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sabato 14 Luglio 2007, 18:59

Memento

Appunto dopo un giro all’Ikea di sabato pomeriggio: “Se ti viene voglia di avere dei bambini, fatti sterilizzare.”

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sabato 14 Luglio 2007, 13:08

Traffic, day 3

Ieri sera – perso Lou Reed per assenza fisica da Torino, e recuperati i Daft Punk perché non ci sono andato, ma dalla finestra di casa mia si sentivano benissimo: i residenti ringraziano – sono finalmente andato al Traffic, per l’attesa serata britannica.

Io e Andrea ci troviamo verso le otto, in attesa del materializzarsi delle donne, afferrando panino e birra da uno dei millanta baracchini attorno al festival (devono esserci pochi eventi quest’estate, visto che tutti i paninari del Nordovest paiono essersi allineati là).

Ignoriamo quindi il gruppo di coni che apre la serata, e ci sistemiamo nel vascone solo quando, alle otto e mezza, stanno per attaccare gli Art Brut. Sembrano le tre di pomeriggio e solo qualche centinaio di irriducibili è già pigiato davanti al palco.

Degli Art Brut ho già parlato; a me, a pelle, piacciono pure più degli Arctic Monkeys, nel senso che il genere è simile, ma gli Art Brut sono sardonici, veraci, e molto meno montati. La front line è composta dal cantante, uno che ha guardato alla moviola tutte le mosse e le pettinature di Morrissey, e dal chitarrista biondo posseduto dal demonio, che passa tutto il concerto a fare facce da film di Dario Argento.

Il concerto, proprio come il disco, è un caso di performing art, non solo per via di mossette, balletti e salti con la corda, ma perchè il cantante Eddie ogni tanto interrompe i pezzi a metà e si mette a raccontare i cazzi propri, o ad arringare la folla, ad esempio per raccontare di tutte le volte in cui è stato piantato dalla fidanzata ed invitare tutti i presenti a smetterla di pensare ai propri ex, che è solo una perdita di tempo. E’ un vero happening punteggiato dalla provocante semplicità dei testi; perchè Eddie non se la tira da santone come Bono, e i suoi pezzi, totalmente autoironici, parlano di due sole cose: di ragazze che l’hanno mollato o che si è fatto, e dell’obiettivo ultimo della sua vita, ossia mettere in piedi una band per apparire in Top of the Pops. E per facilitare l’obiettivo, oltre ad esporlo nel testo di una canzone su due, ha pure scritto un pezzo intitolato Top of the Pops, il cui testo è “Art Brut! Top of the Pops! Art Brut! Top of the Pops!”; ieri, nell’esecuzione live, ha inserito per cortesia anche i nomi degli altri gruppi in scaletta. Certo che deve esserci rimasto male, quando l’estate scorsa, dopo 41 anni di trasmissioni ininterrotte, la BBC ha cancellato Top of the Pops, proprio quando loro cominciavano ad avere successo: che sfiga.

Insomma, bel concerto e buon successo per gli Art Brut; alla fine, c’era già parecchia gente e sembrava apprezzare. Mezz’ora di cambio palco; tramonta ed entrano in scena i The Coral, gruppo di grande valore tecnico, che io apprezzo moltissimo sin da quando, nel 2002, vidi verso le due di notte su MTV il video di Goodbye. I Coral fanno di genere un mescolone tra gli ultimi anni sessanta e i primi anni settanta; c’è dentro il progressive, c’è dentro la psichedelia, ma con una base brit-pop tradizionale e concettualmente non lontana dai Travis o da altri gruppi britannici più mainstream. Di conseguenza, si presentano in scena con chitarre panciute e batteria scarna alla Ringo Starr (un piatto orizzontale e un charleston).

