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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


venerdì 7 Novembre 2008, 15:09

Lasciando il Cairo

Sono nella lounge dell’aeroporto del Cairo, e mentre aspetto il mio volo posso finalmente postare qualche spigolatura di questo soggiorno egiziano.

Ieri il mio meeting si è concluso con una cena in crociera sul Nilo offertaci dal collega kuwaitiano Qusai Al-Shatti, che ci ha dimostrato come l’ospitalità, da queste parti, sia una cosa seria e davvero eccezionale. Abbiamo spazzolato il buffet, ignorando la pur procace danzatrice del ventre, e poi ci siamo spostati in coperta, dove l’ambiente era davvero piacevole: il Nilo al Cairo sembra un mare, con tanto di onde increspate e venticello, ma sulle due sponde e nelle isole svettano grattacieli e torri illuminate. E’ veramente uno spettacolo molto particolare, e davvero il paragone più immediato è con Manhattan; di notte, poi, il cemento e le brutture si vedono molto di meno.

La giornata è stata piena di episodi aneddotici che racconterò a parte; comunque, terminata la conferenza nella mattinata (anzi, non terminata, perché erano in ritardo; ma li ho mandati a stendere e ho inviato i miei commenti per iscritto) siamo andati nel pomeriggio al Museo Egizio, e poi a intravedere il Cairo copto. Il museo è davvero affascinante, perché sembra una specie di deposito di vecchi bagagli, solo che nelle teche di vetro ci sono tesori di ogni genere; proprio questo contrasto tra valore degli oggetti e squallore dell’esposizione ne accresce il fascino.

Ci sono reperti meravigliosi, partendo ovviamente dalla maschera di Tutankhamon, ma la maggiore impressione la fanno le mummie, e non solo perché ti chiedono un biglietto extra di quasi 15 euro solo per entrare in quella stanza. E’ incredibile come questi corpi siano contemporaneamente… vivi e morti, cioè chiaramente simili al corpo originale, eppure chiaramente morti, anneriti, con pezzi smozzicati e cadenti. La prima impressione, pertanto, è davvero di paura, come se da un momento all’altro dovessero alzarsi e improvvisare una replica de La notte dei morti viventi; poi subentrano il fascino e la soggezione per qualcosa di tanto antico eppure tanto reale; infine, però, la conclusione a cui si arriva è che restare chiusi per oltre tremila anni per poi venire esposti alle noccioline dei turisti è un destino che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, e che forse la cosa più rispettosa sarebbe lasciare queste persone riposare finalmente in pace.

In opposizione a tutto questo, stamattina ho fatto ancora un veloce giro nel centro commerciale annesso all’albergo. Vi ho detto infatti che il complesso che ospitava il meeting era enorme e centrato attorno a un mall all’americana. Bene, questo centro commerciale era davvero incredibile: stiamo parlando di qualcosa con un numero di piani da quattro a sette, arrangiati attorno a quattro o cinque vertiginose corti centrali; qualcosa come le Gru, ma con una superficie quattro volte maggiore e il triplo dei piani.

Dentro, ci sono circa 600 negozi (seicento!), oltre a un multisala da 21 schermi e a un enorme ipermercato; eppure, la cosa più incredibile è che non c’è anima. Ci sono solo negozi luccicanti che vendono esattamente le stesse identiche cose dei nostri centri commerciali, più una sezione “chincaglieria per turisti” di mezzo piano; sono entrato per cercare un regalo e sono uscito senza niente, perché non c’era assolutamente nulla di interessante, o che fosse diverso da ciò che si può trovare in Italia. In compenso, pensate a un qualsiasi marchio famoso in una qualsiasi parte del mondo, e lì c’è un negozio con quel marchio: che so, Adidas, Virgin, Radio Shack, Dockers, Nike, e ovviamente tutti i fast food del pianeta, con un Burger King di fronte a un McDonald’s.

Insomma, da lì si vede una grande, enorme voglia d’Occidente: e anche se solo una ragazza su dieci non ha i capelli velati, e anzi una su dieci ha il burka, vi è un chiarissimo desiderio di essere uguali ai benestanti del resto del pianeta, di far parte del mondo scintillante del consumismo globale. Ad esempio, tutti i giovani in giro per i corridoi erano vestiti comunque in modo elegante/tamarro, con scritte inglesi per ogni dove; l’unica differenza con noi sta nei centimetri di pelle esibita. I prezzi ovviamente erano obbrobriosi, anche se per la maggior parte non si potevano vedere: siamo pur sempre in Egitto, nessuno ti fa un prezzo senza prima averti valutato e impostato una negoziazione. Persino a Pizza Hut non erano esposti i prezzi!

Però, teniamo presente anche questo aspetto, quando pensiamo al mondo arabo chiuso nelle sue tradizioni e nelle sue prescrizioni religiose: in realtà c’è anche l’altra campana, e spesso – come ci hanno spiegato – chi in pubblico è socialmente limitato, in privato si scatena. Per esempio, le stesse autorità pubbliche la cui carriera politica o diplomatica sarebbe stroncata dall’organizzare un ricevimento governativo in cui venga servito del vino, a casa hanno cantine di centinaia di bottiglie costosissime…

[tags]viaggi, cairo, egitto, islam, nilo[/tags]

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martedì 4 Novembre 2008, 13:10

Bloggare in Egitto

È istruttivo notare come Internet cambi le cose in quei paesi ancora persi nel mezzo della Storia, che non sono nè compiutamente democratici nè totalmente dittatoriali. Da una parte è necessario rispettare le usanze e le culture delle varie parti del mondo, anche quando esse prevedono la disapprovazione sociale per chi sfida l’ordine costituito; dall’altra, non si può permettere che questa disapprovazione degeneri in imprigionamento, esilio, morte.

Per questo motivo trovo istruttivo riportarvi questo video sul bloggare in Egitto, sperando che tra qualche anno non se ne debba vedere uno analogo con la nostra faccia dentro.

[tags]egitto, internet, censura, blog, libertà di espressione, diritti umani[/tags]

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lunedì 3 Novembre 2008, 21:24

La maledizione del barone Montezuma

Se proprio vi interessa saperlo, in questo momento sono in bagno e festeggio un inatteso crossover tra l’Egitto e Montezuma. Gli è che stasera c’era il ricevimento del lunedì, che si è tenuto in un posto stranissimo nel quartiere elegante e novecentesco di Heliopolis: il Palazzo del Barone, ovvero una affascinante mostruosità costruita per un nobile belga negli anni Venti in “stile orientale”, cioè come un occidentale immaginerebbe un palazzo orientale.

Naturalmente è abbandonato e in decadenza da tempo, e anche piuttosto pericolante; solo che noi eravamo il primo gruppo ad arrivare e non ce l’hanno detto, così varie signore si sono infilate dentro, hanno preso la vecchia scala nel buio più pesto e hanno rischiato di ammazzarsi dal primo piano, prima di scoprire che il ricevimento era in realtà nello spiazzo antistante.

Comunque, a forza di mangiucchiare porcatine di ogni genere e di bere succhi e coca cola, ho avuto un incontro da vicino con i cessi chimici egiziani, trovandomi peraltro nell’insolita situazione in cui la coda era davanti a quelli degli uomini, a dimostrazione di come la governance di Internet sia ancora saldamente in mano al sesso forte (ma debole di stomaco).

