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venerdì 3 Luglio 2015, 11:51

Torino avrà il PEBA: un risultato a cinque stelle

Spesso si sente dire che il Movimento 5 Stelle sa dire solo “no”, che non fa mai proposte costruttive, che non è capace a dialogare con le altre forze politiche per ottenere dei risultati. Oggi vi racconto una storia che dimostra esattamente il contrario: il Movimento 5 Stelle è riuscito, dopo quasi trent’anni di attesa, a ottenere che la Città di Torino realizzasse il Piano di Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA), un adempimento previsto da una legge del 1987 a cui il Comune non aveva mai ottemperato.

Ovviamente, non è che la Città non abbia mai lavorato per eliminare le barriere; tuttavia, lavorando su questo tema nei primi anni di consiglio comunale, ci siamo resi conto che il problema è ben lontano dall’essere risolto, grazie anche a diversi cittadini e comitati di disabili che hanno preso a collaborare con noi.

Spesso, le barriere restano perché prevale la visione incurante di qualche architetto, come sulla copertura del passante ferroviario alla Crocetta dove le meravigliose pavimentazioni in ciottoli dei controviali li rendono inaccessibili a una carrozzina (già anni fa, con una interrogazione, riuscimmo ad escludere questa scelta per il resto della copertura). Alle volte le questioni sono organizzative: per esempio alla chiesa della Consolata le auto dei disabili non arrivavano perché non si sapeva come farsi abbassare il pilomat che blocca l’accesso dei veicoli non autorizzati alla piazza. Talvolta si tratta di problemi di competenza rimpallata, come quella farmacia che ha abbattuto le barriere fino al proprio ingresso, che però si trova sotto il portico di un caseggiato separato dal marciapiede da tre gradini. Spesso, poi, è proprio una questione di elusione delle norme: alle volte i commercianti che ristrutturano il negozio, pur essendo tenuti a eliminare le barriere, presentano un progetto senza barriere e poi lo modificano nella realizzazione rimettendo le barriere, tanto il Comune non manda mai nessuno a controllare. E poi non ci sono solo le barriere fisiche per le carrozzine; ci sono le barriere comunicative e sensoriali, quelle associate ad altri tipi di disabilità (per esempio i ciechi o i sordi).

Per questo motivo, ci siamo resi conto che una pianificazione è necessaria, per dare una sistematicità e una uniformità al processo di eliminazione delle barriere; e quindi, con l’aiuto del nostro Gruppo di lavoro Urbanistica, abbiamo preparato e presentato un anno fa una mozione che chiedeva la realizzazione del PEBA.

Dopo averla presentata, abbiamo scoperto che l’associazione Luca Coscioni e i radicali stavano avviando una petizione per chiedere la stessa cosa. E dato che a noi interessa innanzi tutto l’obiettivo, abbiamo deciso che era meglio unire le forze; abbiamo sospeso l’iter della mozione attendendo che venissero raccolte e presentate centinaia di firme, cosa che è avvenuta negli ultimi mesi. In questo modo, la nostra mozione è stata sottoscritta anche dal radicale Viale, che fa parte della maggioranza; e poi, in commissione, abbiamo accolto i suggerimenti di numerosi altri consiglieri sia di maggioranza che di opposizione, che hanno aggiunto altri punti utili alla mozione, aggiungendo anche le loro firme. A quel punto, visto il consenso generale, anche la giunta, prima ancora dell’approvazione dell’atto, ha cominciato a ragionare su come attuarlo.

In questo modo, siamo arrivati lunedì scorso in consiglio comunale con un sostegno generalizzato alla proposta di mozione, che è stata approvata all’unanimità. Tra i punti che abbiamo inserito, c’è anche quello per cui il piano dovrà essere elaborato coinvolgendo direttamente i disabili e tutti i cittadini, anche tramite il Web e strumenti innovativi, in modo da evitare lavori inutili e affrontare prima le priorità.