Ora, è chiaro che la loro musica è complicata per un festival: sul palco sono in sei, ci sono ennemila chitarre che cambiano continuamente, una base di organetto che (per esperienza) è sempre difficile da mixare, e pezzi dalla struttura non facile. Certo che se poi l’organizzazione non li aiuta, regolando il volume a livello da lounge… Io ero a dieci metri dal palco e non sentivo nulla; attorno a me, la gente chiacchierava tranquillamente senza nemmeno accennare ad urlare, e il chiacchiericcio copriva la musica; chissà più indietro cosa avranno sentito. A un certo punto volevo organizzare una colletta per regalare un paio di ampli al Traffic, che peraltro ha maltrattato i Coral in tutti i modi: per dire, quando hanno fatto She Sings The Mourning, la cui caratteristica è una chitarra suonata con l’archetto, il regista del maxischermo ha inquadrato qualsiasi cosa – cantante, dettagli del charleston, gente che cazzeggiava in platea, persino tre minuti di bassista che faceva sempre le stesse due note – ma non una volta il benedetto archetto; e dillo, regista, che non ti sei nemmeno documentato tre minuti per capire chi cavolo sono i The Coral e che canzoni fanno! Chiude in bellezza l’omino delle birre che passa tra il pubblico con una lampadina da 200 watt e un compressore che spara ottanta decibel di rumore assordante, nel bel mezzo dei pezzi d’atmosfera: capisco che il Traffic debba arrotondare, però un minimo di rispetto per la musica potevano pure mettercelo.

Loro, poveracci, ce l’hanno messa tutta e hanno fatto un bel concerto; la musica dei Coral è magica e affascinante, ma anche energetica (a fine concerto spaccano tutto con il finale di I Remember When). Peccato che la platea, già alla ventesima fila, fosse piena di tarri che erano lì solo per gli Arctic Monkeys o magari solo per le canne, e che li hanno cagati di striscio solo quando hanno fatto In The Morning, il singolino poppettaro che ormai tocca fare pure alle band indipendenti. Questi sono i casi in cui ti chiedi se non sarebbe meglio far pagare dieci euro ed evitare il tarrume; del resto, se tutti gli altri festival d’Italia sono a pagamento un motivo ci sarà.

Comunque, ormai è notte, e il cambio palco successivo è lungo ed estenuante, mentre il vascone della Pellerina ormai è pieno e impaziente; noi ci siamo spostati in fondo, per tranquillità. Alla fine, parte una musica introduttoria e salgono sul palco i figli degli Arctic Monkeys, quattro ragazzini brufolosi, per presentare il concerto. Dopodiché, a sorpresa, si siedono agli strumenti; il batterista, un tredicenne panzuto che pare uscito da una sitcom, si siede sul seggiolino, butta per terra la carta di un paio di Mars, si schiaccia un brufolo, poi prende le bacchette e attacca una mitragliata mai vista per lanciare The View From The Afternoon. Oddio, ma sono loro gli Arctic Monkeys!

Dopo tre pezzi ho capito il trucco dietro alla band; praticamente, il bambino panzuto, tra un panino con la Nutella e una manciata di M&M’s, spara delle basi di batteria mai viste, al che gli altri tre diventano abbastanza irrilevanti, e in particolare il chitarrista può dedicarsi ad assoli e virtuosismi degni del miglior Ghigo Renzulli (in qualche caso mi è venuto da dirgli “dai, scendi, salgo sul palco io con la chitarra di Guitar Hero e faccio degli assoli più tecnici”). Sono comunque ammirato; perché questi ragazzini mettono insieme una macchina da guerra che macina note a velocità supersonica, e ogni tanto ci infilano pure una spruzzatina di blues o un po’ di lentuccio. Ok, sono travolti dal successo, in buona parte perché gliel’hanno costruito attorno apposta, ma la musica è più che piacevole.

Ciò nonostante, a metà del loro concerto ce ne andiamo esausti, e ci diamo appuntamento per il sabato sera con Battiato. Speriamo solo che il pubblico tarro dei Subsonica non si metta a minchionare ad alta voce sulla metafisica del Maestro.

