri sono nel mondo interiore e non in quello esterno; comunque, pure questa non è proprio una breaking news.

Morale: resta lo stesso un bel film, sia da guardare che da seguire; è possibile che a una seconda visione mi entri più nel profondo; però, credo che resterò più affezionato a Mononoke, a Cagliostro, a Si alza il vento, insomma ad altre pietre miliari della carriera di quello che resta il più grande regista giapponese di animazione della storia.

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giovedì 28 Dicembre 2023, 10:21

Tutto il cielo è paese

Il Messico è un paese meraviglioso, davvero, e se non ci siete mai stati vi consiglio di andarci, e non solo sulle spiagge. Per noi latini d’Europa, per certi versi è familiare, anche se per altri è completamente alieno.

Una delle cose a noi familiari è l’invadenza della politica nell’economia, e in particolare nel trasporto aereo. Questa storia comincia dunque già negli anni 2000, quando l’aeroporto di Città del Messico, situato in mezzo alla città, comincia a essere insufficiente; si decide dunque di costruirne uno nuovo. Il Messico è uno stato presidenziale, e ogni nuovo presidente ha il suo progetto, portando a una pletora di piani alternativi. Quando infine viene eletto l’attuale, Lopez Obrador, lui organizza un referendum per abbandonare a metà la costruzione del nuovo aeroporto del presidente precedente e iniziare di nuovo in un posto diverso, con un progetto ancora più pantagruelico.

Il nuovo aeroporto, noto in breve come AIFA, viene costruito in fretta con l’aiuto dell’esercito, spianando ritrovamenti archeologici e i resti di almeno duecento mammut. Inaugurato l’anno scorso, ha un piccolo problema: è una cattedrale nel deserto, lontanissima dalla città e mal collegata, per cui le linee aeree non ci vogliono andare.

Cosa fa allora il presidente? Semplice: sempre con l’aiuto dell’esercito, mette in piedi una nuova linea aerea, 100% pubblica, che faccia base all’aeroporto e lo riempia di rotte. La chiama Mexicana, riprendendo il logo di una precedente storica compagnia fallita una decina di anni fa.

Qualche giorno fa, dopo vari rinvii, Mexicana è finalmente pronta per il suo primo volo ufficiale, da AIFA fino al nuovo aeroporto di Tulum, anch’esso costruito dall’esercito e appena inaugurato per servire la città turistica a un’ora a sud di Cancun, anche se l’aeroporto di Cancun era ampiamente sufficiente.

Così, molti in Messico seguono col fiato sospeso il volo, che parte, attraversa il paese, si mette sul percorso di discesa e… devia all’aeroporto di Merida, ufficialmente per problemi di maltempo, ma pare perché qualcosa non ha funzionato.

E insomma, la storia finisce qui, con l’aereo che poi riesce a ripartire e ad atterrare a Tulum, ma viene fotografato con un’inquietante bacinella sotto un’ala, posizionata sopra una macchia d’olio che si è formata sulla pista dopo che l’aereo è stato parcheggiato.

Però, noi possiamo divertirci con questa storia perché sappiamo come funziona, perché è la stessa storia di tante nostre infrastrutture da Malpensa a Alitalia, perché anche noi viviamo in un paese dove la politica fa disastri con i nostri soldi, fino a quando non arriveranno nuove elezioni e nuovi governanti, che faranno disastri simili, ma diversi.

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venerdì 6 Ottobre 2023, 23:30

La notte ha due facce

Non vorrei mettermi a scrivere davvero, perché queste giornate sono splendide ma massacranti, con un ritmo adeguato alla società giapponese. Oggi, per dire, ho guidato per quasi sei ore, tre al mattino e tre alla sera.

La prima metà era poco prevista e un po’ improvvisata: invece di prendere la statale comunque tortuosa che porta da Iya alla valle e poi all’autostrada per Kochi, ho preso la strada del passo Kyobashira, una specie di mulattiera che ogni tanto, incredibile per qui, aveva persino dei tratti con le buche.