Ora il nostro lavoro è finito, e la palla passa all’amministrazione comunale, che dovrà stendere il piano e poi realizzarlo nel tempo. Continueremo comunque a fare fiato sul collo; resta la soddisfazione di avere dimostrato che, con una buona proposta e con la capacità di dialogare con le altre forze politiche, il Movimento 5 Stelle può smuovere anche questioni vecchie di trent’anni.

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martedì 30 Giugno 2015, 21:46

L’Agenzia delle Entrate alla prova del Web

Penso che pochi ormai non abbiano avuto l’esperienza di usare il sito dell’Agenzia delle Entrate, un mostro a nove teste a confronto del quale il sito Trenitalia è un capolavoro di usabilità; io ne ho parlato varie volte su Facebook e ho scoperto che tanta gente ci sbatte la testa ogni giorno. Stasera, però, si sono superati: e quindi vi invito con me in un piccolo viaggio nell’orrore digitale.

Oggi mi è arrivata a casa una lettera dell’Agenzia: è un controllo sulla mia dichiarazione Unico 2013. Vogliono che gli mandi dei documenti a riprova di ciò che ho dichiarato, e specificamente il CUD (ma possibile che non ce l’abbiano già?) e la certificazione dei versamenti nella pensione integrativa. Allegato alla lettera c’è un intero foglio che presenta il servizio telematico CIVIS, utilizzabile per inviare i documenti in via telematica, spiegando come arrivarci dalla home del sito dell’Agenzia, e aggiungendo che non sarà affatto difficile: “Il sistema è costruito in modo tale da guidare l’utente nella procedura”.

Bene, ovviamente è una perdita di tempo, ma sono solo due documenti; uno è già in elettronico, l’altro lo scansiono al volo, e poi mi collego al sito. Apro una pagina a caso del sito dai preferiti, cerco la voce “Servizi on line”… non c’è. Torno alla home, la voce appare in alto, clicco, ora mi dicono di cercare “Servizi con registrazione”: non c’è. Ci sono alcune voci, intuisco che devo cliccare invece su “Servizi fiscali”, e solo allora appare una pagina con “Servizi con registrazione”: si son dati la pena di stampare e inviare istruzioni “passo passo” sbagliate.

Ora devo cercare “CIVIS – presentazione documenti per il controllo formale”. Clicco su “Civis”: non appare alcun menu, ma un muro di testo con sotto un pulsante “accedi al servizio” (e secondo te cliccando su “Civis” cosa volevo fare?). Riclicco, e viene fuori una pagina in cui non c’è alcuna voce “presentazione documenti per il controllo formale”:

Solo dopo un po’ di bestemmie e di clic a caso mi rendo conto che io ho acceduto al servizio, ma il menu di sinistra non si è aperto alla voce “Civis”, bensì alla precedente voce “Comunicazioni”, che non c’entra niente. Ringraziando per il baco, clicco anche a sinistra su “Civis” (è la terza volta che clicco su “Civis”) e finalmente arrivo alla home giusta, col sottomenu giusto… ma nemmeno qui c’è la voce “presentazione documenti per il controllo formale”.

Ma come per magia, se cliccate sulla seconda voce (che non c’entra niente), ovvero “Assistenza per cartelle di pagamento”, l’ultima voce del sottomenu cambia e diventa appunto “Presentazione documenti per il controllo formale”:

Ma solo se cliccate sulla seconda, eh, che se cliccate invece sulla terza il menu cambia ancora, la voce che serve a me sparisce, e in compenso ne compare una nuova in mezzo, portando le opzioni disponibili a sei:

Ok, comunque ho capito che la voce che serve a me è l’ultima, al di là del fatto che cambi nome a ogni clic. Ci entro e viene fuori una sobria e immediatamente comprensibile pagina di benvenuto nella procedura di invio documenti; del resto, “Il sistema è costruito in modo tale da guidare l’utente nella procedura”.