[tags]traffic, torino, festival, art brut, the coral, arctic monkeys[/tags]

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venerdì 13 Luglio 2007, 15:28

Domande tecniche

Ma se io prendo un videofonino e, spingendo, ci infilo dentro una sull’altra una SIM di 3 e una SIM di Uno Mobile, poi quando lo accendo vedo Retequattro?

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venerdì 13 Luglio 2007, 10:43

Promozione

Da una settimana – il giorno della presentazione della nuova 500 – passa sulle reti televisive un lungo spot della Fiat, in alcune varianti; certamente l’avete visto – in ogni caso è qui.

Detto che la nuova 500 mi sembra molto bella e che se ne facessero una versione diesel sopra i cento cavalli potrei anche prenderla, la campagna di presentazione è stata degna di nota, soprattutto perchè, a fronte di una spesa notevole, la macchina si è vista poco. E’ vero che la 500 si vende da sola, visto che è associata a un ricco patrimonio di emozioni, almeno per gli italiani sopra i trent’anni; è vero che hanno fatto un vero e proprio show mobilitando tutta Torino. Ma nella campagna pubblicitaria, la 500 si vede pochissimo.

Tuttavia, secondo me lo spot è insieme bello ed azzeccato. Bello perchè sfugge alle normali regole commerciali e cerca di porsi oltre la necessità di vendere il prodotto; cerca invece di identificare la Fiat con l’Italia e quindi con i suoi clienti. In questo, ci sono effettivamente alcune scelte che per la Fiat sono storiche, come quella di aprire lo spot con le immagini degli operai in corteo negli anni ’70: per una azienda dove ancora dieci anni fa una parte integrante della formazione dei giovani quadri era andare a fischiare dall’interno quelli che fuori scioperavano, è un salto culturale notevole (per quanto si possa discutere su quanto esso sia sincero, e quanto di facciata).

E quindi, è azzeccato, perchè uno dei problemi dell’Italia attuale è la mancanza di valori e di modelli, spariti in un gorgo di degrado morale ed economico di cui spesso non si vede l’uscita. Lo spot, invece, presenta sotto il marchio Fiat un’Italia opposta, quella che pensiamo di aver perduto. Dice che la Fiat sta insieme a quanto di più nobile o esaltante ha fatto l’Italia, da Giovanni Falcone a Valentino Rossi. Soprattutto, dice che la Fiat ce l’ha fatta, la Fiat sa come si esce dalla crisi di mercato e di valori, e vorrebbe estendere questo successo a tutta l’Italia.

In altre parole, affidatevi a noi, non solo come produttori di automobili, ma come nuova guida morale ed economica del Paese.

Insomma, quanti mesi mancano alla candidatura di Montezemolo a prossimo Presidente del Consiglio?

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giovedì 12 Luglio 2007, 14:13

La diversità della sinistra

Devo dire che quelli di Sxnet dovrebbero pagarmi: il mio post ha dato vita ad un thread che è di gran lunga il più frequentato di tutto il sito. Certo, la risposta più frequente a qualsiasi argomento venga portato è “Noi il Partito Democratico non lo voteremo mai”, che è peraltro ciò che pensa il 99% degli italiani (il rimanente 1% sono quelli che hanno un parente nei DS o nella Margherita), ma non mi sembra una risposta coerente alle mie osservazioni.

Comunque, immaginate quant’è stato buffo ieri sedersi sul Leonardo Express (“express” è una battuta, visto che impiega 31 minuti per percorrere una ventina di chilometri) da Fiumicino a Termini, e trovarsi accanto a due tizi, uno dei quali aveva una spilla con una stella rossa con la faccia di Garibaldi (credo), chiaramente appartenenti a Rifondazione; ovviamente, discutevano di poltrone.

