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Archivio per il mese di Giugno 2015


martedì 30 Giugno 2015, 21:46

L’Agenzia delle Entrate alla prova del Web

Penso che pochi ormai non abbiano avuto l’esperienza di usare il sito dell’Agenzia delle Entrate, un mostro a nove teste a confronto del quale il sito Trenitalia è un capolavoro di usabilità; io ne ho parlato varie volte su Facebook e ho scoperto che tanta gente ci sbatte la testa ogni giorno. Stasera, però, si sono superati: e quindi vi invito con me in un piccolo viaggio nell’orrore digitale.

Oggi mi è arrivata a casa una lettera dell’Agenzia: è un controllo sulla mia dichiarazione Unico 2013. Vogliono che gli mandi dei documenti a riprova di ciò che ho dichiarato, e specificamente il CUD (ma possibile che non ce l’abbiano già?) e la certificazione dei versamenti nella pensione integrativa. Allegato alla lettera c’è un intero foglio che presenta il servizio telematico CIVIS, utilizzabile per inviare i documenti in via telematica, spiegando come arrivarci dalla home del sito dell’Agenzia, e aggiungendo che non sarà affatto difficile: “Il sistema è costruito in modo tale da guidare l’utente nella procedura”.

Bene, ovviamente è una perdita di tempo, ma sono solo due documenti; uno è già in elettronico, l’altro lo scansiono al volo, e poi mi collego al sito. Apro una pagina a caso del sito dai preferiti, cerco la voce “Servizi on line”… non c’è. Torno alla home, la voce appare in alto, clicco, ora mi dicono di cercare “Servizi con registrazione”: non c’è. Ci sono alcune voci, intuisco che devo cliccare invece su “Servizi fiscali”, e solo allora appare una pagina con “Servizi con registrazione”: si son dati la pena di stampare e inviare istruzioni “passo passo” sbagliate.

Ora devo cercare “CIVIS – presentazione documenti per il controllo formale”. Clicco su “Civis”: non appare alcun menu, ma un muro di testo con sotto un pulsante “accedi al servizio” (e secondo te cliccando su “Civis” cosa volevo fare?). Riclicco, e viene fuori una pagina in cui non c’è alcuna voce “presentazione documenti per il controllo formale”:

Solo dopo un po’ di bestemmie e di clic a caso mi rendo conto che io ho acceduto al servizio, ma il menu di sinistra non si è aperto alla voce “Civis”, bensì alla precedente voce “Comunicazioni”, che non c’entra niente. Ringraziando per il baco, clicco anche a sinistra su “Civis” (è la terza volta che clicco su “Civis”) e finalmente arrivo alla home giusta, col sottomenu giusto… ma nemmeno qui c’è la voce “presentazione documenti per il controllo formale”.

Ma come per magia, se cliccate sulla seconda voce (che non c’entra niente), ovvero “Assistenza per cartelle di pagamento”, l’ultima voce del sottomenu cambia e diventa appunto “Presentazione documenti per il controllo formale”:

Ma solo se cliccate sulla seconda, eh, che se cliccate invece sulla terza il menu cambia ancora, la voce che serve a me sparisce, e in compenso ne compare una nuova in mezzo, portando le opzioni disponibili a sei:

Ok, comunque ho capito che la voce che serve a me è l’ultima, al di là del fatto che cambi nome a ogni clic. Ci entro e viene fuori una sobria e immediatamente comprensibile pagina di benvenuto nella procedura di invio documenti; del resto, “Il sistema è costruito in modo tale da guidare l’utente nella procedura”.

La prima voce rimanda nientepopodimeno che a un manuale di istruzioni. Ma che istruzioni serviranno? Devo inviare due PDF, sapete quel formato che usa tutto il mondo per scambiarsi continuamente documenti. Invece ci sono una pagina e mezza di istruzioni che vi invito a leggere se volete farvi del male: sono una perla di tecnicismi inutili, convenzioni superflue (ma che te frega di come chiamo i file? rinominateli tu dal tuo lato) e suggerimenti incomprensibili al 99% degli italiani. Comunque, capisco subito che sarà durissima in quanto non va bene un normale PDF, ma ci vuole un “PDF/A (PDF/A-1a o PDF/A-1b)”: chiaro no?