La prima voce rimanda nientepopodimeno che a un manuale di istruzioni. Ma che istruzioni serviranno? Devo inviare due PDF, sapete quel formato che usa tutto il mondo per scambiarsi continuamente documenti. Invece ci sono una pagina e mezza di istruzioni che vi invito a leggere se volete farvi del male: sono una perla di tecnicismi inutili, convenzioni superflue (ma che te frega di come chiamo i file? rinominateli tu dal tuo lato) e suggerimenti incomprensibili al 99% degli italiani. Comunque, capisco subito che sarà durissima in quanto non va bene un normale PDF, ma ci vuole un “PDF/A (PDF/A-1a o PDF/A-1b)”: chiaro no?

Mi accingo dunque a provare col primo documento: è una pagina scansionata in PDF. Non fidandomi, decido di provare la “Funzione di validazione e conversione file”. Clicco, e appare un modulo in cui posso inserire un file, corredato da una tendina “descrizione allegato” che però non permette di descrivere il file, ma ha solo due opzioni disponibili: “PDF/A” e “TIFF”. Già, perché capire da soli che tipo di file sto inviando, tra ben due possibilità, è un compito tecnico oltre la portata dei programmatori dell’Agenzia dell’Entrate.

Mando il file e… non va bene: mi risponde che “Il documento utilizza caratteristiche non idonee alla conservazione nel lungo periodo”. Cosa voglia dire non si sa, come rimediare nemmeno; ah no, guarda che gentili, c’è una comoda opzione “Converti”. Bene, ci clicco e… mi dice “non è stato possibile effettuare la conversione del file”. Mapporc… è un banalissimo PDF di una pagina!! Creato dall’anteprima del Mac, come i PDF di mezzo pianeta!

Va bene, allora proviamo col TIFF. Apro in Anteprima, salvo in TIFF: 8,5 MB… ma come avrete letto nelle istruzioni, il limite è 5 MB. Ok, riapro, e scalo l’immagine (tutti i contribuenti italiani sono esperti di manipolazione delle immagini, quindi questo non è un errore di usabilità). Ottengo un file di 4,8 MB, che peraltro è appena leggibile. Provo a validarlo, aspetto che carichi, carica, carica, e… “Il file sottoposto a validazione non è un TIFF valido.”

Ma come, non è un TIFF valido? Ma che razza di problemi può avere un TIFF? Comunque, anche qui propone di convertire. Converto? Non ho molta fiducia, ma tentar non nuoce, e… miracolosamente ce la fa! Non allego i file perché ci sono dei miei dati personali, però il nuovo file TIFF è passato da 4,8MB a 15KB, bicolore, ed è molto malamente leggibile: ho il dubbio che poi, mandandolo, mi diranno che non è leggibile; ma se lo son fatti loro…

Bene, quindi ho caricato il primo file e posso passare al secondo? No, perché nella schermata che viene fuori c’è scritto… cioè, non c’è scritto niente, se non un solo pulsante: “SCARICA”. Cioè, non è che si son già presi il file: adesso io devo SCARICARE il loro nuovo file per poi cliccare e RICARICARE lo stesso file nel modulo successivo!! Giuro, ho fatto lo screenshot perché non ci potevo credere…

Comunque, ora posso passare al secondo file: il mio CUD. E’ già in PDF, generato dai sistemi informativi del Comune di Torino. Provo a caricarlo così, e ovviamente non va bene: “Il documento utilizza Profili Colore con caratteristiche non idonee alla conservazione nel lungo periodo”, e inoltre non è possibile convertirlo. Lo salvo in TIFF? Ok, ma sono quattro pagine: 34,7 MB, e ridurlo sotto i 5 MB non è più così facile (è complesso da fare anche per me). Provo a ridurlo un po’, ma il minimo perché sia leggibile sono 8 MB. Bene, visto che la conversione lo riduce di 200 volte, me lo ridurrà lui, no? No. Aspetti tutto il caricamento e poi ti dice: “File superiore a 5 MB”.