In particolare, discutevano delle nomine in un gruppo di 32 persone (forse il direttivo nazionale, o un qualche gruppo costituente del nuovo ammassone Rifondazione – PdCI – Verdi – ex sinistra DS), di cui 28 sarebbero state indicate dal partito, e quattro dalla “società civile”, quindi al di fuori dei dirigenti del partito; e di un tal Domenico Jervolino di Napoli, che non rientrando nella lista dei 28, pur essendo un dirigente del partito, doveva assolutamente essere fatto rientrare in quella dei quattro, a nome di un “forum”, trombando così la persona indicata dai partecipanti e che avrebbe legittimamente potuto rappresentare il forum suddetto. E così, tra racconti di conversazioni con Fausto [Bertinotti] e con Walter [De Cesaris, il segretario organizzativo di Rifondazione], mi sono subito mezz’ora di racconti di maneggi e strategie di ogni genere per l’accesso alle poltrone.

Mi spiace solo non aver registrato la conversazione: l’avessi postata su Sxnet… beh, no, mi avrebbero detto che l’avevo fabbricata io e che sono un provocatore pagato dalla CIA, e poi avrebbero invocato una legge per proteggere i poveri politici dalle intercettazioni, che anche loro hanno diritto a maneggiare in santa pace. Sempre in nome del popolo, beninteso.

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martedì 10 Luglio 2007, 14:22

Litigare da adulti

Ho cercato duramente di non parlare di questa storia; alla fine, però, non ci sono riuscito, visto che dopo una settimana continua ad essere su tutti i giornali.

Mi riferisco al giovanissimo (in termini italiani, visto che ha 31 anni) rampollo della famiglia che possedeva la De Agostini, Achille Boroli, che una settimana fa è finito sulle prime pagine per un tentato rapimento: stando al suo racconto, tornando a casa dal lavoro all’ora di cena, sarebbe stato inseguito in autostrada da Milano a Novara, quindi speronato al casello per fermarlo; sarebbe poi riuscito a fuggire soltanto grazie alle sue grandi capacità di guida al volante del suo macchinone.

Naturalmente, la storia non aveva granché convinto la magistratura: è difficile immaginare che una banda di rapitori, per quanto maldestra, possa scegliere come luogo del rapimento il casello autostradale di Novara Est all’ora di punta, con decine di auto ferme in coda, e una telecamera ogni centimetro quadrato.

E così, proprio grazie alle telecamere, è stata rintracciata l’auto dei presunti rapitori, che si sono rivelati essere due elettricisti del novarese. Essi hanno prontamente rilasciato interviste a ogni giornale e telegiornale d’Italia per raccontare la propria versione; che pare, onestamente, un po’ più credibile. Secondo loro, mentre in mezzo al traffico quasi cittadino della Milano – Torino sorpassavano un camion con il loro furgoncino, Boroli – bloccato dietro col suo macchinone – non avrebbe gradito, e avrebbe cominciato a fare fari prima e gestacci poi, sfrecciando via. Dopodichè, arrivati al casello di Novara, i due elettricisti hanno ritrovato quell’auto, bloccata nella corsia del Telepass perchè non riusciva a farlo funzionare; così, l’hanno aspettato subito dopo il casello per dirgliene quattro. L’altro, senza scendere, avrebbe ripetuto i gestacci di scherno, provocando risposte adeguate, e poi sarebbe scappato con manovre spericolate nel traffico.

Ora, non sapremo mai chi ha fatto cosa veramente; pare chiaro però che questa è stata una classica lite da traffico portata un po’ troppo avanti, certo non un tentato rapimento. Sarebbe sembrato meglio a tutti stendere un velo pietoso e piantarla lì, insomma.

E invece no: perchè ieri mi son dovuto sorbire il Boroli, intervistato dal TG5, che raccontava con faccia compunta che “comunque quei due mi hanno fatto tanta paura”, allo stesso tempo negando di aver mai parlato di rapimento (dar la colpa ai giornali non fa mai male).