Proprio questo mi fa sovvenire del racconto che ci ha fatto durante la cena una coppia del posto, lui italiano e lei egiziana: infatti, lui per poterla sposare ha dovuto non solo convertirsi, ma anche ottenere da un apposito ufficio statale un certificato di conversione all’Islam, a cui è potuto seguire il certificato di matrimonio.

Tale certificato va tenuto da conto: infatti, quando andarono in vacanza a Sharm, l’albergo si rifiutò di dare loro la stanza in quanto non avevano dietro la prova di essere sposati. L’unica via di uscita era quella di dormire in stanze separate, ma (oltre alla mancanza di intimità) si sarebbe dovuto raddoppiare il costo. Alla fine, però, la soluzione si è trovata quando, a forza di escalare la situazione, si è scoperto che il mega-manager dell’albergo era italiano; tra italiani ci si capisce, e quindi il manager dell’albergo ha offerto alla coppia una seconda stanza gratis tra quelle comunque invendute, dando disposizione agli inservienti di chiudere un occhio sulla sua effettiva occupazione…

[tags]viaggi, icann, egitto, cairo, islam, matrimonio[/tags]

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domenica 2 Novembre 2008, 16:29

Cairo di notte

Ieri sera mi sono un po’ rappacificato con Il Cairo: infatti, dopo aver trascorso praticamente tutto il giorno in camera a lavorare a varie cose, avevo voglia di uscire e ho combinato la serata con Roberto Gaetano e famiglia. Io e Roberto frequentiamo ICANN insieme ormai da sei anni, e abbiamo una lunga storia di riunioni e ristoranti in giro per il mondo; peraltro la prima volta che ci incontrammo in Italia fu al meeting ICANN di Roma 2004, ma prima di allora ci eravamo già incontrati in mezzo mondo, nell’ordine prendendo un orrido panino pieno di salse in un bar fighetto di Marina del Rey (Los Angeles, 2000), incontrandoci per completo caso all’uscita di un pub ristorante a Dublino (estate 2001) e poi ancora a Montevideo, Bucarest, Amsterdam, Rio de Janeiro, insomma ovunque ma non in Italia.

Lui, comunque, aveva lì una voglia di ristorante Falfela in centro al Cairo, rimasta dal meeting ICANN del 2000, e così ci siamo fatti chiamare una macchina dall’albergo e siamo andati lì. Il posto è carino, abbastanza tipico, anche se pieno di turisti; ti guardano comunque male, e persiste quella sensazione di non essere poi così benvenuti da queste parti, però il cibo era buono e abbiamo speso una cifra umana, tipo 13 euro a testa, contro i 40 abbondanti di cui ti pelano i ristoranti dell’albergo. Oggi a pranzo con la stessa cifra ho preso un panino e una coca cola!

Soprattutto, ciò che mi ha riconciliato con questa città è stato il giro a piedi per il centro – o meglio, per la parte mondana del centro, la zona novecentesca costruita in stile europeo-newyorchese – dopo cena, a notte avanzata. Quello stesso centro che visto di giorno è squallido e cadente la sera si trasforma in un magico fiume di luci: ci sono insegne ovunque, in latino e in arabo, di ogni colore.

Capisci così che Cairo è la New York del mondo arabo: l’unica vera metropoli del Medio Oriente (tenendone fuori la Turchia). Non che le abbia viste tutte, ma vi garantisco che Tunisi o Marrakech sono completamente diverse, perché non hanno questa dimensione; qui vivono venticinque milioni di persone, e lo si percepisce. In realtà vi sono molti centri, e mi è anche venuta voglia di scoprire come sono di notte i vicoletti del Cairo islamico e della zona della Cittadella (non temete, non la soddisferò). Ma anche solo il centro basso è affascinante: in mezzo a questo fiume di luce vi sono in giro migliaia di persone, che escono ed entrano da locali e caffé. Ci sono negozi di ogni tipo, e si può trovare in fila, spesso ancora aperti, un forno dove un bimbo guarda estasiato un enorme vassoio di biscotti; un venditore di meraviglioso antiquariato in stile orientale; un buco lurido dove riparano motociclette; l’ingresso di un vicolo misterioso che porta in casa di qualcuno, o forse a uno dei tanti mercatini.

Certo, i marciapiedi sono sconnessi e pieni di auto in ogni dove, e a ciascun attraversamento si rischia il game over: credo di aver già scritto l’altra volta che Cairo è un enorme Frogger dal vivo, dove ordinariamente le auto e persino i camion ti sfrecciano a cinque centimetri dalla faccia mentre attraversi, calcolando dinamicamente la tua e la loro posizione, indipendentemente dal colore del semaforo, dai segnali e dalle precedenze. Esitare è fatale, in senso assolutamente stretto: quando parti, vai e prega.

Però, girando a caso per il centro del Cairo, si scoprono angoli di vero mistero; e si finisce per esempio addentro a una lunga fila di taxi che occupa la strada, in coda per fare benzina (24 eurocent al litro) all’unico distributore; oppure in un mercato notturno pieno di gente che compra, dove una parete è occupata da scatole sbugnate e scrostate di monitor LCD da computer, mentre dall’altra un nuovissimo negozio di lampadari sfoggia delle composizioni vetrarie che sembrerebbero barocche e pesanti persino a uno spagnolo.

Certo, quando ti accorgi che è tardi e devi tornare indietro, ti rendi conto che non sai dove sei e che nessuno ha una cartina; ma non importa. Basta camminare un po’ per il mercato, fino a uno spiazzo dove due dei classici taxi bianchi e neri, tenuti insieme dallo scotch, aspettano clienti; il primo tassista non parla altro che dialetto cairota, ma va ad abbrancare il giovanotto che fa da interprete. Citystars – il nome del nuovissimo, periferico complesso dove stiamo noi; e periferico vuol dire una ventina di chilometri di case ininterrotte – è la parola d’ordine; il tassista non è sicuro di aver capito, ma il giovanotto lo istruisce. E così, per quasi un’ora giriamo a caso nella periferia nord del Cairo, pigiati in cinque in una 127 bianconera, in mezzo a dedali di vie e sopraelevate e svolte obbligate, pregando che lui trovi alfine una strada.

Muoversi per l’immensa periferia del Cairo è complicato; i grumi di case sulle colline e sulle dune sono intercalati da enormi vialoni da sei corsie per senso di marcia, sui quali invece che a Frogger si gioca a Out Run. Si inchioda per arretrare e passare dall’altro lato il camion che sta sterzando a destra costringendo a frenare altre due auto che nel frattempo accostano verso un pedone che deve salire evitando l’albero di palme e il tombino rotto con un palo di ferro arrugginito piantato dentro, nel bel mezzo della carreggiata, a dire “qui non si passa”. Abbiamo anche fatto il livello del tunnel: un buco a due corsie lungo quasi quattro chilometri, dal percorso a serpentina, con auto che si sorpassano da entrambe le parti e moto che sorpassano in mezzo, nessun tipo di ventilazione forzata, e una atmosfera gassosa che implica morte certa per asfissia nel caso in cui ti si fermi la macchina lì sotto.