In pratica, abbiamo percorso trentacinque chilometri in un mondo magico, fatto soltanto di boschi e di montagne – e di cantieri, perché comunque qui anche sulle strade più sperdute rifanno continuamente ponti e carreggiate – però a 20-25 orari massimo, perché la strada è a una sola corsia, con qualche raro punto di incrocio, ed è larga poco più di una macchina, ed è senza guard rail, perché questa è una società selettiva e se sbagli muori e va bene così.

Sulla discesa poi abbiamo incrociato i primi borghi agricoli di mezza montagna, e siamo rimasti fermi in attesa di un cantiere, e poi in coda dietro camion e camioncini vari, e anche se loro accostano appena possibile quando vedono dietro un veicolo più veloce, ci abbiamo messo tutta la mattina per arrivare a Kochi; e ci siamo fermati solo a metà foresta, per ripiantare il fiore che ci ha regalato il padrone di casa e non lasciarlo morire così, e al passo, 1100 metri di altezza, per fotografare la fila infinita di montagne rotonde che si perdono nella nebbia, e il cartello “attenti agli orsi”.

Dalle cinque alle otto, dopo le visite in città, altre tre ore o quasi: da Kochi a Matsuyama non per l’autostrada, perché in autostrada stanco così mi addormento e mi ammazzo, ma per la ben più breve ma più tortuosa statale 33. La prima ora è stata terribile, avremo fatto sì e no trenta chilometri in mezzo al traffico della periferia: perché qui ogni angolo piano è coperto di case, e fuori dalle autostrade si viaggia tutti a velocità inconcepibilmente lente (pure in autostrada, eh: il limite spesso è di 80, ma nei tratti più pericolosi diventa 50) anche se poi tutti sforano abbastanza, e vorrei vedere. Però, fin che sei in zona abitata sei incolonnato nel traffico, dietro a dozzine di kei car dalla targa gialla con il motore di un Ape Piaggio e il nonnino alla guida, e le strade sono tutte irreggimentate, con corsie separate per qualunque cosa, semafori infiniti per dare tempo a tutti, e ovviamente nessun parcheggio, che qui in strada non si può parcheggiare.

A un certo punto, però, di botto finiscono le case e si entra tra i monti e si passa dal giorno alla notte (anche perché è tramontato). Improvvisamente non c’è più nessuno, e si corre a velocità folli, 60, 70, talvolta (nelle gallerie della statale) anche 80, pazzesco. Nel buio si intravvede una diga e poi un immenso lago artificiale, e si segue la valle fino a scollinare, attraversando paesini sempre più spopolati, al punto che puoi fare una sosta pipì davanti a un gruppetto di case, tanto sono tutte abbandonate con l’erba sopra le finestre. Si corre e infine si sbuca verso la piana di Matsuyama, dall’altro lato dell’isola, dalla costa oceanica a quella interna, e dall’alto dei tornanti si vedono le luci della pianura di nuovo piena di case fino all’orlo, e infine si arriva in una città piuttosto grande, con un affollato quartiere di night club e tutte le scene tipiche, tipo il quarantenne impiegato in vestito nero e camicia bianca in giro con la ventenne scosciata coi tacchi alti, combinati chissà come e a che prezzo.

Tutto questo è per dire che il Giappone è una moneta con due facce, e gli occidentali in genere ne conoscono soltanto una: quella superiore, quella delle città luminose e tecnologiche, delle strade impossibilmente affollate, dei microappartamenti pigiati. Dall’altro lato, però, c’è il resto: come e più dell’Italia fatto di mari e di monti, di zone abitate da pochi umani, molti animali e moltissimi misteri, perché rimaste arcaiche e ben più selvagge delle nostre. In mezzo, c’è un buco rotondo che le collega e le risucchia, e fa passare l’aria e gli spiriti dall’una all’altra.