Anche io sono uno di quegli automobilisti che ogni tanto, davanti a uno che si addormenta nel traffico o che fa una manovra vietata o pericolosa, fanno i fari. In genere finisce lì, ma una decina di anni fa quello davanti – un tizio strafatto dei suburbi grugliaschesi – cercò di buttarmi giù a portellate dal cavalcavia di Collegno; la cosa terminò solo per il pronto intervento di un carabiniere che passava di lì. Il punto, però, è che se lo fai devi essere pronto ad assumertene le conseguenze; se poi ci si mena, perlomeno è il caso di prendersi le proprie legnate con dignità, oppure, se non ci si vuol far male, di porgere il collo senza dignità, come i lupi sconfitti nel combattimento (che poi è quello che farei io, che certo non mi vado a menare).

Invece, fare i fari, poi scappare se l’altro reagisce, e poi chiamare la mampolizia e pretendere di avere ragione è un comportamento veramente triste. Ricorda gli ultras di una certa squadra di calcio bianconera nel loro leggendario scontro con i tifosi del Genoa (Monza, 2005), con tanto di video: per i primi due minuti marciano spavaldi con le mazze in mano, a provocare gli avversari; per il resto del video scappano a gambe levate prendendosi mazzate a ripetizione. Ma almeno non hanno chiamato la polizia.

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lunedì 9 Luglio 2007, 15:37

Customer service

Oggi a pranzo, come tutti i lunedì, siamo andati a mangiare kebab da Demir, il turco di piazza Adriano. Anche lui, come tutti i locali, ha un turbinio di camerieri con un tasso di ricambio da call center, in numero probabilmente insufficiente rispetto ai tavoli; anche lui aumenta i prezzi appena può. Eppure, sa che il suo cliente è ciò che fa la differenza tra vivere e perire: per cui, quando oggi il cameriere ha combinato un casino e la nostra ordinazione si è persa per una mezz’oretta, lui se ne è accorto e ci ha subito omaggiati di un piatto di patatine, che a lui saranno costate trenta centesimi, ma che hanno cambiato la nostra percezione del servizio.

Vorrei confrontare il tutto con la cena di ieri; in quattro, siamo andati a mangiare Da Michele in piazza Vittorio, un posto noto da anni come trattoria alla buona dai prezzi modici. Nonostante avessimo prenotato, i camerieri (indaffarati, perché il locale era pieno e anche lì il personale è accuratamente sottodimensionato) si sono impegnati per ignorarci per un buon quarto d’ora; alla fine, siamo riusciti a sederci soltanto afferrando fisicamente la padrona e costringendola a indicarci il tavolo. Siamo stati serviti da una povera ragazza che era tanto simpatica, ma ha rovesciato la birra quando l’ha portata, si è inciampata da sola finendo pancia sul tavolo portando i primi, e si è dimenticata un paio di volte di venire a vedere a che punto stavamo, lasciandoci lì in attesa e alla mercè delle zanzare. I piatti del giorno erano pubblicizzati ampiamente su varie lavagne e dai camerieri, ma ovviamente senza indicazione di prezzi; alla fine, mangiando benino ma niente di speciale, con porzioni in qualche caso abbastanza sparagnine, abbiamo speso 35 euro a testa (mezzo antipasto, primo, secondo, mezzo dolce, birra). Difficilmente ripeteremo l’esperienza.

Capisco che ai settori tecnologici abbiamo rinunciato, e come Paese puntiamo tutto sul turismo. Però c’è da sperare che vengano più turchi; magari riusciranno a insegnarci come far funzionare un ristorante.

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domenica 8 Luglio 2007, 11:26

Due estati fa

Come avrete sentito dai telegiornali, ieri era il secondo anniversario degli attentati di Londra del 7 luglio 2005, che causarono oltre cinquanta morti e settecento feriti.