E poi c’è il livello tortuoso: infatti i vialoni non hanno incroci perché sarebbero troppo pericolosi, né semafori perché tanto sarebbero inutili. Se due vie si incrociano e non si può fare un mega-raccordo cementizio, la soluzione è che una delle due vie si scontri con lo spartitraffico dell’altra; quindi chi arriva di lì è costretto a girare a destra, andare avanti per qualche centinaio di metri, poi in mezzo c’è un buco nello spartitraffico che permette una inversione a U, in modo da tornare indietro e poi risvoltare nel proseguimento della via. Insomma, una rotonda schiacciata!

Notevole anche quando la passeggera alla mia sinistra voleva aprire il finestrino: il tassista, mentre con una mano tiene la sigaretta, con l’altra tiene il cellulare e con la terza tiene il volante, con la quarta mano estrae da sopra il parasole la manovella mancante, che infila a forza, girandosi per metà, nel buco del finestrino posteriore sinistro, girando per aprirlo mentre slalomeggia tra le auto per strada e scarica la cenere sull’asfalto.

A un certo punto abbiamo passato senza danno persino il difficilissimo livello “attraversamento dell’autostrada”, in cui due gruppi di pedoni, invisibili nel buio della notte, attraversano le sei corsie del vialone a distanza di esattamente un metro e ottanta l’uno dall’altro, e il tuo tassista lanciato a oltre cento all’ora ci si infila in mezzo, dieci centimetri dal culo dei primi e dieci dalla faccia dei secondi, mentre questi continuano a camminare a velocità regolare, e senza nemmeno rallentare un briciolo la corsa del veicolo. Lì è scoppiato spontaneo l’applauso!

Ma il vero momento magico è stato quando, trovata la strada principale sbarrata, il nostro autista ci ha portati in mezzo a una intera città abbandonata: centinaia di metri di casupole a uno o due piani, eleganti e decorate, apparentemente risalenti a secoli fa, completamente vuote e abbandonate. A un certo punto c’era persino quello che sembrava un caravanserraglio, anch’esso abbandonato; si stagliava contro il cielo illuminato dalla luna e faceva davvero un grande effetto.

E’ stata solo una visione di pochi secondi, presto sottrattaci da un nuovo livello di Out Run; ma è stata sufficiente a farmi pensare che il Cairo abbia dentro di sé molto più di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

[tags]cairo, taxi, traffico, egitto, viaggi, icann[/tags]

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venerdì 31 Ottobre 2008, 17:56

Scampoli di pianeta

A Torino, ieri pomeriggio, c’era un vento gelido che portava via il mondo; man mano che si avvicinava il tramonto, sembrava veramente che la città stesse per svanire in una lattigine indistinta. In bicicletta era difficile tirare diritto, anche perché si era continuamente avvolti da nuvole di polvere di foglie secche frantumate: gli alberi sono ancora carichi di giallo, ma non lo saranno per molto. Il sole era una palla pallida sopra i mattoni rossi dei poveri vecchi, appena nascosti da svergognate affissioni di politici bolliti e di Winx seminude.

Se tutto questo già è straniante, aspettate di vedere l’interno: perché in quel mondo nascosto di mattoni rossi, sospeso tra l’ospedale e il dimenticatoio, sta una realtà improbabile quanto poetica, fatta di anziani, di disabili e persino di anziani disabili. Capita così di trovare dietro un angolo, in una stanza che fu di degenza, una vera balera; un eccezionale ballo a palchetto alle tre di un pomeriggio feriale. L’età minima per varcare la porta è sui settantacinque, eppure, da fuori, si può rubare uno sguardo: ballano bene, e sembrano ancora innamorati.

Francoforte, oggi, è verde scura: le foreste attorno all’aeroporto sono rossicce e bagnate, e ti verrebbe da cercare presto un caminetto. Invece ci scaricano a metà dell’infinito corridoio A, e mi tocca lottare sui tapis roulant e poi intasarmi nell’ascensore; il tunnel lisergente dai colori artificialmente cangianti, per cui questo aeroporto è famoso, oggi è ancora peggio del solito. Rimaniamo intampati dietro a una famigliola con bambini: il genere di passeggero che l’industria definisce VFR, che ufficialmente significa “visiting friends and relatives”, ma che nel gergo taluni interpretano come “very frightened and rambling”. Vallo a spiegare al bambinetto irrequieto e al genitore che non capisce dove andare, che stanno bloccando una fila di almeno una decina di businessmen spazientiti che sanno quel percorso a memoria!

La lounge è pure peggio: non è più il Senator di una volta, ormai c’è più spazio nella metro di Londra che nelle sale Lufthansa di prima classe. Però, oltre a spararmi in vena un intero bretzel, mi godo i telegiornali tedeschi: tra il konjunkturpaket e la chiusura di Tempelhof, spunta un servizio su come fare Halloween da professionisti, con tanto di interviste a vari “profi-monster”. Non c’è niente da fare, i tedeschi sono così: tutto deve essere scientifico, tecnologico e soprattutto professionale. Qui ancora si ricorda quando la nota casa tedesca di pneumatici Continental scelse come slogan pan-europeo “Supremazia tecnologica tedesca”: a un tedesco sembrava la cosa migliore che si potesse dire di un pneumatico, ma al resto d’Europa faceva venire in mente il rumore di militari e carri armati in marcia all’unisono verso la Polonia, così le vendite non andarono benissimo.

Cairo… cosa si può dire del Cairo: veramente uno dei pochissimi posti dove non avrei voluto venire. Nulla voglio togliere alla meraviglia delle piramidi, al centro storico bellissimo e unico al mondo, e anche alla gentile ospitalità di questo popolo. Eppure vivere qui, anche per pochi giorni, è davvero stressante: il concetto di organizzazione non esiste nemmeno. All’aeroporto le persone che devono aspettarti per aiutarti a passare la frontiera e arrivare all’albergo non ci sono, hanno cartelli sbagliati, faticano a leggere i caratteri occidentali, e appena possibile litigano tra loro per contendersi il piacere di chiederti la mancia. Per passare la frontiera, una volta acquistato il visto al costo di 15 dollari americani (niente carte, niente valuta locale e per pagare in euro devi pregare e poi pagare 15 euro), il tizio prende in mano 15 o 20 passaporti del gruppo e va da una guardia che, dopo un po’ di discussione, fa passare tutti senza nemmeno aprire i documenti, contando semplicemente che numero di persone uguale numero di passaporti. Dopodiché la navetta gratuita promessa dall’organizzazione non c’è, o meglio c’è ma è parcheggiata in fondo allo spiazzo, in mezzo a un cantiere abbandonato, e gli autisti non ci sono, e comunque se ci fossero sarebbero stati corrotti da quelli delle limousine in modo da forzarti a prendere quelle.

Quindi attraversi la strada rischiando la vita e ti infili alla bell’e meglio in una macchina, con cui ti portano alla sede del convegno: un albergone a 20 chilometri dal centro, nel bel mezzo di un centro commerciale. E’ come se avessero preso l’Auchan di corso Giulio Cesare e ci avessero messo accanto un albergo, però con attorno palazzi di cemento cadente, niente verde e tutto dieci volte più squallido. E quando finalmente riesci a fare il check-in, dopo dieci minuti che sei in camera, nonostante tu abbia affisso fuori il segnale di non disturbare, entra un addetto senza bussare e ti porta dalla lavanderia un vestito e delle camicie non tue – e non parla mezza parola d’inglese per farglielo capire. Ah, e la rete dell’albergo funziona per dieci minuti, poi si pianta troncando i pacchetti di brutto, ma se stacchi e riattacchi il cavo (niente wi-fi) riprende a funzionare per altri dieci minuti.