Ed è così che immerso nel bagno bollente delle dieci e mezza, al tredicesimo piano del mio albergo, la testa all’aria aperta e il corpo sotto l’acqua, fissavo il pezzo di cielo che dava su di me e pensavo che ci sarebbe ancora molto da dire, ma ora ho veramente sonno; buona notte.

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martedì 12 Settembre 2023, 21:10

Nel vento del tempo

Tornare bambini ci rende felici, dice oggi lo spot del Mulino Bianco. Ma è falso; e lo dimostra il fatto che oggi è il mio compleanno, e il compleanno è la festa dei bambini per eccellenza, e io non sono particolarmente felice. Sarà che mi ricordo le tristezze dell’infanzia e dell’adolescenza, o che anticipo quelle della vecchiaia; ma tutte le storie che scrivo, che come noto non leggerete mai, contengono sempre, e senza particolare pianificazione, un compleanno triste, talora straziante.

In fondo, il compleanno è uno specchio forzato dal tempo; e ogni tanto, mentre viaggio, io cerco di catturare il mio riflesso (qui a Londra, lo scorso novembre). Non riesco però bene a metterlo a fuoco; so solo che c’è qualcosa di destrutturato e fatto a pezzi, un po’ come l’Internet del mio saggio. È un periodo di scioglitudine, di spezzatino del sé e di accesso a parti interiori che sarebbe stato meglio lasciar macerare nel buio. È un’esperienza di vita; ma una poco piacevole.

In tutto questo, però, vi ringrazio di cuore per gli auguri. Spero prima o poi di potervi donare qualcosa in cambio, qualcosa che sia bello e luminoso; non so però se ne sarò mai capace. Se ognuno di noi ha un talento, il mio ancora non mi è chiaro; lo cerco e non lo trovo. Dev’essere il talento nel bucarsi i vestiti e le gomme da solo, nel restare a terra persino volando e nel volare ovunque senza mai andare da nessuna parte. Dev’essere il talento nell’entrare nei tunnel senza più uscirne, e nello strappare di notte le tele che i ragni delle mani tessono di giorno; dev’essere la lama di non poter essere, estratta da un fodero laccato e piantata dietro un orecchio come un gioiello tagliente. Dev’essere un autunno incombente e perenne, pieno di aceri rossi e morenti che chiedono perché; una cascata che sommerge e costringe all’apnea persino nell’aria pulita. Tutto questo è una descrizione accurata, eppure fantastica; e non c’è nulla di più reale per noi di ciò che immaginiamo, tra i nervi e i segnali di un misterioso calcolatore di carne.

Quindi, grazie, e forse ci sarà un anno prossimo, speriamo; con occhi sempre più miopi e vecchi, ci rivedremo di nuovo nel vento del tempo.

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mercoledì 6 Settembre 2023, 17:01

Una serata altrove

Insomma, finisco di lavorare e sono le sette e mezza di sera, che è come dire le nove, e qui l’ora di cena è agli sgoccioli; e non ho tanta fame ma qualcosa mangerei, certo però non il cibo dell’albergo. Così, dopo rapida ricognizione, esco a valutare un paio di posti qui in giro, nel villaggetto di case basse che sta dall’altra parte dello stradone, quella verso l’interno, quella opposta a questa fila infinita di albergoni da spiaggia di tutte le catene del mondo, nessuna esclusa.

Attraverso la strada – è la parte più pericolosa – e seguo il marciapiede, e poi mi infilo in un vicolo sul retro e finisco nell’altra via, una ex stradina di campagna circondata da case basse in cui la gente sopra abita e sotto fa cose, anche se la popolazione principale è dei motorini. E anche guardando non capisci cosa facciano, però la zona è turistica, quindi la metà sono bar e posti da cibo, ma sono tutti deserti.