Sono attentati che hanno lasciato un segno sugli inglesi. Per esempio, nel settembre successivo, io partecipavo come membro della delegazione italiana a una seduta negoziale durante l’ultimo incontro preparatorio per il WSIS di Tunisi; l’Europa era rappresentata dalla presidenza di turno, ossia dagli inglesi, per cui tutti gli altri europei, me compreso, potevano soltanto osservare. L‘Inghilterra aveva mandato un ragazzo più o meno della mia età, di origine francese, ma elegante e flemmatico proprio come ci si aspetterebbe da un diplomatico inglese. A un certo punto, durante la discussione di un paragrafo sulle esigenze di sicurezza su Internet, una signora di un paese centramericano – mi pare il Guatemala – si alzò e chiese che venisse introdotta una ulteriore menzione dell’importanza di rispettare i diritti umani, anche quando questi limitassero la protezione della sicurezza. L’inglese rispose gentilmente che il testo che veniva presentato rappresentava già un ottimo compromesso in materia. La signora insistette, e disse che secondo lei il testo era troppo sbilanciato a favore delle attività di polizia. Sempre con calma, l’inglese le spiegò che la posizione dell’Unione Europea era quella inserita nel testo. La signora si accalorò un po’ di più, e cominciò a dire che per il suo Paese i diritti umani erano fondamentali, e che i paesi sviluppati avevano un approccio troppo autoritario a queste materie, specie nei confronti degli stranieri. Lì, l’inglese d’improvviso perse la calma, e cominciò quasi a gridare: che il suo governo aveva bisogno di riportare la sicurezza a Londra, che il mondo è pieno di malintenzionati, e che lui, personalmente, passava tutti i giorni in metropolitana per due delle stazioni che erano state fatte esplodere.

Due estati fa, una settimana dopo, io ero a Lussemburgo, nel bel mezzo di un meeting di ICANN (ho già parlato di questo episodio, ma mai nel dettaglio). Il meeting era cominciato un paio di giorni dopo gli attentati, ed era stata dura convincere gli americani a non cancellare tutto: molti di loro avevano paura di mettere un piede fuori dal loro paese. Il 14 luglio, si teneva il classico forum pubblico, dove tutti i partecipanti si radunano. All’inizio della mattinata, Vint annunciò che anche ICANN si sarebbe adeguato ai due minuti di silenzio proclamati in tutta Europa per mezzogiorno. Dopo un attimo di confusione, gli fecero notare che l’ora era mezzogiorno di Londra, ossia l’una in Lussemburgo. Lui allora rispose che siccome il meeting sarebbe finito attorno a mezzogiorno e mezza, all’una non ci sarebbe stato nessuno; per cui avevano deciso di fare due minuti di silenzio a mezzogiorno.

E così, a mezzogiorno, la discussione fu interrotta di colpo e facemmo i nostri due minuti di silenzio. Poi si riprese a parlare, e, come spesso accade, il meeting si prolungò; e così, all’una eravamo ancora lì. A quel punto, Vint interruppe la discussione, e chiese di fare altri due minuti di silenzio.

Facemmo anche quelli, ma ammetto che furono due minuti lunghi e pieni di pensieri; non certo perchè non volessi onorare le vittime di quegli attentati, ma perché era evidente come la formalità del gesto, che non era accaduto in altri casi, volesse sottintendere un trattamento speciale. Avrei voluto andare al microfono e spiegare che proprio in quel giorno cadevano i dieci anni dalla strage di Srebrenica, in cui settemila, forse ottomila musulmani bosniaci furono massacrati dai cristiani serbi, e che sarebbe stato il caso di ricordare anche loro.

Dopodiché, capii che non sarebbe servito a molto; che sarebbe stata presa come una provocazione, forse anche come un tradimento. Eppure, usciti dalla sala, prendemmo l’autobus per tornare al nostro albergo; e mi trovai di fronte a Khaled, un elegantissimo signore siriano, cresciuto in Libano, poi vissuto in America, ora devoto alla causa dei nomi di dominio in arabo. Era nervoso e un po’ arrabbiato, e non ci fu bisogno di parlare per capire che stavamo pensando la stessa cosa.