Non so, spero di non sembrare snob; il problema, come dicevo, è che già essere in giro è pesante, se di fatto sei prigioniero in un posto del genere diventa poco piacevole. Ma forse è solo la stanchezza del viaggio.

[tags]torino, francoforte, cairo, viaggi, lufthansa, continental, tempelhof, autunno, vecchi[/tags]

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giovedì 18 Settembre 2008, 11:47

I negri

Per concludere i miei racconti dall’Africa, vorrei sintetizzare (per quanto mi è possibile: quindi solo quattro o cinque pagine) quanto in pochi giorni ho appreso dei negri, osservandoli, parlando con loro e parlando con chi vive là da tempo. Naturalmente è possibile che si tratti di impressioni sbagliate, ma prima di metterle giù mi sono premurato di chiedere e trovare conferme.

I negri condividono volentieri la miseria. Anche se muore di fame, il negro trova normale condividere con un altro negro il pezzo di cibo che ha in mano, anche se è uno che non ha mai incontrato. Per strada è tutto un fiorire di amicizie e pacche sulle spalle, e tutti si sorridono e si danno una mano. Per un negro, niente è mai veramente un problema: tutto è risolvibile chiedendo una mano a chi passa di lì in quel momento. Tuttavia, i negri condividono meno volentieri la ricchezza e il potere: date il potere in mano a un negro e nel novanta per cento dei casi sterminerà piuttosto che lasciarlo. Per ulteriori informazioni citofonare Mugabe.

I negri, pur essendo molto più amichevoli e simpatici dei bianchi, non hanno la minima idea di cosa sia la buona educazione. Quelli dell’appartamento di fronte piazzano lo stereo a un volume talmente forte da far sembrare i tamarri italiani dei dilettanti. Quelli dell’appartamento di sopra, a qualsiasi ora, strascinano le sedie sui bei palchetti ereditati dai portoghesi, devastandoli. Sollevare le sedie è già troppo faticoso.

I negri sono estremamente puliti. Anche se vivono in una casupola nel nulla, non hanno l’acqua in casa e possiedono in tutto tre magliette, quelle tre magliette sono sempre lavate e spesso persino stirate. I negri sono molto attenti alla propria immagine, e se appena possono hanno i jeans alla moda e le t-shirt con le scritte in inglese, all’occidentale; magari sono tarocche, ma le hanno. Aggiungeteci il fatto che sono fisicamente molto ma molto più belli dei bianchi, e capirete il loro giusto orgoglio di sé. E sì: come testimonia anche Caparezza, hanno il pisello grande.

I negri sono generalmente pigri. Non capiscono perché i bianchi si rovinino la vita lavorando, pur avendo molti meno problemi di loro a mettere insieme il pranzo con la cena. Non è che non aspirino a una condizione migliore, ma la loro valutazione di costi e benefici tende a ingigantire i costi rispetto alla nostra, almeno quando sia richiesto uno sforzo di qualsiasi genere. Noi, grazie a secoli di prediche ereditate da Calvino e Lutero, veniamo educati a considerare normale l’alzarci tutti i giorni alle sette per uscire di casa, viaggiare in mezzo al traffico e andare a lavorare; loro non lo distinguono dalla schiavitù. In effetti, ho provato ad elencare le differenze sostanziali tra le due situazioni, ma non sono sicuro di averle trovate.

I negri, proprio perché sono pigri, sono anche furbi. Ma non furbissimi; diciamo la furbizia di un bambino di dieci anni che pensa di far fessi i genitori. Per dire, è praticamente impossibile per un bianco trovarsi in giro all’ora di pranzo o di cena senza che un collega, allievo o conoscente negro lo placchi e con una scusa qualsiasi non gli si stacchi più di dosso fino a che il bianco non si trovi sotto casa sua; a quel punto l’invito a condividere il desco è doveroso. (Come detto prima, varrebbe la stessa cosa anche a ruoli opposti, e il negro vi darebbe con generosità ciò che ha; non essendo stupidi, però, sia il negro che il bianco preferiscono attuare la condivisione del cibo nella casa del bianco.) Se non è ora di pranzo, comunque il negro con una scusa o con l’altra finisce sempre per entrare in cucina e farsi offrire qualcosa. Va anche bene così, visto che i negri a Maputo non muoiono di fame ma certo non ingrassano; è un po’ stressante per il coinquilino che sta a casa e prepara il pasto, ma presto i bianchi imparano a buttare sempre la pasta molto abbondante, che qualcuno che la mangia salta sempre fuori.

I negri sono onesti, molto di più di quel che crediamo noi. Certo, in Mozambico i frigoriferi hanno tutti una serratura sulla porta, ma si tratta più della diffidenza degli europei che di una necessità effettiva; un vero negro difficilmente ruberebbe anche solo una scatola di biscotti, e se lo fa è perché è stato educato dagli italiani. Allo stesso tempo, la loro naturale attitudine alla condivisione li rende variamente disonesti secondo i nostri canoni (ma non secondo i loro). Per esempio, i negri chiedono continuamente soldi in prestito ai bianchi, e non li restituiscono quasi mai: l’idea è che se tu glieli dai è perché non ne hai veramente bisogno. Non solo, ma non sono nemmeno riconoscenti per il prestito: anzi, più gli dai soldi a babbo morto e più ritorneranno a chiedertene, e si offenderanno – talvolta persino incazzandosi e giurandoti vendetta – se a un certo punto smetterai di dargliene. Se ci pensate, questo è perfettamente logico, se si parte dall’assunto che tu continui a non avere bisogno di quei soldi.

I negri sono semplici e ingenui. Non riescono a pianificare più di una o due cose per volta; la complessità li mette in crisi. Il futuro è una entità sconosciuta a cui si penserà “poi”; è già tanto se si ricordano cosa devono fare domani, e spesso cambiano idea in merito ogni dieci minuti. Le istituzioni (università, ospedali, ministeri) riescono a fare piani addirittura fino a una settimana, anche se è probabile che il giorno prima si scopra che manca, che so, l’aula, o il professore, o gli studenti, o che il giorno deputato al seminario la metà di essi non ci siano.

I negri, se non sanno fare qualcosa, o dopo l’ennesimo errore, si mettono tranquillamente a piangere davanti a tutti. Mentono, ma non in modo perfido o cattivo; se mai come un bimbo che non vuole ammettere con la mamma di aver rubato la marmellata, anche davanti all’evidenza. Come i bambini, non sono capaci di valutare le conseguenze sugli altri delle proprie azioni: magari si dimenticano di riportarti la macchina e resti a piedi, oppure ti danno appuntamento e poi non vengono e ti lasciano due ore ad attendere a vuoto, ma senza cattiveria o menefreghismo; semplicemente, gli è passato di mente, o non hanno pensato che la cosa potesse crearti dei disagi. Se gli fai notare i disagi, ti chiedono scusa e per loro la questione è finita lì: amici come prima e pronti a rifarlo di nuovo.