Alla fine arrivo a quello che mi interessava, ed è deserto; l’ora è tarda, è buio, e non è stagione, e insomma non c’è nessuno tranne loro, la famiglia. Qui tutto è a conduzione familiare, quindi lo è anche questo caffè ristorante, con un menu stampato bene in tre lingue, vietnamita inglese e coreano. Sono una mezza dozzina o più, di cui la mamma è il capo, e un ragazzo ventenne che parla l’inglese molto bene, e una sorella più giovane, e poi qualche parente, e un’infilata di bambini imprecisati. Sono seduti in strada attorno a un tavolo di plastica, e chiacchierano per far passare la serata, come si faceva d’estate anche da noi una volta.

Così, il ragazzo mi fa sedere nel salone che dà sul fuori, ed è deserto; c’è anche un certo tentativo di arredamento, che gli stranieri se no si spaventano, e c’è un bancone da bar, con sopra improbabili ma vere bottiglie di Jack Daniel’s e sciroppi Monin, e pile di calici con sopra la polvere di almeno un paio di generazioni. Il ragazzo mi porge il menu, poi prende due ventilatori grossi come un frigorifero, e me li spara addosso dai due lati, schiacciandomi nella tormenta come un panino.

Io guardo il menu, questo è un caffè, ci sono pochi piatti ma saranno buoni, e prendo un mi quang, che è tipo il pho ma con meno brodo e tiepido, adatto all’estate. Gli chiedo se devo prendere altro, ma mi dice che una cosa basta, che qui le porzioni sono grandi (è così ovunque). Prendo anche una birra, ovviamente la birra vietnamita originale, la Larue, che però ha praticamente lo stesso logo della Tiger, la birra singaporthai che qui passa per un nettare; e gli dico due parole, che vengo dall’Italia, che vado via tra poco.

Così aspetto la mia ciotola, e giochicchio col cellulare, e arriva un bambino: avrà cinque o sei anni. Mi si ferma a fianco e mi fissa, e insomma non è che non siano mai passati occidentali da qui, ma dev’essere comunque uno stupore; e io guardo lui, e quegli occhi asiatici che a noi sembrano sempre strabici, e quello stupore che non sappiamo più di avere dentro. Non c’è gran modo di comunicare, e poi lui va via subito, e arriva il mio piatto.

Ovviamente è ottimo, come tutto il cibo qui, e ha questi spaghetti bianchi e piatti che si gonfiano nel brodo, e delle fettine di manzo, e di contorno un’insalata e la salsa di pesce fortissima che qui si mette su tutto. Me lo mangio tranquillo, anche se il bambino riappare, ma poi si mette a giocare con un’altra bambina, e corrono di qua e di là per la sala e giustamente nessuno ci fa caso, perché questa in fondo è casa loro, e so che dietro c’è la cucina e sopra le camere e la loro vita intera scorre qui, in una strada di periferia di Da Nang, sotto la montagna dell’acqua e dietro uno stradone di turisti che corrono anche loro, ma senza sapere bene dove andare.

I bambini invece vanno avanti e indietro, e alla fine spalancano le porte di legno lucido che danno sul retro, e io mi giro pensando di vedere la cucina, ma in realtà vedo la nonna, cioè, il butsudan della nonna, con una fotografia in bianco e nero di una vecchina vecchissima che non c’è più da tempo e una candela tra le offerte di cibo, e un pugno di riso per non dimenticare. Ma è un frammento di vita altrui che si apre, ed è un bel vedere, certo a chef Barbieri non piacerebbe, e sulla nonna metterebbe un topper, ma siamo qui per fare cena e ringraziare, e per una sera saper di vita vera; e brucerei senz’altro il cellulare, e le recensioni su Google dei locali, e tutti gli aspiranti Masterchef in ogni pizzeria d’Italia, per poter andare fuori anche da noi com’era prima, semplicemente da qualcuno che ti offre le cose di casa perché tu possa essere sazio, e continuare contento la tua vita.

