Una giornata uuggiosa
È un po’ complicato spiegare come mai ho speso questi tre giorni in Polonia, un Paese la cui maggiore attrazione turistica è un campo di concentramento: certo non il massimo per attirare visitatori.
Comunque, avevo già preso il treno mercoledì, per andare a Lublino a vedere un altro lager famoso, quello di Majdanek; e chiedere allo sportello un biglietto per Lublin è facile. Il treno era nuovo nuovo, finanziato ovviamente dall’Unione Europea, pulitissimo, con tanto di wi-fi, prese di corrente e annunci bilingui; certo, dopo un’oretta si è piantato nel bel mezzo di una stazione nel nulla, in una Santhià polacca qualsiasi, e abbiamo dovuto attendere che trafelati ferrovieri di mezz’età dai baffoni stalinisti lo riavviassero due o tre volte: mezz’ora di ritardo. Il viaggio però è stato piacevole, verde sotto e grigio sopra, che il sole qui s’è visto solo in figura sulla livrea di treni locali di mezzo secolo fa, arrugginiti ma ripittati a nuovo per attirare i clienti come una coguara.
Diverso è, invece, recarsi allo sportello di Varsavia Centrale e riuscire a farsi dare un biglietto per Uugg-Vizzèff. Ho deciso di scriverlo come si pronuncia perché lo spettacolo d’arte varia di uno straniero che cerca di pronunciare Łódź-Widzew dev’essere uno dei primari divertimenti delle attempate impiegate della biglietteria, anche se loro se ne fregano e preferiscono concentrarsi nell’attesa delle loro antiche stampanti ad aghi. Comunque, io ci sono riuscito al primo tentativo, senza dover usare materiale scritto, e ne vado molto fiero.
Ora, se voi siete italiani conoscerete senz’altro Uugg-Vizzèff per un solo motivo: Vizzèff, difatti, è il quartiere di Uugg dove ha sede la principale squadra di calcio cittadina, protagonista di memorabili sfide europee con la Juve quando eravamo bambini. In realtà è piuttosto in periferia, tanto che fuori dalla stazione vi sembrerà di essere atterrati alla Falchera Nuova (in realtà l’intera Polonia, centri città compresi, sembra la Falchera Nuova: potere dell’urbanistica comunista). La stazione in centro città, che si chiama Uugg Fabbrica e già questo vi fa capire molte cose, è chiusa per rifacimento generale, per cui bisogna scendere qui e farsi un quarto d’ora di tram, comprando i biglietti a gesti dalla giornalaia.
Avrete dunque capito perché sono venuto qui: Uugg fino a metà Ottocento era un piccolo villaggio agricolo, poi arrivarono le fabbriche e le ferrovie e diventò l’archetipo del capitalismo delle filande. Non c’è niente da vedere a Uugg, se non fabbriche ottocentesche parte in rovina e parte ristrutturate, e una lunga strada di begli edifici art nouveau decimati dai russi e dai tedeschi, nel senso che i bombardamenti ne hanno tirati giù nove su dieci e ora ti vedi uno di questi palazzi in mezzo a “rimpiazzi” comunisti nel suddetto stile da periferia popolare, dei casermoni nati dalla collaborazione ideale tra Le Corbusier e Stalin che potranno essere portati come prova al loro processo per crimini contro l’umanità.
Comunque, per chi si interroga di politica ed economia vedere un po’ di luoghi del capitalismo otto e novecentesco è imprescindibile; si parte da New Lanark, dove nacque il capitalismo paternalista, e si finisce con Gary nell’Indiana, città natale di Michael Jackson e di due diversi premi Nobel per l’economia, ora ridotta a un raccapricciante deserto di rovine che ti fa pensare che se due diversi premi Nobel per l’economia non riescono nemmeno a salvare dalla distruzione la propria città natale allora vuol proprio dire che l’accademia economista moderna ha grossi problemi.
Anche la visita a Uugg è impressionante; in particolare io mi sono concentrato su Xsiesjuimuìn (ripeto, scrivo come si pronuncia e concludo che la pronuncia del polacco potrebbe essere considerata una tortura ai sensi della convenzione di Ginevra) che sarebbe una specie di grosso Villaggio Leumann in via di ristrutturazione; c’è un quartiere operaio fatto di case a due piani di mattoni rossi in cui gli operai potevano avere vasti appartamenti da 30 o 40 metri quadri per loro e i loro otto figli, inframmezzato da negozi aziendali in cui comprare il cibo; dall’altra parte c’è la fabbrica, un gigantesco monolite degli stessi mattoni rossi, immenso, enorme, sovrastato dall’orologio, il re indiscusso delle vite di migliaia di contadini inurbati a fare gli operai; e infine, su un lato, l’elegante palazzo neoclassico, bianco e pieno di statue, dove abitava il padrone.