Mi accingo dunque a provare col primo documento: è una pagina scansionata in PDF. Non fidandomi, decido di provare la “Funzione di validazione e conversione file”. Clicco, e appare un modulo in cui posso inserire un file, corredato da una tendina “descrizione allegato” che però non permette di descrivere il file, ma ha solo due opzioni disponibili: “PDF/A” e “TIFF”. Già, perché capire da soli che tipo di file sto inviando, tra ben due possibilità, è un compito tecnico oltre la portata dei programmatori dell’Agenzia dell’Entrate.

Mando il file e… non va bene: mi risponde che “Il documento utilizza caratteristiche non idonee alla conservazione nel lungo periodo”. Cosa voglia dire non si sa, come rimediare nemmeno; ah no, guarda che gentili, c’è una comoda opzione “Converti”. Bene, ci clicco e… mi dice “non è stato possibile effettuare la conversione del file”. Mapporc… è un banalissimo PDF di una pagina!! Creato dall’anteprima del Mac, come i PDF di mezzo pianeta!

Va bene, allora proviamo col TIFF. Apro in Anteprima, salvo in TIFF: 8,5 MB… ma come avrete letto nelle istruzioni, il limite è 5 MB. Ok, riapro, e scalo l’immagine (tutti i contribuenti italiani sono esperti di manipolazione delle immagini, quindi questo non è un errore di usabilità). Ottengo un file di 4,8 MB, che peraltro è appena leggibile. Provo a validarlo, aspetto che carichi, carica, carica, e… “Il file sottoposto a validazione non è un TIFF valido.”

Ma come, non è un TIFF valido? Ma che razza di problemi può avere un TIFF? Comunque, anche qui propone di convertire. Converto? Non ho molta fiducia, ma tentar non nuoce, e… miracolosamente ce la fa! Non allego i file perché ci sono dei miei dati personali, però il nuovo file TIFF è passato da 4,8MB a 15KB, bicolore, ed è molto malamente leggibile: ho il dubbio che poi, mandandolo, mi diranno che non è leggibile; ma se lo son fatti loro…

Bene, quindi ho caricato il primo file e posso passare al secondo? No, perché nella schermata che viene fuori c’è scritto… cioè, non c’è scritto niente, se non un solo pulsante: “SCARICA”. Cioè, non è che si son già presi il file: adesso io devo SCARICARE il loro nuovo file per poi cliccare e RICARICARE lo stesso file nel modulo successivo!! Giuro, ho fatto lo screenshot perché non ci potevo credere…

Comunque, ora posso passare al secondo file: il mio CUD. E’ già in PDF, generato dai sistemi informativi del Comune di Torino. Provo a caricarlo così, e ovviamente non va bene: “Il documento utilizza Profili Colore con caratteristiche non idonee alla conservazione nel lungo periodo”, e inoltre non è possibile convertirlo. Lo salvo in TIFF? Ok, ma sono quattro pagine: 34,7 MB, e ridurlo sotto i 5 MB non è più così facile (è complesso da fare anche per me). Provo a ridurlo un po’, ma il minimo perché sia leggibile sono 8 MB. Bene, visto che la conversione lo riduce di 200 volte, me lo ridurrà lui, no? No. Aspetti tutto il caricamento e poi ti dice: “File superiore a 5 MB”.