Alla fine prendo il conto, che fa centotremila, e arrotondo a centoventi; sono comunque cinque euro scarsi. Saluto, e non ci rivedremo, però grazie; grazie anche al karaoke cinese stonato della casa poco più avanti, e alla gente su un patio aperto che guarda la televisione, e al buio appena illuminato dei lampioni, in un posto in cui fa caldo, sempre.

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sabato 2 Settembre 2023, 13:33

Un vero Vietnam

E insomma, se non mi è venuto un collasso oggi… Era una giornata libera e volevo andare a vedere le parti più lontane di Da Nang, così ho preso un Grab fino alla gigantesca statua della Buddha femmina sulla collina sul mare (Grab è l’Uber del sud-est asiatico e funziona benissimo, in un paese quasi privo di trasporti pubblici come questo non ha alternative).

Sulla strada, però, ho visto un grosso tempio di Buddha, la spiaggia, il porto galleggiante dei pescatori e un sacco di panorami, e così ho guardato la mappa, ho visto che erano quattro chilometri in discesa e salutata la statua mi son detto: andiamo a vederli facendo una passeggiata, così risparmio anche sul ritorno. Solo che invece di partire dall’albergo alle otto ero partito alle undici, e il cielo era coperto, quindi non avevo nemmeno preso l’ombrello; e quando ho iniziato la passeggiata era l’una e mezza e non c’era più una nuvola, c’erano 35 gradi, umidità al 200 per cento e sole a picco.

Mi sono ritrovato così su una statalona a curve a mezza costa sul mare che, avevo visto, non aveva marciapiede ma aveva un’ampia corsia-banchina tracciata sul lato; ho capito solo dopo che per loro è una corsia riservata per le centinaia di motorini e moto che viaggiano ovunque e comunque con 2-3-4 persone sopra, Napoli style. Quindi ho fatto delle belle foto ai panorami ma ho rischiato la vita a ogni curva cieca, e quando sono finalmente arrivato all’inizio della città e del marciapiede ho ringraziato qualunque santo preghino qui, ma ero già sciolto.

E sì, è vero che persino in mezzo al nulla, ogni qualche centinaio di metri, c’è un tizio steso sotto una palma che vende bibite: in queste condizioni, dev’essere una specie di presidio sanitario pubblico. Però, avrei dovuto spendere quei 20-30 centesimi di euro, solo per la mia debolezza nel soffrire il caldo, e quindi non me lo sono permesso. Ho invece tirato avanti con una marcia automotivata di tipo militare e ho avuto successo, però ho capito molte cose, e anzi ora mi sorprende che gli americani abbiano resistito per un decennio.

Comunque, alla fine sono arrivato alla passeggiata sul mare, e sedendomi ogni tanto (quando mi girava troppo la testa) ho fatto le foto alla spiaggia e ai navigli dei pescatori (tantissimi, sembrava un’isola greca tipo Fistfakòs) e infine sono arrivato lì, al tempio di Buddha (qui son tutti templi di Buddha, a parte la cattedrale francese). Come vedete, ero abbastanza cotto e accecato dal sole da non riuscire nemmeno a fare la foto dritta; poi sono entrato e il testo non l’ho visto, perché era totalmente deserto (chi cacchio va al tempio alle due del pomeriggio col sole a picco?) ma guardato da un cane randagio.

Ora, chi mi conosce meglio sa che intimamente ho un’identità di volpe, e notoriamente tra volpi e cani è come tra italiani e francesi, si è parenti ma non ci si sopporta. Infatti il cane si è messo a ringhiare, e siccome la rete è piena di storie di turisti che a Da Nang sono stati morsi da cani randagi, io mi sono limitato al cortile, che tanto era pieno di draghi (qui adorano i draghi ancora più che in Cina).

Me lo son visto per bene, poi ho chiamato il Grab per ritornare. Ho rischiato la vita in molti modi, ma effettivamente ho risparmiato: quattro euro invece di sei euro e cinquanta.

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