Se votare servisse a qualcosa
Oggi trecento milioni di americani vanno al voto per scegliere se farsi governare da un cretino sessista o dalle banche. Comunque vada, il risultato vero è ben riassunto da questo grafico, che mostra come i nati negli anni ’70 e ’80 comincino a pensare che tutto sommato una dittatura non sarebbe poi così male.
Il sondaggio viene da uno di quei paper fatti per stupire, visto che per essere classificati come amanti della dittatura bastava dare soltanto nove punti su dieci in risposta alla domanda “quanto è importante per te vivere in un paese democratico”. Ma l’articolo che lo presenta riassume bene il problema: la sensazione crescente nelle nuove generazioni è che chi cambia il mondo lo faccia tramite la propria professione o il proprio attivismo sociale, nonostante e non grazie alla politica e allo Stato, mentre la democrazia sia diventata semplicemente un costosissimo e infinito generatore di buffoni, ladri ed idioti.
Del resto, le poche campagne che in giro per il mondo hanno riavvicinato i giovani alla politica, da Sanders a Podemos, si basano spesso sulla contestazione della democrazia tradizionale, sostituita da forme innovative di partecipazione e di deliberazione diretta. Invece, ogni volta che le persone, grazie ai meccanismi della democrazia rappresentativa, si trovano semplicemente a scegliere tra i due faccioni sopravvissuti alle lotte di potere nei rispettivi partiti, tipicamente promossi con dosi da cavallo di marketing e di populismo, la fiducia nella democrazia scende un po’.
D’altra parte, il vero problema è che la democrazia moderna oggettivamente ha sempre meno armi per essere qualcosa di più di un reality show. La globalizzazione e il liberismo hanno sottratto agli Stati nazionali la parte più importante della propria sovranità , quella economica, che non è stata attribuita ad alcun altro meccanismo su cui i cittadini abbiano effettivamente possibilità di incidere. Al giorno d’oggi, l’idea di “prendere il potere per cambiare le cose” è estremamente naif; è uno slogan molto usato da quelli che entrano in politica presentandosi come “i nuovi”, ma soltanto l’ingenuità e l’entusiasmo possono portare a crederci veramente.
Si creano così due fenomeni contrapposti. Da una parte, c’è un pezzo di società che, trovandosi all’incrocio tra l’analfabetismo crescente e la progressiva fine del lavoro salariato, è sempre più impossibilitato a trovare un lavoro decente, e ha come unica speranza quella che la politica gli faccia avere dall’alto i soldi per vivere; e sono quelli che abbracciano la politica con grande entusiasmo, limitandosi però a ripetere slogan in modo superficiale e ad urlare più forte di quelli che, uguali a loro, sostengono però un altro partito. Dall’altra, c’è un altro pezzo di società , quello con competenze e mezzi culturali, che sarebbe anche interessato a una discussione politica seria e approfondita, ma che se ne ritrae disgustato per l’impossibilità di svolgerla in mezzo alle grida dei primi e agli slogan dei leader politici che se li coltivano; e purtroppo sempre più spesso conclude che la democrazia è roba inutile per ignoranti, da cui bisogna solo difendersi.
In mezzo, anzi sopra alle due, c’è l’1%, l’élite economica e sociale che ha in mano le vere leve del potere e che le usa come vuole, talvolta per proprio vantaggio personale, talvolta per perseguire l’ideale di un mondo globalizzato e tecnologico, anche bello in teoria, di cui però non è lei a sopportare le conseguenze negative.
Da un Paese all’altro, a ben vedere, lo schema delle elezioni di questi anni è sempre lo stesso: il candidato dei poveri e populisti – che sia Trump, Tsipras o Di Maio cambia poco – contro il candidato delle élite, il quale in teoria dovrebbe vincere facilmente, essendo sostenuto più o meno da tutti i media e tutti i poteri forti, e invece non di rado perde, e quando non perde vince per il rotto della cuffia, come probabilmente farà stanotte Hillary Clinton.
E comunque, anche quando vince il candidato populista, poi quasi niente cambia; ci sarà magari un po’ di distribuzione di denaro pubblico a pioggia, ma poco, perché tanto gli Stati hanno sempre meno soldi da spendere; e poi comunque le cose andranno avanti come prima, e il candidato populista abbasserà la cresta molto rapidamente e farà quello che le banche gli dicono, anche perché, se non lo fa e si chiude nel suo mondo ideologico di giustizia sociale fabbricata dall’alto, facilmente finisce come in Venezuela. In Italia, poi, essendo anticipatori di tutto, sostanzialmente non esistono più candidati non populisti; la scelta è tra il populismo di governo e quello di opposizione, pronti a scambiarsi i ruoli senza cambiare il risultato.
Insomma, come non diceva Mark Twain, “se votare servisse a qualcosa non ce lo farebbero fare”; un po’ ovunque, questa è la percezione proprio della parte della società che, per ruolo sociale e per cultura, avrebbe meno interessi personali da perseguire e più capacità da mettere a disposizione; quella che tradizionalmente ha sempre avuto nella democrazia occidentale la massima fiducia e ne è stata la spina dorsale.
E così, il rischio è che la fine della classe media comporti anche la fine della democrazia; e che invece di inventare nuove forme di autogoverno, sfruttando le possibilità di partecipazione attiva introdotte dalla tecnologia, la società si indirizzi senza troppi rimpianti, almeno al principio, verso una nuova età delle dittature.