Allora mi viene un’idea: sul portatile non ho alcun programma per generare dei PDF/A; li fa Openoffice, ma solo partendo dal testo di un documento, non da un PDF già bello e pronto e pieno di grafica. Però, possibile che non ci sia un convertitore da PDF a PDF/A online? C’è: è questo. Carico il PDF del mio CUD (cioè, non è una bella cosa dare il mio CUD al primo sconosciuto in giro per la rete, ma se non ho alternative… grazie, Agenzia delle Entrate!), scelgo PDF/A, aspetto la conversione, scarico, metto nel validatore… e non gli va bene lo stesso: “Il documento utilizza font con caratteristiche non idonee alla conservazione nel lungo periodo”. Però stavolta, premendo “converti”, ce la fa. Alleluia!

Ok, allora passiamo a “Invio documentazione”. Compare un modulo, compilo il primo campo, compilo il secondo, compilo il terzo… e solo alla fine c’è scritto che posso compilare solo il terzo. Ma scrivetelo in fondo, eh! (però ci sono due asterischi vicino al nome di ogni campo, come ho fatto a non capire che era una nota da leggere subito)

Invio il modulo, apprestandomi a caricare i file, e invece no: a questo punto (a due terzi della procedura) il sistema decide che io non ho ancora verificato la mia mail. Cioè, è la stessa mail che usano da anni tutti gli altri servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate, ma lui no, lui non ci casca! Mica è un babbo credulone come Fisconline, lui vuole la verifica della mail.

Clicco sul link di verifica, e invece di venir fuori una pagina di verifica, viene fuori la pagina per cambiare la propria mail. Ma io la voglio solo verificare! In più, al fondo c’è questo fantastico pezzo di modulo, senza alcuna barra di scorrimento, che voglio proporvi come un’opera di arte contemporanea perché lo merita:

Bene, inserisco i miei dati nella parte alta, invio, e cosa succede? Ricompare la stessa pagina di prima, però tutta la parte alta (dove avevo messo i miei dati) è bianca, mentre rimane, in fondo, l’opera di arte contemporanea qui sopra; e non si capisce cosa fare. Qui siamo oltre, oltre i confini della galassia umana…

Allora torno indietro, e mi dice che i dati sono ancora da validare. Sta a vedere che non ha preso niente? No, in realtà riclicchi e ti chiede di inserire dei codici di conferma che nel frattempo ha inviato alla mail e al telefono. Sulla mail è arrivato, sul telefono no, allora leggo meglio e specifica che il codice viene inviato “entro 24 ore dalla richiesta”. Dovrò aspettare domani mattina alle 9 perché una impiegata da Roma mi mandi l’SMS di conferma? Mi limito a validare la mail (lui risponde “VALIDAZIONE EFFETTUTA” senza una A) e tanti saluti.

Adesso, finalmente, posso inviargli i file che ho precedentemente scaricato dalla pagina a fianco. Eureka. Mi dà una ricevuta con una serie di codici, che devo stamparmi io. Quindi adesso, dopo che ho validato i contatti, mi scriveranno per dirmi se il controllo è positivo? Certo che no: c’è scritto di “Consultare successivamente la sezione Ricevute per l’esito delle elaborazioni.”

Tanto, in Italia nessuno ha alcunché da fare se non stare dietro all’Agenzia delle Entrate… Poi, però, qualche megadirigente ministeriale farà un report al Parlamento e dirà che, nonostante i fantastiliardi di euro pubblici investiti in appalti informatici, gli italiani non usano i servizi telematici dello Stato, perché sono arretrati e pigri e non hanno voglia di adeguarsi. Ma no, gli italiani non usano i servizi telematici dello Stato perché sono fatti in questo modo qui!

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giovedì 25 Giugno 2015, 15:28

La politica demenziale: PD e SEL contro Marco Carena

Quando avevo quindici anni, una compagna di scuola mi duplicò una cassettina con le canzoni di Marco Carena: e la consumai a forza di ascoltarla. Era il periodo del boom del demenziale, e per qualche anno i doppi sensi più o meno volgari e l’umorismo pecoreccio la fecero da padroni; fu un boom di cui rimase poco, a parte Elio e le Storie Tese (altro livello però). Marco Carena ha continuato onestamente la sua carriera musicale, riproponendo per venticinque anni quei brani su tutti i palchi di Torino e altrove; e anche se a quarant’anni fanno un po’ meno ridere, a me fa sempre piacere ascoltarli.