Ci sono due modi di affrontare le morti, quando accadono per motivazioni politiche, religiose o sociali: con umana pietà, o con cieca vendetta. Io credo nella prima; i morti non si possono classificare né ordinare per importanza, e nemmeno distinguere in buoni o cattivi. Non si possono dividere in nostri e loro, e nemmeno bilanciare a peso, come in una legge del taglione; quando derivano da un conflitto prolungato, è futile cercare di individuare chi ha cominciato, o di chi sia la responsabilità. L’unica cosa che si può fare è onorarli tutti, come stiamo facendo qui, ed evitare che ce ne siano altri.

Eppure, a me spaventa vedere così tante persone, anche di alto livello culturale e di buona posizione sociale, dividere il mondo in un qui e un altrove; non solo confondendo la Galizia con la Galazia, come al forum di ICANN l’altra settimana, ma non avendo il minimo interesse a sapere dove siano. Perchè là, fuori dal territorio conosciuto, ci sono i leoni; non una civiltà, ma un gruppo animale da cui difendersi.

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sabato 7 Luglio 2007, 22:10

Globalizzazione è…

…una soprano cinese che canta e gorgheggia sopra la base di Con te partirò di Andrea Bocelli, al concerto di Shanghai del Live Earth. (Ora in diretta sia su MTV terrestre che, coi Keane, su MTV Brand New, canale 706 di Sky.)

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sabato 7 Luglio 2007, 11:50

[[Art Brut – My little brother]]

La settimana prossima, a Torino, c’è Traffic: l’ormai consueto festival gratuito di musica al parco della Pellerina, quest’anno esteso a quattro serate.

C’è chi si esalta per mercoledì, la sera del bollito misto (suona Lou Reed); chi per sabato, con Battiato e i Subsonica. Ma per noi duri e puri della musica indipendente, la serata clou è venerdì, con nientemeno che gli Art Brut, i Coral e infine gli Arctic Monkeys: tre dei più famosi gruppi di indie britannico degli ultimi anni.

Se gli Arctic Monkeys sono famosi e i Coral dalla sostanziosa radice progressive sono un mio mito da anni, gli Art Brut sono i meno conosciuti in Italia; in effetti, quando mio zio me li ha fatti sentire mesi fa, nessuno li aveva mai sentiti nominare. Eppure, su Radio Flash, nelle ultime settimane, passa a ciclo continuo una canzone dei Tre allegri ragazzi morti (quelli del fumettista cult Davide Toffolo) intitolata Mio fratellino ha scoperto il rock’n’roll.

Bene, come si evince facilmente anche dal testo, è una traduzione letterale di questo pezzo degli Art Brut: che, come dice il titolo, fanno un punk a bassa fedeltà, ribelle e adolescenziale come tutto il vero punk, e volutamente suonato malissimo. O forse non volutamente, visto che il loro primo singolo aveva per ritornello “Formed a band / We formed a band / Look at us / We formed a band”. Enjoy, e ci vediamo il 13.

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My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
There’s a noise in his head, and he’s out of control

And yes it frustrates
Let’s let him make his own mistakes
On the dance floor watch him go now
Boy those moves I just don’t know how

My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
He’s only 22 and he’s out of control

How’s he living?
With all of that unforgiving
On the dance floor watch him go now
Boy those moves I just don’t know how

My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
He’s only 22 and he’s out of control

He no longer listens to A-sides
He made me a tape of bootlegs and B-sides
And every song, every single song on that tape, says exactly the same thing
Why don’t our parents worry about us?
Why don’t our parents worry about us?

My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
He’s only 22 and he’s out of control

My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
There’s a noise in his head, and he’s out of control

My little brother just discovered Rock & Roll
My little brother just discovered Rock & Roll
Stay off the crack!

[tags]art brut, traffic, torino, festival, tre allegri ragazzi morti[/tags]

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