Allora mi viene un’idea: sul portatile non ho alcun programma per generare dei PDF/A; li fa Openoffice, ma solo partendo dal testo di un documento, non da un PDF già bello e pronto e pieno di grafica. Però, possibile che non ci sia un convertitore da PDF a PDF/A online? C’è: è questo. Carico il PDF del mio CUD (cioè, non è una bella cosa dare il mio CUD al primo sconosciuto in giro per la rete, ma se non ho alternative… grazie, Agenzia delle Entrate!), scelgo PDF/A, aspetto la conversione, scarico, metto nel validatore… e non gli va bene lo stesso: “Il documento utilizza font con caratteristiche non idonee alla conservazione nel lungo periodo”. Però stavolta, premendo “converti”, ce la fa. Alleluia!

Ok, allora passiamo a “Invio documentazione”. Compare un modulo, compilo il primo campo, compilo il secondo, compilo il terzo… e solo alla fine c’è scritto che posso compilare solo il terzo. Ma scrivetelo in fondo, eh! (però ci sono due asterischi vicino al nome di ogni campo, come ho fatto a non capire che era una nota da leggere subito)

Invio il modulo, apprestandomi a caricare i file, e invece no: a questo punto (a due terzi della procedura) il sistema decide che io non ho ancora verificato la mia mail. Cioè, è la stessa mail che usano da anni tutti gli altri servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate, ma lui no, lui non ci casca! Mica è un babbo credulone come Fisconline, lui vuole la verifica della mail.

Clicco sul link di verifica, e invece di venir fuori una pagina di verifica, viene fuori la pagina per cambiare la propria mail. Ma io la voglio solo verificare! In più, al fondo c’è questo fantastico pezzo di modulo, senza alcuna barra di scorrimento, che voglio proporvi come un’opera di arte contemporanea perché lo merita:

Bene, inserisco i miei dati nella parte alta, invio, e cosa succede? Ricompare la stessa pagina di prima, però tutta la parte alta (dove avevo messo i miei dati) è bianca, mentre rimane, in fondo, l’opera di arte contemporanea qui sopra; e non si capisce cosa fare. Qui siamo oltre, oltre i confini della galassia umana…

Allora torno indietro, e mi dice che i dati sono ancora da validare. Sta a vedere che non ha preso niente? No, in realtà riclicchi e ti chiede di inserire dei codici di conferma che nel frattempo ha inviato alla mail e al telefono. Sulla mail è arrivato, sul telefono no, allora leggo meglio e specifica che il codice viene inviato “entro 24 ore dalla richiesta”. Dovrò aspettare domani mattina alle 9 perché una impiegata da Roma mi mandi l’SMS di conferma? Mi limito a validare la mail (lui risponde “VALIDAZIONE EFFETTUTA” senza una A) e tanti saluti.

Adesso, finalmente, posso inviargli i file che ho precedentemente scaricato dalla pagina a fianco. Eureka. Mi dà una ricevuta con una serie di codici, che devo stamparmi io. Quindi adesso, dopo che ho validato i contatti, mi scriveranno per dirmi se il controllo è positivo? Certo che no: c’è scritto di “Consultare successivamente la sezione Ricevute per l’esito delle elaborazioni.”

Tanto, in Italia nessuno ha alcunché da fare se non stare dietro all’Agenzia delle Entrate… Poi, però, qualche megadirigente ministeriale farà un report al Parlamento e dirà che, nonostante i fantastiliardi di euro pubblici investiti in appalti informatici, gli italiani non usano i servizi telematici dello Stato, perché sono arretrati e pigri e non hanno voglia di adeguarsi. Ma no, gli italiani non usano i servizi telematici dello Stato perché sono fatti in questo modo qui!