Per questo, quando stamattina ho aperto Facebook e ho visto la consigliera comunale del PD Laura Onofri, rappresentante del movimento femminista Se non ora quando, pubblicare il suo sdegno contro l’esibizione di Carena ieri alla festa di San Giovanni, mi son messo a ridere. Poi ho cliccato sul link, ho letto il comunicato delle femministe e ho pensato che fossero impazzite tutte.

E’ vero, ci sono due canzoni di Carena (le conosco a memoria) che contengono le frasi citate. Una si chiama Che bella estate ed è il racconto di una estate terribile in cui il povero vacanziero assiste a disgrazie e misfatti di tutti i colori: oltre alla ragazza violentata, ci sono un vicino di ombrellone sbranato dai granchi, un bambino corroso dall’acqua inquinata del mare, uno che si suicida nel porto… e però, in un ritornello comico e menefreghista, il protagonista conclude “che bella estate amore mio, ci sei tu ci sono io, ma che c’importa dell’altra gente, ci siamo noi non c’è più niente”. E’ palese a chiunque che si tratta di satira, proprio a proposito delle persone che vanno in vacanza fregandosene delle disgrazie di tutti gli altri, salvo poi scoprire che a forza di egoismo non rimane più niente.

Idem per la seconda canzone incriminata, Io ti amo. Che è, appunto, la storia di uno stronzo che si riempie la bocca di “ti amo” per la sua fidanzata e poi la maltratta in ogni modo. Basta leggere il testo per intero, ed è perfettamente chiaro che la canzone prende per il culo i maschi violenti e, anzi, denuncia l’ipocrisia con cui ci si dice “ti amo” per poi dimostrare tutto l’opposto nei fatti. E’ un gran pezzo di satira che comprende diverse battute fulminanti, tra cui “ti amo perché sei diversa / infatti ti confondo spesso”, o anche “io ti amo perché se no ti avrebbe amato un altro / ma ti amo, sono arrivato prima io”, che mette a nudo con spietatezza la vera dinamica sociale con cui si formano moltissime coppie.

E se ancora qualcuno avesse il dubbio che Marco Carena è un buzzurro maschilista, basta citare un’altra canzone che evidentemente le femministe non hanno sentito. Si chiama Bongustata e in essa è l’uomo a essere molto innamorato, mentre la donna lo maltratta in ogni modo, fino a chiuderlo a cuocere nel forno in mezzo alle patate – e lui, da dentro il forno, la avverte gentilmente che si è dimenticata il sale. Secondo la stessa logica, questo sarebbe un incitamento al maschicidio, che non rispetta la sensibilità dei maschi vittima di violenza domestica…

La consigliera Onofri e le sue compagne femministe, in questo thread su Facebook, si sono lanciate in pacati commenti: si sono lamentate ad esempio che l’assessore Gallo non sia salito sul palco per staccare la spina personalmente a metà dell’esibizione, chiedendo che l’eventuale compenso di Carena sia sequestrato e dato (chissà a chi) per “progetti contro la violenza sulle donne”. Poi hanno aggiunto frasi come “prima di esibirsi non ha dovuto presentare una scaletta? È prassi consolidata” e “vergognoso che Carena ha potuto cantare quelle frase CONTRO le donne, nessuna le aveva lette prima della spettacolo per impedirle di cantare!!” (certo, è prassi consolidata che un artista debba dire prima ai politici parola per parola cosa dirà dal palco: nella Romania di Ceausescu, presumo) e persino “I suoi testi sono su YOUTUBE. Vanno rimossi dalla rete. Li ho citati dopo purtroppo averli ascoltati quindi non riascoltateli altrimenti il soggetto per sa di incrementare la sua audience.” (sono senza parole).