I negri, almeno attorno alla città, potrebbero migliorare senza problemi la propria condizione sociale e uscire dalla miseria; è solo che non gliene frega niente. Nella loro mente non esiste il concetto di risparmio; e come potrebbe esistere quando la vita è lunga a malapena abbastanza da mettere al mondo i figli e farli giungere quando va bene alla maggiore età? Comunque, dàgli due lire in mano e le spenderanno immediatamente in puttanate, cominciando dai cellulari e dagli Ipod taroccati cinesi. Anzi, spesso guardano male gli occidentali perché pur avendo molti più soldi di loro si presentano in Africa con un cellulare scrauso: è come se da noi un miliardario andasse in giro coi pantaloni bucati.

I negri adorano la musica, e sono degli ottimi ballerini. Oltre al canonico reggae, ai negri del Mozambico piace molto la techno, perché non è poi così diversa dalla loro musica tradizionale basata sui tamburi: per cui si assiste alle scene un po’ stranianti di un vecchio furgone scassato con la gente aggrappata fuori e stesa sul tetto, che attraversa una baraccopoli emettendo musica unz-unz a un volume che assorderebbe un ippopotamo.

Ai negri piacciono un casino le feste; per esempio, si trovano all’aperto all’inizio del pomeriggio del sabato, belli riposati, e attaccano un impianto stereo da migliaia di watt che fa vibrare le pareti dei palazzi a centinaia di metri di distanza; e stanno a suonare e ballare fino alle tre di notte. Non è previsto che ci sia nel circondario qualcuno che, durante una festa, possa preferire fare altro, o addirittura dormire. Solo a un bianco, alle due di notte e verso la dodicesima ora di musica unz devastante, potrebbe venire in mente di chiamare la polizia – anche perché la polizia è probabilmente lì a ballare con gli altri.

I negri amano i propri figli e le proprie mogli, ma amano in ugual misura le mogli degli altri. “Guarda, c’è un matrimonio!”, ci ha detto il nostro autista negro, indicando la sposa in abito bianco e agitando la mano nell’internazionale gesto delle corna. I negri si accoppiano con estrema naturalezza, cioè con qualsiasi altro negro di sesso opposto che ci stia. Adorano i propri figli, ma non si sentono particolarmente obbligati a fornire loro una educazione: da sempre, i bambini crescono allo stato brado in mezzo alla polvere della strada. Riuscire a sopravvivere è compito del bambino; per esempio, lo stesso negro che capita regolarmente a pranzo dal bianco un giorno sì e l’altro pure non si sognerebbe mai di tenere da parte un po’ del cibo e portarlo al suo bambino. Il genitore maschio, comprati i figli che verranno mediante il pagamento della dote alla famiglia della moglie, può fare ciò che vuole. Se è un bel ragazzo, ciò di solito implica il trovarsi varie amanti e una nuova moglie dopo pochi anni, e/o il morire velocemente di AIDS.

I negri sono i peggiori capi dei negri. I bianchi sono molto ricercati come datori di lavoro; specie quelli che arrivano in Africa in questi anni, con tante buone intenzioni, tanta utopia e tanto senso di colpa. I bianchi europei viziano i negri, gli fanno regali, chiudono un occhio quando fanno casino (cioè varie volte al giorno), gli ripetono le cose con la pazienza che si usa con i bambini. Il capo negro invece è uno schiavista; assapora il potere come il cane tenuto per secoli alla catena e finalmente in grado di vendicarsi. Trova naturale sfruttare e arricchirsi il più possibile: se gli dai da gestire cento lire di cooperazione, se ne intascherà almeno novanta, e solo dieci finiranno ai destinatari originali. Si ritiene molto furbo, ma tanto poi arriva la multinazionale bianca e gli piazza lì un centro commerciale dove tutto costa dieci volte tanto che nel resto della città, e i soldi ritornano prontamente verso l’Occidente (ma anche verso il mondo arabo e la Cina).

Ora, so che alcuni di voi saranno arrivati qui in fondo scandalizzati e staranno già gridando al razzismo, a partire dall’uso del termine “negro” al posto di nero. Intanto potrei dirvi che loro stessi, tra loro, si definiscono negri, e che ogni tentativo di fargli usare il termine preto (nero in portoghese) è stato accolto con sconcerto: “no, ma perché?”. Ma il vero punto è che i negri sono ben più che neri: la differenza tra negri e bianchi non è certo nel colore della pelle, tanto è vero che i neri cresciuti in Occidente e in ambienti socialmente integrati con quelli dei bianchi ne adottano senza problemi i comportamenti e i valori; anche nello stesso Mozambico, nelle élite e nelle università, ce ne sono parecchi così, senza nemmeno essere mai stati all’estero. A quel punto, però, sono neri ma non più negri, e anzi i negri spesso li guardano come dei traditori.

Il problema che gli occidentali che non sono mai stati in Africa hanno con l’uso del termine “negro” è in realtà causato dal loro fondamentale razzismo, che sta nel fatto di applicare il proprio insieme di valori anche all’Africa stessa. Il bianco, con protervia razzista, ha deciso che le proprie equazioni “gran lavoratore = buono, pigro = cattivo, efficiente = buono, disorganizzato = cattivo” si devono applicare all’intero pianeta; poi va in Africa e si accorge che là non è così. All’inizio l’approccio razzista si concretizzava nel punire i neri perché erano negri: vedi apartheid, linciaggi o quando va bene rieducazioni forzate all’etica del lavoro. Poi abbiamo finalmente capito che ciò è Male; ma ciò non cambia la natura dei negri.

Quindi, quando al giorno d’oggi l’occidentale pieno di buone intenzioni arriva in Africa e si accorge di come girano le cose, il suo cervello va in tilt: per evitare di concludere che i negri sono tutti cattivi, il bianco si inventa le peggiori assurdità. Per esempio nega la realtà: ho sentito gente sostenere che “l’Africa non è poi così disorganizzata”, mentre ripeteva per la quarta volta l’ordinazione al ristorante. Più spesso, si prende la colpa: “sono così solo perché noi li abbiamo schiavizzati e sfruttati per secoli”. E’ vero che li abbiamo schiavizzati in modo indegno e che abbiamo rubato loro un sacco di risorse naturali (che peraltro loro non sapevano come estrarre e nemmeno come utilizzare, e portando in cambio infrastrutture che loro non sapevano come costruire), ma non è vero che questa sia la causa della loro cultura; anzi, tanto di cappello a loro per averla conservata nonostante legioni di missionari salesiani che volevano convincerli di quanto sia giusto lodare il Signore lavorando in fabbrica. Anche questi sono approcci razzisti, perché continuano a sottintendere che i negri, per essere da noi apprezzati e accettati, devono per forza comportarsi come i bianchi, e vivere in città sovraffollate cavalcando scatole di latta comprate a rate. L’unico approccio onesto, secondo me, è lasciare che vivano da negri, senza applicare a loro i nostri metri di giudizio, e permettergli finalmente di decidere da soli, tutti insieme, cosa vogliono fare delle proprie società, e quale sia per loro il giusto compromesso tra fatica e sviluppo.