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giovedì 25 Giugno 2015, 15:28

La politica demenziale: PD e SEL contro Marco Carena

Quando avevo quindici anni, una compagna di scuola mi duplicò una cassettina con le canzoni di Marco Carena: e la consumai a forza di ascoltarla. Era il periodo del boom del demenziale, e per qualche anno i doppi sensi più o meno volgari e l’umorismo pecoreccio la fecero da padroni; fu un boom di cui rimase poco, a parte Elio e le Storie Tese (altro livello però). Marco Carena ha continuato onestamente la sua carriera musicale, riproponendo per venticinque anni quei brani su tutti i palchi di Torino e altrove; e anche se a quarant’anni fanno un po’ meno ridere, a me fa sempre piacere ascoltarli.

Per questo, quando stamattina ho aperto Facebook e ho visto la consigliera comunale del PD Laura Onofri, rappresentante del movimento femminista Se non ora quando, pubblicare il suo sdegno contro l’esibizione di Carena ieri alla festa di San Giovanni, mi son messo a ridere. Poi ho cliccato sul link, ho letto il comunicato delle femministe e ho pensato che fossero impazzite tutte.

E’ vero, ci sono due canzoni di Carena (le conosco a memoria) che contengono le frasi citate. Una si chiama Che bella estate ed è il racconto di una estate terribile in cui il povero vacanziero assiste a disgrazie e misfatti di tutti i colori: oltre alla ragazza violentata, ci sono un vicino di ombrellone sbranato dai granchi, un bambino corroso dall’acqua inquinata del mare, uno che si suicida nel porto… e però, in un ritornello comico e menefreghista, il protagonista conclude “che bella estate amore mio, ci sei tu ci sono io, ma che c’importa dell’altra gente, ci siamo noi non c’è più niente”. E’ palese a chiunque che si tratta di satira, proprio a proposito delle persone che vanno in vacanza fregandosene delle disgrazie di tutti gli altri, salvo poi scoprire che a forza di egoismo non rimane più niente.

Idem per la seconda canzone incriminata, Io ti amo. Che è, appunto, la storia di uno stronzo che si riempie la bocca di “ti amo” per la sua fidanzata e poi la maltratta in ogni modo. Basta leggere il testo per intero, ed è perfettamente chiaro che la canzone prende per il culo i maschi violenti e, anzi, denuncia l’ipocrisia con cui ci si dice “ti amo” per poi dimostrare tutto l’opposto nei fatti. E’ un gran pezzo di satira che comprende diverse battute fulminanti, tra cui “ti amo perché sei diversa / infatti ti confondo spesso”, o anche “io ti amo perché se no ti avrebbe amato un altro / ma ti amo, sono arrivato prima io”, che mette a nudo con spietatezza la vera dinamica sociale con cui si formano moltissime coppie.

E se ancora qualcuno avesse il dubbio che Marco Carena è un buzzurro maschilista, basta citare un’altra canzone che evidentemente le femministe non hanno sentito. Si chiama Bongustata e in essa è l’uomo a essere molto innamorato, mentre la donna lo maltratta in ogni modo, fino a chiuderlo a cuocere nel forno in mezzo alle patate – e lui, da dentro il forno, la avverte gentilmente che si è dimenticata il sale. Secondo la stessa logica, questo sarebbe un incitamento al maschicidio, che non rispetta la sensibilità dei maschi vittima di violenza domestica…

La consigliera Onofri e le sue compagne femministe, in questo thread su Facebook, si sono lanciate in pacati commenti: si sono lamentate ad esempio che l’assessore Gallo non sia salito sul palco per staccare la spina personalmente a metà dell’esibizione, chiedendo che l’eventuale compenso di Carena sia sequestrato e dato (chissà a chi) per “progetti contro la violenza sulle donne”. Poi hanno aggiunto frasi come “prima di esibirsi non ha dovuto presentare una scaletta? È prassi consolidata” e “vergognoso che Carena ha potuto cantare quelle frase CONTRO le donne, nessuna le aveva lette prima della spettacolo per impedirle di cantare!!” (certo, è prassi consolidata che un artista debba dire prima ai politici parola per parola cosa dirà dal palco: nella Romania di Ceausescu, presumo) e persino “I suoi testi sono su YOUTUBE. Vanno rimossi dalla rete. Li ho citati dopo purtroppo averli ascoltati quindi non riascoltateli altrimenti il soggetto per sa di incrementare la sua audience.” (sono senza parole).