Solo qualcuna, con un po’ di buon senso, spiega che sono canzoni vecchie di venticinque anni e aggiunge “forse all’epoca non lanciava un messaggio così negativo come adesso che la violenza sulle donne è così manifesta” (non direi, se mai è che venticinque anni fa la politica mangiava uguale, ma almeno non era piena di censori bacchettoni e di sentinelle in piedi e/o con la tastiera in mano).

La cosa più preoccupante, però, è che sono subito apparsi i vigili politici anti-satira. Il capogruppo del PD Michele Paolino si è limitato a un “mi piace”, ma il capogruppo di SEL Michele Curto ha subito promesso vendetta: “oggi stesso verifico con un atto interpellativo: interpellanza/richiesta di comunicazioni”. L’assessora di SEL Mariagrazia Pellerino si è lanciata in una lirica condanna di Carena: “quelle parole sono un’apologia di reato, un inno alla violenza contro le donne, come se qualcuno cantasse l’emozione provata a fare del male al prossimo”. L’assessora PD Ilda Curti è scatenata: “Siamo un’amministrazione in prima fila sul contrasto alla violenza e ‘sto qui sul palco di San Giovanni davanti a decine di migliaia di persone lancia questo messaggio? Mi viene caldo alla testa” (ok, che il caldo abbia dato alla testa a molti è palese), e prosegue: “i peggiori stereotipi machisti e buzzurri”, “quelle strofe offendono e mi fanno infuriare”.

A questo punto la cosa si fa seria, anche perché tutte queste persone erano in piazza a manifestare gridando “Je suis Charlie”, per cui ne consegue che per loro fare satira anche offensiva sul profeta dell’Islam è legittimo, ma non lo è fare satira sul rapporto di coppia denunciandone l’ipocrisia e la violenza (concetto, peraltro, che mi è appena stato ribadito di persona da un’altra consigliera della maggioranza).

Eppure queste sono le persone che governano Torino, ed è preoccupante scoprire che mancano di tante qualità fondamentali, a partire dalla capacità di comprendere il registro di un testo e di distinguere satira e sarcasmo dall’apologia di reato. Non manca loro solo il senso dell’umorismo, ma anche il senso delle proporzioni (questo sì che è il primo problema di Torino e/o delle donne che subiscono violenza: le canzoni di Carena), e la stima per l’intelligenza dei torinesi, dato che evidentemente pensano che una strofa di una canzone satirica che menziona uno stupro spinga le persone a stuprare, proprio come chi gioca ai videogiochi sparatutto poi va in giro ad ammazzare tutti. E, soprattutto, manca il rispetto per la libertà di espressione: Carena può non piacere, si può anche pensare che per San Giovanni fosse meglio un altro tipo di spettacolo, ma da lì a chiederne la crocifissione in Sala Rossa e il bando da tutti i palchi cittadini passa parecchio.

Per fortuna che Freak Antoni è morto e non può vedere questo scempio…

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venerdì 19 Giugno 2015, 23:00

Letzgo, rimborsami un caffé

Avevamo appena messo un punto fermo sulla vicenda Uber (rimando al post precedente per chi avesse ancora bisogno di essere convinto che Uber così com’è non va bene) ed ora ne arrivano i cloni: ecco Letzgo, il nuovo clone di Uber che però assolutamente non è Uber e non è un servizio taxi, eh! E’ solo un modo per condividere i propri spostamenti divertendosi.

Io vi consiglio infatti di leggere le FAQ di questo servizio, perché sono ricche di equilibrismi verbali che talvolta sfociano un po’ nel ridicolo; e se le cose, per poter essere scritte, devono venire raccontate in maniera inverosimile, vuol dire che qualcosa che non torna c’è davvero.