La negritudine, in realtà, è un sistema di vita e di morale che è molto più naturale, più semplice, meno alienato, meno frustrante e meno soffocante del nostro. Ha i suoi lati negativi, tra cui l’impossibilità di generare alcun tipo di sviluppo economico o una ricchezza materiale anche vagamente comparabile alla nostra, nonché una vita più breve e più soggetta a malattie. Per noi è immorale, perché non è basato sul sacrificio. Facilmente, però, è soltanto invidia.

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mercoledì 17 Settembre 2008, 14:53

La giustizia altrui

Ho ancora un paio di cose che voglio raccontarvi dell’Africa e del Mozambico, e saranno forse tra le meno facili da metabolizzare. Quella di oggi, peraltro, capita a fagiolo anche in seguito alla discussione di ieri: perché è relativa al concetto di giustizia (umana e divina).

Il Mozambico ha una struttura giudiziaria all’occidentale: infatti hanno preso le leggi portoghesi, hanno fatto “trova e sostituisci” e hanno scritto Mozambico al posto di Portogallo dovunque tale parola comparisse. Allo stesso tempo, il Mozambico ha la giustizia tribale, perché anche nelle tribù africane esistono reati e tribunali; questi ultimi sono in sostanza costituiti dal consiglio degli anziani del villaggio, o da una persona molto saggia a cui ci si rivolge in veste di conciliatore.

Grazie al fatto che chi ci ospitava si occupa proprio di questi temi, ho potuto apprezzare come la giustizia della legge si adegui alle usanze tradizionali, e come ciò implichi che alcuni concetti che noi diamo per scontati – quasi naturali – non lo siano affatto: a partire dalla responsabilità personale.

Per noi è ovvio che ognuno risponde delle proprie azioni; per gli africani, invece, è il villaggio o la famiglia, nel suo insieme, a rispondere davanti agli spiriti per le azioni di tutti i suoi componenti. Se qualcuno di essi fa qualcosa di male, l’ira degli déi si abbatterà su tutti: per questo motivo essi sono i primi a prenderlo a mazzate.

Questa mancanza di responsabilità personale spiega probabilmente la scarsa intraprendenza degli africani, e si esplica in modi che a noi sembrano assurdi. Per esempio, se a un pulmino del trasporto pubblico scoppia una gomma ed esso finisce per centrare la tua macchina, la colpa e i danni sono per metà tuoi; perché si sa che i pulmini vanno in giro con le gomme lise e possono perdere il controllo da un momento all’altro, quindi stava a te starci attento. Se il vicino dà fuoco alle sterpaglie in modo maldestro e il fuoco si espande a casa tua, è colpa tua: perché non eri lì a spegnere il fuoco o almeno non hai bagnato il prato perché non fosse secco? Persino se ti cade in testa un vaso da un balcone la colpa, per il tribunale, è anche tua: non l’hai evitato.

C’è, in realtà, una logica in tutto questo: quella che siamo tutti sulla stessa barca e dobbiamo dividerci l’attenzione e le responsabilità. Per noi, però, abituati a trovare un responsabile e una colpa per tutto, sembra ingiusto.

Certamente le pene tradizionali, in Mozambico, non sono moderate. Per esempio, la pena per il furto è venire presi, infilati dentro un pneumatico, cosparsi di benzina e arsi vivi. Dev’essere per questo che in Mozambico sono piuttosto onesti, almeno in termini di società con simili disuguaglianze sociali (c’è chi muore di fame e chi gira in SUV).

Sono tanto onesti che talvolta il furto è impossibile. Per esempio, un ragazzo andò in tribunale accusando un suo vicino di casa di averlo derubato per strada di notte. Dopo due anni di galera preventiva (non perché la giustizia mozambicana sia lenta – mica è l’Italia – ma perché si era perso il fascicolo: succede) l’accusato va davanti al giudice, che lo assolve: infatti, dice il giudice, è impossibile che due vicini si derubino tra loro, perché è contrario alla buona educazione e agli usi tradizionali. Se proprio uno vuole derubare qualcuno, argomenta il magistrato, mica andrebbe a farlo con un vicino che conosce personalmente, cosa che poi causerebbe faide per mezzo quartiere! E poi il fatto che il presunto derubato si sia rivolto direttamente alla polizia è sospetto: perché non ha chiesto l’intervento degli anziani o non ha mandato i suoi genitori a spiegarsi con i genitori del presunto ladro? E infine – conclude il giudice secondo il principio di cui sopra – se tu giri con tanti soldi in tasca di sera per una strada buia, la colpa del furto è anche tua: non lamentarti. Tutto ciò scritto nero su bianco in una sentenza di tribunale.

Le vette dell’assurdo – almeno per noi – si raggiungono quando c’è di mezzo la stregoneria: perché il feticcio fa parte della cultura locale e viene usato per spiegare più o meno qualsiasi cosa (come nel caso del parto di tre tazze). Naturalmente la stregoneria a scopo maligno è vietata e punita, tanto per cambiare, con il linciaggio; c’è però chi, civilizzato, si rivolge invece al tribunale.

E’ il caso di un tizio a cui un’altra famiglia, per questioni economiche irrisolte, aveva fatto un malocchio che lo costringeva a muoversi sempre a quattro zampe, e così aveva perso il lavoro e subito dei danni. Per questo motivo, si era rivolto al tribunale (non si sa se in piedi o a quattro zampe) per ottenere una sentenza che obbligasse la sua controparte a togliergli il malocchio. E infatti, il giudice, esaminato il caso, gli ha dato ragione: ha ordinato all’altra famiglia di togliere la magia e ripagargli i danni subiti.

Insomma, anche se la legge dice che la magia non esiste, i giudici mozambicani si arrabattano per trovare un appiglio per condannare chi è accusato di stregoneria; questo nel loro stesso interesse, visto che, se non altro, essere chiusi in prigione è un modo di evitare il linciaggio. Talvolta invece gli stregoni vengono assolti, specie se dicono di avere agito per ordine degli spiriti: se è stato uno spirito a ordinargli di trasformare temporaneamente il signor tal dei tali in un serpente, mica è colpa loro.

In certi casi, però, c’è un problema: supponete, che so, che vostro figlio sia improvvisamente impazzito d’amore per una stronza. E’ evidente che egli sia stato reso schiavo da lei mediante una stregoneria, tramite il noto metodo di rinchiudere la sua anima in una bottiglia. Però, come si fa a sapere chi è lo stregone responsabile del vile gesto?

In questi casi, spesso succede così: il tribunale interpella l’associazione nazionale degli stregoni (sì, c’è) che, tramite un rito di lettura degli ossicini, scopre chi è stato. Così possono andare a prenderlo e metterlo in galera o linciarlo a seconda del caso.

Bene, vi siete divertiti? Sarete contenti di non vivere in Mozambico, ma in un Paese dove la giustizia è equa e razionale. Per questo vi suggerisco di dedicare ancora dieci minuti a leggere fino in fondo quello che diceva l’altro giorno Travaglio a proposito del nuovo reato di “contrattazione di sesso a pagamento” e di altre meraviglie della nostra legislazione. Noi sì, che siamo dei giusti.

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lunedì 15 Settembre 2008, 11:56

Incontro con l’Africa

Partiamo dalla piazza centrale di Maputo, davanti alla fortezza portoghese e al centro politico del Mozambico.