Solo qualcuna, con un po’ di buon senso, spiega che sono canzoni vecchie di venticinque anni e aggiunge “forse all’epoca non lanciava un messaggio così negativo come adesso che la violenza sulle donne è così manifesta” (non direi, se mai è che venticinque anni fa la politica mangiava uguale, ma almeno non era piena di censori bacchettoni e di sentinelle in piedi e/o con la tastiera in mano).

La cosa più preoccupante, però, è che sono subito apparsi i vigili politici anti-satira. Il capogruppo del PD Michele Paolino si è limitato a un “mi piace”, ma il capogruppo di SEL Michele Curto ha subito promesso vendetta: “oggi stesso verifico con un atto interpellativo: interpellanza/richiesta di comunicazioni”. L’assessora di SEL Mariagrazia Pellerino si è lanciata in una lirica condanna di Carena: “quelle parole sono un’apologia di reato, un inno alla violenza contro le donne, come se qualcuno cantasse l’emozione provata a fare del male al prossimo”. L’assessora PD Ilda Curti è scatenata: “Siamo un’amministrazione in prima fila sul contrasto alla violenza e ‘sto qui sul palco di San Giovanni davanti a decine di migliaia di persone lancia questo messaggio? Mi viene caldo alla testa” (ok, che il caldo abbia dato alla testa a molti è palese), e prosegue: “i peggiori stereotipi machisti e buzzurri”, “quelle strofe offendono e mi fanno infuriare”.

A questo punto la cosa si fa seria, anche perché tutte queste persone erano in piazza a manifestare gridando “Je suis Charlie”, per cui ne consegue che per loro fare satira anche offensiva sul profeta dell’Islam è legittimo, ma non lo è fare satira sul rapporto di coppia denunciandone l’ipocrisia e la violenza (concetto, peraltro, che mi è appena stato ribadito di persona da un’altra consigliera della maggioranza).

Eppure queste sono le persone che governano Torino, ed è preoccupante scoprire che mancano di tante qualità fondamentali, a partire dalla capacità di comprendere il registro di un testo e di distinguere satira e sarcasmo dall’apologia di reato. Non manca loro solo il senso dell’umorismo, ma anche il senso delle proporzioni (questo sì che è il primo problema di Torino e/o delle donne che subiscono violenza: le canzoni di Carena), e la stima per l’intelligenza dei torinesi, dato che evidentemente pensano che una strofa di una canzone satirica che menziona uno stupro spinga le persone a stuprare, proprio come chi gioca ai videogiochi sparatutto poi va in giro ad ammazzare tutti. E, soprattutto, manca il rispetto per la libertà di espressione: Carena può non piacere, si può anche pensare che per San Giovanni fosse meglio un altro tipo di spettacolo, ma da lì a chiederne la crocifissione in Sala Rossa e il bando da tutti i palchi cittadini passa parecchio.

Per fortuna che Freak Antoni è morto e non può vedere questo scempio…

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venerdì 19 Giugno 2015, 23:00

Letzgo, rimborsami un caffé

Avevamo appena messo un punto fermo sulla vicenda Uber (rimando al post precedente per chi avesse ancora bisogno di essere convinto che Uber così com’è non va bene) ed ora ne arrivano i cloni: ecco Letzgo, il nuovo clone di Uber che però assolutamente non è Uber e non è un servizio taxi, eh! E’ solo un modo per condividere i propri spostamenti divertendosi.

Io vi consiglio infatti di leggere le FAQ di questo servizio, perché sono ricche di equilibrismi verbali che talvolta sfociano un po’ nel ridicolo; e se le cose, per poter essere scritte, devono venire raccontate in maniera inverosimile, vuol dire che qualcosa che non torna c’è davvero.