Letzgo non è un servizio taxi ma una comunità, dicono loro: difatti è il passeggero che sceglie quanto “rimborsare” all’autista, in piena libertà e amicizia, fatto salvo che l’app ti suggerisce lei il “rimborso” sulla base dei chilometri, che comunque il “rimborso” non ha limiti concreti e può anche essere di 30 euro per un viaggio di due chilometri, che se non “rimborsi” abbastanza l’autista ti può rifiutare il passaggio e anzi Letzgo ti caccia dal servizio, e che c’è persino quella che nei taxi si chiama “bandiera”, ovvero solo per farti salire in macchina il “non-tassametro” dell’app segna già un “rimborso” minimo di 1,90 euro. Ma il trasporto è a titolo gratuito, eh! Però devi sempre “rimborsare” almeno 1,90 euro per corsa.

E se vuoi fare il driver? Devi dichiarare nel contratto di “non essere un trasportatore professionale”, quindi non soggetto a orpelli del passato tipo tasse e contributi previdenziali; d’altronde è noto che chiunque può fare il dentista o l’avvocato a titolo di “non professionista”, e in tal caso non ha bisogno di titoli e può non pagare le tasse, basta dire che “non è una professione”. Se poi invece si scopre che lo fai per guadagnare sono tutti cavoli tuoi, noi di Letzgo non ti conosciamo proprio. E devi anche avere tu una assicurazione che copra i terzi trasportati “in amicizia”, noi di Letzgo non ne vogliamo sapere niente, se poi hai un incidente e l’assicurazione ti fa storie sono problemi tuoi e del poveretto che trasportavi.

Ah, e te l’ho detto che, in amicizia, devi darci il 20% dei “rimborsi” che ricevi?

E c’è di più: c’è un periodo di prova iniziale (non si sa prova di cosa, visto che “non è una attività professionale” e quindi non ha requisiti minimi), durante il quale noi non ti giriamo i “rimborsi” dei tuoi clienti, e se prima della fine della prova non ci vai bene ti cacciamo e ci tratteniamo “a titolo di penale amministrativa” il 100% dei “rimborsi” pagati dai tuoi clienti. E arrivederci e grazie eh!

Ora, io mi premurerò di parlare con questa azienda e magari mi convinceranno che veramente non vogliono fare un servizio di trasporto a pagamento su chiamata, ma una semplice piattaforma di condivisione delle spese per viaggi già programmati. Se questa è l’intenzione, però, c’è un modo molto semplice di chiarirla: mettano nell’app un limite massimo al “rimborso” fissandolo pari al 50% del costo chilometrico del viaggio, visto che si tratta di condividere le spese e non di farsi pagare per trasportare qualcuno sperando di guadagnarci; e aggiungano anche un bel pulsantone per segnalare rapidamente i driver che dovessero chiedere un extra in nero.

In questo modo potrò credere nella buona fede di Letzgo e sostenere il loro diritto ad esistere; altrimenti, mi spiace, ci stiamo solo facendo prendere tutti in giro un’altra volta.

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sabato 6 Giugno 2015, 20:43

Stasera c’è la partita

Ok, stasera c’è la partita (non c’è bisogno di dire quale). Sapete tutti che io sono tifosissimo del Toro, il che non mi impedisce naturalmente di augurare buona fortuna alla parte bianconera della città. Quella che probabilmente non conoscete, e che oggi vorrei raccontare per la prima volta, è la storia di mio nonno che giocava nella Juventus.

Mio nonno Renato, nato nel 1901, a diciannove anni divenne la promettente mezzala della Juventus, in cui giocò per tre stagioni. Era ancora l’epoca dello sport puro, praticato da ragazzi di buona famiglia come hobby, nel tempo libero dal lavoro o dagli studi (mio nonno studiava giurisprudenza all’università).

Nelle prime due stagioni fu riserva, ma mise comunque insieme cinque gol in nove presenze. Nel 1922-23 cominciò ad essere schierato con regolarità, e giocò diciannove partite segnando altri tre gol. Si prospettava dunque per lui una buona carriera da giocatore di livello nazionale, anche se all’epoca le cose erano ovviamente molto diverse da oggi.