La prima strada è larga e piena di automobili; alcune sono scassate in modo incredibile, ma sono molti di più i SUV e i pickup nuovi di zecca. Qui, almeno, avere un fuoristrada ha senso; questo perché le strade sono piene di buche gigantesche, anche in piena città. Tranne qualche isolata innovazione realizzata dagli stranieri, le infrastrutture – le strade, i palazzi, l’illuminazione, i marciapiedi – sono quelle realizzate dai portoghesi fino al 1975.

I mozambicani, preso il potere, si sono limitati ad usarle; per molti versi sembra di vivere in uno di quei film apocalittici in cui il mondo è stato distrutto, e i sopravvissuti cercano di riutilizzare le rovine e le poche infrastrutture rimaste, senza più sapere come costruirle o mantenerle. Per esempio, il meraviglioso giardino botanico in pieno centro ha ormai i vialetti sconnessi, i mosaici spaccati, i canali intasati e le serre con le porte sfondate e il tetto rotto; loro, però, non lo notano nemmeno e lo usano con grande piacere, senza nemmeno tappare le buche… in fondo, basta scavalcarle. Su molti palazzi ci sono addirittura ancora le insegne delle compagnie o delle istituzioni portoghesi che li occupavano prima della Rivoluzione.

Lasciando il centro, si percorre il lungomare: una bella passeggiata pavimentata come nelle città di mare mediterranee, che però ogni tanto si interrompe e finisce nel vuoto, con pezzi di pietra penzolanti, là dove l’acqua l’ha portata via. La spiaggia è libera, e ogni tanto spuntano alberi e baretti.

A un certo punto spunta una novità: una serie di villette a schiera davanti al mare, costruite dai sudafricani come case di vacanza per ricchi locali e borghesi di Johannesburg. A fianco, un casinò e un costruendo centro commerciale, con i ristoranti e i negozi. Il tutto è ovviamente chiuso e circondato dal filo spinato elettrificato, come le riserve degli elefanti.

Dopo un po’, si svolta verso l’interno; le case sono ancora belle, ma più modeste, come villette di mare nostrane. Qui le vie non hanno nomi ma numeri: via 1523, via 4287… La strada è sterrata e piena di ragazzini in divisa che tornano da scuola; la scuola è carina, con un ampio cortile, e piena di murales che proclamano “sì alla lotta all’AIDS”.

Si attraversa una laguna paludosa, e la strada ha sempre più buche; c’è un prato che potrebbe anche essere un campo, e in fondo si vede un insediamento, un bairro come tanti altri. Si attraversa per qualche centinaio di metri una zona di nessuno, e poi comincia il bairro.

Qui le vie non hanno più niente, né nomi, né numeri, né un percorso definito; sono delle tracce sterrate in mezzo alle quali cresce l’erba, che seguono un percorso tortuoso aggirandosi tra le case. Già, perché la pianura sabbiosa, da cui si alza una nuvola di polvere mentre passiamo con il fuoristrada, è coperta di casupole. Sono regolari, nel senso che anche loro, come tutte le case, sono state costruite e comprate a prezzo di mutui e sacrifici; su alcune c’è addirittura scritto “Vende-se”. Solo che sono casupole di una decina di metri quadri al massimo, molte anche di meno, costruite sovrapponendo mattoni grigi di cemento preformato, con un tetto di lamiera, talvolta anche di paglia.

Ognuna ha un cortile che in realtà è un’aia, perché non è delimitato in alcun modo, nemmeno rispetto alla strada; del resto, ci sono torme di bambini che scorrazzano ovunque, strada compresa, visto che non ci sono veicoli. L’unico mezzo di trasporto per gli abitanti del quartiere è mezz’ora a piedi verso la strada principale, dove passano gli chapa, i furgoncini privati condivisi, pigiati fino all’inverosimile, che svolgono il trasporto pubblico in Africa, come zanzare impazzite che passano a intervalli irregolari e imprevedibili.

Il nostro autista si ferma, abbranca un bimbo che avrà cinque anni, lo manda a preavvertire che sta arrivando; il bimbo sparisce tagliando per il nugolo di casette. Noi seguiamo le tracce, piano piano, perché ovviamente più di dieci all’ora non si può fare; a un certo punto, davanti a una casa uguale e diversa (sono tutte fatte allo stesso modo, ma essendo autocostruite sono anche tutte un po’ diverse) ci fermiamo e scendiamo. E’ la casa del nostro autista. Da tutte le case all’intorno, le persone escono sull’aia; ci guardano come se venissimo da Marte. Entriamo.

La casa è buia e fatta di due stanzette (il buio è voluto, per resistere al calore). Il pavimento è di terra battuta, uguale all’esterno; e ogni angolo è buono per tenerci qualcosa. Più ancora che la casa in sé, colpisce ciò che c’è dentro: non è che non ci sia niente, ma sono quasi tutte cose che per noi hanno ormai poco senso, dalla bacinella per lavare a mano i vestiti al parallelepipedo di metallo che fa da cucina, con una pentola d’acqua sopra e la brace sotto. Nella camera da letto, per terra, sovrastate da un filo tirato tra le pareti che regge i panni stesi, ci sono le stuoie su cui si dorme; su una di esse c’è un bimbo di un anno che dorme tranquillo, avvolto in qualche panno. Ce lo mostrano, perché è l’orgoglio della famiglia.

C’è qualcosa di antico in tutto questo; in parte è come entrare in un museo, e vedere dal vivo immagini osservate tante volte in fotografia, ma mai di persona. Gli oggetti sono poveri e disparati, accumulati su qualche scaffale di legno. Non c’è acqua corrente – c’è un pozzo più in là nel quartiere – ma, cosa già rara per il Mozambico, arriva l’elettricità, anche se (credo) tramite un generatore da attivare alla bisogna. In tutta la casa, ci sono soltanto due cose del nostro mondo occidentale:
1) Un televisore, di tipo tradizionale e di marca sconosciuta, ma neanche troppo scarso;
2) Varie scatole di latte in polvere Nestlé.

Salutiamo, ripartiamo. Il nostro autista si mette a piangere d’orgoglio: deve avere tipo venticinque anni, e ci racconta di come è riuscito piano piano a trovare un lavoro, a risparmiare, a comprare il terreno, a costruire la casa, e nel frattempo sposarsi e avere dei figli. (Omette di dirci che ha numerose altre amanti e figli sparsi un po’ ovunque, cosa che per i mozambicani è del tutto normale, ma si sa che i bianchi hanno questo incomprensibile concetto della fedeltà coniugale.) Adesso, a forza di risparmiare, ha addirittura potuto comprarsi un Ipod tarocco cinese, l’oggetto più cool del momento, anche se poi ha bisogno che qualcuno gli carichi la musica.

A noi, la povertà materiale colpisce. Siamo talmente attaccati alle nostre cose che ci sembra impossibile poter vivere senza un divano, senza uno stereo, senza una lavatrice o un forno a microonde; la casa al mare o in montagna, la macchina, il vino e la coca-cola. Eppure, gli africani lo fanno; e poiché non sono stati (non ancora e non completamente) educati al ciclo del desiderio materiale da appagare ad ogni costo, non sono più infelici di noi. Anzi, la sensazione è che, tutto sommato, almeno fino a che questo livello di ricchezza materiale non diventa un problema per sopravvivere, per aver da mangiare, per le malattie, vivano come e meglio di noi.