Letzgo non è un servizio taxi ma una comunità, dicono loro: difatti è il passeggero che sceglie quanto “rimborsare” all’autista, in piena libertà e amicizia, fatto salvo che l’app ti suggerisce lei il “rimborso” sulla base dei chilometri, che comunque il “rimborso” non ha limiti concreti e può anche essere di 30 euro per un viaggio di due chilometri, che se non “rimborsi” abbastanza l’autista ti può rifiutare il passaggio e anzi Letzgo ti caccia dal servizio, e che c’è persino quella che nei taxi si chiama “bandiera”, ovvero solo per farti salire in macchina il “non-tassametro” dell’app segna già un “rimborso” minimo di 1,90 euro. Ma il trasporto è a titolo gratuito, eh! Però devi sempre “rimborsare” almeno 1,90 euro per corsa.

E se vuoi fare il driver? Devi dichiarare nel contratto di “non essere un trasportatore professionale”, quindi non soggetto a orpelli del passato tipo tasse e contributi previdenziali; d’altronde è noto che chiunque può fare il dentista o l’avvocato a titolo di “non professionista”, e in tal caso non ha bisogno di titoli e può non pagare le tasse, basta dire che “non è una professione”. Se poi invece si scopre che lo fai per guadagnare sono tutti cavoli tuoi, noi di Letzgo non ti conosciamo proprio. E devi anche avere tu una assicurazione che copra i terzi trasportati “in amicizia”, noi di Letzgo non ne vogliamo sapere niente, se poi hai un incidente e l’assicurazione ti fa storie sono problemi tuoi e del poveretto che trasportavi.

Ah, e te l’ho detto che, in amicizia, devi darci il 20% dei “rimborsi” che ricevi?

E c’è di più: c’è un periodo di prova iniziale (non si sa prova di cosa, visto che “non è una attività professionale” e quindi non ha requisiti minimi), durante il quale noi non ti giriamo i “rimborsi” dei tuoi clienti, e se prima della fine della prova non ci vai bene ti cacciamo e ci tratteniamo “a titolo di penale amministrativa” il 100% dei “rimborsi” pagati dai tuoi clienti. E arrivederci e grazie eh!

Ora, io mi premurerò di parlare con questa azienda e magari mi convinceranno che veramente non vogliono fare un servizio di trasporto a pagamento su chiamata, ma una semplice piattaforma di condivisione delle spese per viaggi già programmati. Se questa è l’intenzione, però, c’è un modo molto semplice di chiarirla: mettano nell’app un limite massimo al “rimborso” fissandolo pari al 50% del costo chilometrico del viaggio, visto che si tratta di condividere le spese e non di farsi pagare per trasportare qualcuno sperando di guadagnarci; e aggiungano anche un bel pulsantone per segnalare rapidamente i driver che dovessero chiedere un extra in nero.

In questo modo potrò credere nella buona fede di Letzgo e sostenere il loro diritto ad esistere; altrimenti, mi spiace, ci stiamo solo facendo prendere tutti in giro un’altra volta.

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sabato 6 Giugno 2015, 20:43

Stasera c’è la partita

Ok, stasera c’è la partita (non c’è bisogno di dire quale). Sapete tutti che io sono tifosissimo del Toro, il che non mi impedisce naturalmente di augurare buona fortuna alla parte bianconera della città. Quella che probabilmente non conoscete, e che oggi vorrei raccontare per la prima volta, è la storia di mio nonno che giocava nella Juventus.

Mio nonno Renato, nato nel 1901, a diciannove anni divenne la promettente mezzala della Juventus, in cui giocò per tre stagioni. Era ancora l’epoca dello sport puro, praticato da ragazzi di buona famiglia come hobby, nel tempo libero dal lavoro o dagli studi (mio nonno studiava giurisprudenza all’università).

Nelle prime due stagioni fu riserva, ma mise comunque insieme cinque gol in nove presenze. Nel 1922-23 cominciò ad essere schierato con regolarità, e giocò diciannove partite segnando altri tre gol. Si prospettava dunque per lui una buona carriera da giocatore di livello nazionale, anche se all’epoca le cose erano ovviamente molto diverse da oggi.