Però, come gli storici del calcio sapranno, l’estate 1923 segna un evento fondamentale nella storia del pallone italiano: è il momento in cui la famiglia Agnelli assume il controllo della Juventus. Da lì, dicono gli storici, “nasce lo stile Juventus”: immediatamente gli Agnelli cominciarono, primi in Italia, a usare i loro soldi per sottrarre i giocatori alle altre squadre, pratica vietatissima. In particolare la pietra dello scandalo fu il terzino Virginio Rosetta, il cui ingaggio per soldi, una volta scoperto, costò alla Juventus sanzioni e sconfitte a tavolino.

Mio nonno fu schifato sin da subito da tutto questo, e così, a ventidue anni, mandò a stendere gli Agnelli e la Juventus e si rimise a studiare giurisprudenza, continuando a giocare qualche partita per passione in squadre rimaste fedeli allo spirito originario (in particolare il Novara).

Da lì in poi, per i bianconeri, furono ottant’anni abbondanti di vittorie in “stile Juventus”: per cui non posso che ribadire i miei auguri per stasera, e continuare a preferire il Toro.

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venerdì 5 Giugno 2015, 10:21

Se la politica sale in bicicletta

Negli ultimi anni, soprattutto per effetto della crisi, la mobilità dei torinesi è cambiata moltissimo; in primo luogo, le persone si spostano di meno (-15% in tre anni). Se negli “anni zero” aveva continuato a crescere la mobilità motorizzata, pubblica e privata, dal 2010 al 2013 è aumentata invece la mobilità ecologica, dal 28 al 34 per cento; il grosso sono gli spostamenti a piedi, ma la bicicletta rappresenta ormai circa il 4,5% degli spostamenti complessivi, contro il 48% dell’auto privata e il 18% dei mezzi pubblici.

E’ cambiata, soprattutto, la percezione pubblica della bicicletta. Se fino ad alcuni anni fa la bici era un mezzo da prendere solo per divertirsi la domenica coi bambini, e chi la usava per i normali spostamenti era considerato un pazzoide, oggi la bici è diventata, specie per le giovani generazioni, un mezzo di spostamento normalissimo. A questa diversa percezione pubblica hanno contribuito soprattutto i torinesi; non ci sono state campagne pubblicitarie e sovvenzioni per la bici privata, anche se sicuramente ha contribuito l’investimento pubblico nel bike sharing, ma la bici si è affermata per il passaparola sulle sue “tre E virtuose”: ecologica, economica, efficiente.

Ha contato certamente anche una manifestazione nata dal basso: il Bike Pride, che ogni primavera ha portato per le strade torinesi sempre più biciclette, a decine di migliaia, per chiedere il rispetto e l’attenzione che la nostra città, da sempre basata sull’automobile, ha sempre negato ai ciclisti.

Una simile mobilitazione non poteva certo passare inosservata alla politica. Domenica, infatti, si terrà la nuova edizione del bike pride, ma in maniera completamente nuova. La manifestazione, difatti, è stata inglobata dai Bike Days, una due giorni promossa dall’amministrazione comunale e generosamente sponsorizzata dalla Coop, con un ampio programma per grandi e piccini, interviste, ospiti famosi; ed è facile prevedere le paginate dei giornali torinesi con bagni di folla e foto sorridenti di assessori in bicicletta, e magari una nuova edizione del famoso video di Fassino terrorizzato che pedala per non più di duecento metri da Palazzo Civico.

Questa “istituzionalizzazione” del bike pride è un bene o un male? Beh, è sicuramente un bene che chi amministra la città dia un maggiore riconoscimento al mondo della bicicletta; il problema è se lo fa soltanto due giorni l’anno per propaganda, continuando a fregarsene nei fatti. Il bike pride è sempre stato un evento contro il potere, pieno di orgoglio e di rivendicazioni anche dure verso l’amministrazione comunale; non è che siano sparite, ma quest’anno la rivendicazione del bike pride è “un tavolo di discussione interassessorile sull’avanzamento dei lavori”, non esattamente un duro atto di accusa verso chi governa la città.