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domenica 14 Settembre 2008, 10:40

L’uccello imbecille

Nel parco Kruger ci siamo fatti un nuovo amico: in lingua locale si chiama koro, ma per noi è l’uccello imbecille.

Si tratta di un uccello che di colore è bianco e nero, e già questo la dice lunga. Si è fatto subito notare perché, praticamente, non vola; zampetta attorno come se fosse un papero. Del resto, ha un corpo ridicolo; in particolare, sul corpo di un papero hanno montato un becco gigantesco, che si è incurvato verso il basso, presumibilmente per effetto del proprio stesso peso.

Durante la giornata, ne abbiamo incontrati vari esemplari: uno più imbranato dell’altro. Per esempio, uno attendeva sul bordo della strada, poi ha attraversato davanti a noi con un voletto a dieci centimetri da terra; ma atterrando si è inciampato sui propri stessi piedi, al che si è girato e con una piroetta è finito in mezzo alla strada faccia a terra, rischiando di essere investito. Un altro si è messo a passeggiare proprio accanto al veicolo del nostro safari, finché zampettando non è finito sotto la carrozzeria e ha battuto la testa.

Pensavamo già che questo uccello avesse tutte le sfighe del mondo, ma alla fine, in un glorioso tramonto, abbiamo capito che ne ha una davvero basilare: infatti l’abbiamo trovato intento a far cena, bello lì in mezzo alla strada e a rischio spiaccicamento, mentre divorava con gusto un gigantesco pallone di merda di rinoceronte grosso il triplo di lui.

Che dire: a vedere certe cose, uno comincia davvero a dubitare dell’evoluzionismo.

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sabato 13 Settembre 2008, 10:55

Leoni (3)

Siamo a fine giornata, e a fine viaggio. Il tramonto ormai incombe, e usciamo dal posto di controllo di Crocodile Bridge. La guardia ci controlla i documenti, e mentre ce li ridà, vista la targa mozambicana, ci dice “On the bridge, a liao!”. Dobbiamo farcelo ripetere tre o quattro volte, visto che il suo portoghese è peggio del nostro: alla fine capiamo, un leone.

Facciamo la curva; la strada scende fino al ponte sul fiume Crocodile, una specie di guado di cemento a pelo d’acqua, largo appena da far passare una macchina o poco più. L’ambiente è meraviglioso: a fianco svetta l’antico ponte della ferrovia, ora dismessa, e dall’altra parte ci sono alcuni grandi alberi, sulla salita che porta al cancello elettrificato oltre il quale cominciano subito i campi verdi e coltivati.

Sulla discesa ci sono tre o quattro auto ferme. Ne affianchiamo una, e chiediamo: ci mostrano una leonessa sotto un grande albero sull’altra riva, circa duecento metri a sinistra del ponte. Noi li snobbiamo; siamo stanchi, vogliamo uscire, anzi uno di noi li prende pure in giro: “Six lions, we already saw six lions just today!”. Così sorpassiamo le auto in sosta e imbocchiamo il ponte piano piano. Gli altri hanno già messo via tutto. Solo io accendo la macchina fotografica per il famoso scatto del ponte al tramonto, sperando che ci sia ancora batteria; chiedo di rallentare.

A quel punto, dall’altra parte, scendono di corsa tre gazzelle. Puntano il ponte verso di noi, e lo imboccano venendoci contro. Restiamo tutti sorpresi, non sapendo bene cosa succeda. Io sono il primo a capire: grido di fermare e di chiudere il finestrino. Dopo un paio di secondi, non più impallata dalle gazzelle che corrono, appare una leonessa. Corre, a una velocità incredibile. Viene dritta contro di noi. Avessi io il volante, forse mi verrebbe l’istinto totalmente insano di schiacciare sul pedale e prenderla sotto. Così, sono totalmente passivo: l’unica cosa che posso fare è girare la macchina fotografica verso davanti… ma vedo solo una leonessa che corre coperta da un bel simbolino di BATTERIA ESAURITA STO PER SPEGNERMI CREPA.

Tutto questo prende un altro paio di secondi, sufficiente perché una persona a bordo si metta ad urlare di terrore. Le gazzelle ci arrivano davanti; le prime due sono più veloci e sanno che gli è sufficiente pareggiare per salvarsi. Si infilano a velocità pazzesca, non so come, nei venti centimetri tra la macchina e il bordo senza ringhiera del ponte. L’ultima è quasi spacciata; ha forse mezzo metro di vantaggio sulla leonessa. Arriva davanti a noi e prende una decisione disperata: salta. Supera di slancio l’angolo del cofano, e con la coda dell’occhio vedo un culo di gazzella scorrermi accanto nel finestrino, all’altezza della mia testa; poi si sente il rumore del tuffo. Dubito che sappia nuotare, ma l’alternativa era peggiore; si è buttata in acqua per cercare di salvarsi, sapendo che la leonessa non la seguirà.

Intanto, gli occhi sono fissi sulla leonessa; non abbiamo idea di come reagirà. Non sappiamo se si butterà sul cofano, se se la prenderà con noi. Invece, nello spazio di un batter d’occhio, la leonessa si ferma, a mezzo metro dal nostro muso. Per un lungo momento, ci guarda con odio e con disprezzo. Poi si volta, e con la massima tranquillità torna indietro sul ponte, passo dopo passo.

Ci mettiamo un po’ a riprenderci; siamo tutti un po’ scossi, qualcuno fatica a respirare. Poi, piano piano, riprendiamo ad avanzare sul ponte. Saliamo, e la guardia all’uscita ci guarda e ride. Ci fermiamo subito fuori, e le auto che erano ferme prima del ponte ci raggiungono e ci dicono: tutto ok? esperienza forte, vero?

Forte, lo è stato; probabilmente non siamo stati veramente a rischio, ma eravamo completamente impreparati e con la sensazione di non sapere che fare. Però, sono situazioni che hanno qualcosa di arcano; ti risvegliano antiche conoscenze su una parte fondamentale della vita – la lotta per la sopravvivenza – che in noi è sopita o meglio rielaborata su piani completamente diversi. Ho come il sospetto che potremmo tornare al Kruger cento volte senza mai trovarci di nuovo in un caso del genere, anche se ho anche il sospetto opposto. Ad ogni modo, valeva assolutamente la pena di venire fin qui.

Deve anche essere destino che io non sia riuscito a riprendere l’evento. Ho caricato la macchina prima di partire per il weekend, ma si è caricata solo all’80% perché durante la notte qualcun altro (non facciamo nomi) ha staccato per errore e riattaccato male la spina del mio caricatore. Poi non sono riuscito a ricaricarla a Pretoriuskop, perché la capanna aveva la corrente ma non una presa. Infine, volevo comunque tenermi una goccia di batteria per le foto sul ponte di Crocodile, ma a pochi minuti dall’uscita è apparsa quella meravigliosa giraffa che ci guardava con gli occhioni dolci contro il tramonto… L’Africa fa di questi scherzi; comunque, l’unica foto che testimonia l’evento è qui.

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