Questa è la parte recuperata; le case sono diventate appartamenti moderni, la fabbrica si è riempita di uffici, il palazzo è un museo che ospita la collezione di quadri che fu del padrone; ho cercato invano l’ipermercato autorizzato col decreto sviluppo ma qui non c’è, strano, bisogna dire a Lo Russo che qui non hanno capito niente di come si riqualificano le aree industriali.
A fianco, comunque, ci sono ancora intere aree diroccate, in cui sopravvivono solo le facciate senza i tetti, e lì un paio di ipermercati li potrebbero ancora fare. Il contrasto, comunque, colpisce; il capitalismo crea e il capitalismo distrugge, e intere aree di Uugg sono discariche del capitalismo ottocentesco che il comunismo ha solo lasciato agonizzare (d’altra parte se qui ci fossero ancora i comunisti i polacchi oggi telefonerebbero ancora con il Sirio, e non credo che ne sarebbero contenti).
Certo, però, questo è il posto giusto per riflettere sui cicli del capitale e del lavoro. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, la Polonia era la Thailandia del momento; gli investitori esteri, tedeschi e inglesi, insieme a qualche imprenditore locale, ebreo polacco, spostarono qui le fabbriche tessili che nei paesi europei più ricchi erano nate qualche decennio prima, delocalizzando per trovare un costo del lavoro più basso; e qui le poterono sistematizzare su scala enorme.
Qui, dunque, ogni mattone è sangue; perché le condizioni di lavoro nelle filande dell’Ottocento erano terribili, e tutti, compresi i bambini, lavoravano dall’alba al tramonto su macchinari primitivi e insicuri, con tassi di infortuni e di menomazioni altissimi. Oggi condizioni di lavoro del genere non si possono nemmeno più immaginare, grazie al movimento sindacale operaio socialista e comunista che si sviluppò nei decenni successivi; o meglio, non si possono nemmeno più immaginare in Europa, e quindi le abbiamo esportate in Asia.
Il recupero filologicamente corretto di queste antiche fabbriche, invece della loro demolizione e sostituzione con brutti fabbricati moderni, è anche un modo per onorare e ricordare questi sacrifici, e insieme l’eterna e sempre valida tenzone di punti di vista contrapposti sul progresso economico capitalista, per cui c’è chi ci vede più sfruttamento, più sacrificio ingiusto a vantaggio di pochi arricchiti, e chi invece ci vede più opportunità, più strumento che comunque dopo i sacrifici concede benessere e progresso un po’ a tutti (è su quell’ “un po’ a tutti” che si è attualmente incartata l’economia occidentale).
Dev’essere per questo che da noi si preferisce radere al suolo o al massimo convertire la fabbrica in ipermercato, e la produzione in consumo, come se ci potesse essere consumo senza produzione. Eppure anche noi abbiamo storie operaie terribili e dimenticate, per esempio quella delle fiammiferaie di Rocca Canavese; anche noi avremmo antichi luoghi di produzione da rendere nuovi.
Io mi rivedo spesso la scena di un consiglio d’amministrazione del Politecnico di metà anni ’90, in cui tutti i professori ingegneri da Zich in giù indicavano col dito gli antichi fabbricati delle officine ferroviarie da abbattere per costruirci il raddoppio, secondo un progetto di anonimi cubi mi pare di Gregotti, e fu uno strano asse tra me studente e Vera Comoli a premere per salvarne almeno una parte, quella dove oggi c’è l’Istituto Boella – e insomma, col senno di poi, avevamo proprio ragione. Ma quante robe industriali ottocentesche sono state tirate giù ancora in questi anni – stazione Dora, la più antica stazione ferroviaria di Torino, per dire – per lasciarne magari su un moncone, una beffarda ciminiera trasformata in reggi-insegna di supermercato?
La logica del soldo edilizio facile ha prevalso sulla memoria e sul suo significato, in un’orgia futurista di nuove economie sottili come una speculazione di Borsa. Eppure, più il mondo è globale e più chi non ha memoria e non ha identità è destinato a soccombere, a venire assimilato in un nulla di non-luoghi e di consumi da schiavo. Qui o altrove, vedere le fabbriche ci ricorda cos’è stata l’epopea dell’Europa industriale; e senza conoscerla, è difficile immaginare davvero un futuro.