Negli anni, difatti, di promesse ai ciclisti ne sono state fatte moltissime, ma ne sono state mantenute ben poche; e lo dice un consigliere che sulla mobilità ciclabile lavora tutto l’anno (qui una recente interpellanza sugli attraversamenti delle piazze Rivoli e Bernini).

A fine 2013, con quasi quattro anni di ritardo sul piano della mobilità, è stato approvato dal consiglio comunale il “bici plan”, un documento che doveva rivoluzionare l’approccio dell’amministrazione comunale alle infrastrutture ciclabili. Grazie anche a una serie di nostri emendamenti, a pagina 21 del piano furono inserite delle linee guida che dovevano impedire la costruzione di nuove piste ciclabili “alla torinese”: quelle che, pur di non eliminare nemmeno un posto auto, consistono in una riga di vernice che divide a metà il marciapiede coi pedoni, che iniziano e finiscono nel nulla, che a ogni semaforo fanno uno zig-zag che richiede almeno tre fasi semaforiche, che hanno nel bel mezzo pali, edicole, benzinai, ostacoli di ogni genere. Inoltre, nel piano (pag. 142) fu inserito l’impegno a destinare alla mobilità ciclabile il 15% delle entrate dalle multe stradali, che vorrebbe dire tra i 5 e i 10 milioni di euro ogni anno, fino a completare il piano.

Di tutto questo, pur messo nero su bianco e approvato dal consiglio comunale, poco o nulla è stato mantenuto. I soldi non si sono visti; qualche intervento è stato fatto, ma per cifre molto minori, spesso grazie a finanziamenti preesistenti di altro genere; ad esempio la pista ciclabile di via Anselmetti, 750.000 euro per 1300 metri di pista nel nulla su un vialone di estrema periferia, è stata pagata da TRM come compensazione per l’inceneritore (ti avvelenano l’aria, però puoi respirarla meglio andando in bicicletta).

E’ stata fatta la pista in corso Novara, in maniera assurda, violando molti dei criteri di buona progettazione che ci si erano dati; però si è tolta quella in corso Galileo Ferraris per istituire nuovi parcheggi blu per le auto. Persino la famosa fermata del pullman installata nel bel mezzo della pista di lungo Dora Firenze, nonostante le promesse di pronto intervento, dopo due anni è ancora lì; la soluzione è stata di mettere un cartello per dire ai ciclisti di condividere il marciapiede coi pedoni.

Non molto meglio va su altri aspetti; insieme al bici plan siamo riusciti a far approvare una nostra mozione per realizzare un piano parcheggi per le biciclette, oggi spesso abbandonate a caso su pali e ringhiere; non si è ancora visto praticamente niente, nemmeno il parcheggio coperto alla stazione di Porta Susa più volte promesso.

Un sostenitore della mobilità ciclabile a fronte di tutto questo non può che sentirsi preso in giro; altro che patrocini e sponsorizzazioni. Non a caso, questa svolta ha spaccato il mondo associazionistico torinese. La maggiore associazione cittadina di ciclisti, Bici e dintorni, si è chiamata fuori con un duro comunicato, parlando di “parata con i finanziamenti pubblici”, e facendo notare che in tutte le altre città italiane le amministrazioni fanno “meno parate, e molti più fatti”.

Probabilmente domenica decine di migliaia di torinesi pedaleranno felici e inconsapevoli per le vie cittadine, e in fondo è giusto così. Certamente, questa storia è un bell’esempio di cosa sia la politica torinese di oggi: una macchina da propaganda, pronta ad attirare e inglobare al proprio interno qualsiasi istanza ma solo in superficie, pur di allinearla al potere e di far sì che, nella sostanza, tutto possa sempre continuare esattamente come prima.

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