Però, come gli storici del calcio sapranno, l’estate 1923 segna un evento fondamentale nella storia del pallone italiano: è il momento in cui la famiglia Agnelli assume il controllo della Juventus. Da lì, dicono gli storici, “nasce lo stile Juventus”: immediatamente gli Agnelli cominciarono, primi in Italia, a usare i loro soldi per sottrarre i giocatori alle altre squadre, pratica vietatissima. In particolare la pietra dello scandalo fu il terzino Virginio Rosetta, il cui ingaggio per soldi, una volta scoperto, costò alla Juventus sanzioni e sconfitte a tavolino.

Mio nonno fu schifato sin da subito da tutto questo, e così, a ventidue anni, mandò a stendere gli Agnelli e la Juventus e si rimise a studiare giurisprudenza, continuando a giocare qualche partita per passione in squadre rimaste fedeli allo spirito originario (in particolare il Novara).

Da lì in poi, per i bianconeri, furono ottant’anni abbondanti di vittorie in “stile Juventus”: per cui non posso che ribadire i miei auguri per stasera, e continuare a preferire il Toro.

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venerdì 5 Giugno 2015, 10:21

Se la politica sale in bicicletta

Negli ultimi anni, soprattutto per effetto della crisi, la mobilità dei torinesi è cambiata moltissimo; in primo luogo, le persone si spostano di meno (-15% in tre anni). Se negli “anni zero” aveva continuato a crescere la mobilità motorizzata, pubblica e privata, dal 2010 al 2013 è aumentata invece la mobilità ecologica, dal 28 al 34 per cento; il grosso sono gli spostamenti a piedi, ma la bicicletta rappresenta ormai circa il 4,5% degli spostamenti complessivi, contro il 48% dell’auto privata e il 18% dei mezzi pubblici.

E’ cambiata, soprattutto, la percezione pubblica della bicicletta. Se fino ad alcuni anni fa la bici era un mezzo da prendere solo per divertirsi la domenica coi bambini, e chi la usava per i normali spostamenti era considerato un pazzoide, oggi la bici è diventata, specie per le giovani generazioni, un mezzo di spostamento normalissimo. A questa diversa percezione pubblica hanno contribuito soprattutto i torinesi; non ci sono state campagne pubblicitarie e sovvenzioni per la bici privata, anche se sicuramente ha contribuito l’investimento pubblico nel bike sharing, ma la bici si è affermata per il passaparola sulle sue “tre E virtuose”: ecologica, economica, efficiente.

Ha contato certamente anche una manifestazione nata dal basso: il Bike Pride, che ogni primavera ha portato per le strade torinesi sempre più biciclette, a decine di migliaia, per chiedere il rispetto e l’attenzione che la nostra città, da sempre basata sull’automobile, ha sempre negato ai ciclisti.

Una simile mobilitazione non poteva certo passare inosservata alla politica. Domenica, infatti, si terrà la nuova edizione del bike pride, ma in maniera completamente nuova. La manifestazione, difatti, è stata inglobata dai Bike Days, una due giorni promossa dall’amministrazione comunale e generosamente sponsorizzata dalla Coop, con un ampio programma per grandi e piccini, interviste, ospiti famosi; ed è facile prevedere le paginate dei giornali torinesi con bagni di folla e foto sorridenti di assessori in bicicletta, e magari una nuova edizione del famoso video di Fassino terrorizzato che pedala per non più di duecento metri da Palazzo Civico.

Questa “istituzionalizzazione” del bike pride è un bene o un male? Beh, è sicuramente un bene che chi amministra la città dia un maggiore riconoscimento al mondo della bicicletta; il problema è se lo fa soltanto due giorni l’anno per propaganda, continuando a fregarsene nei fatti. Il bike pride è sempre stato un evento contro il potere, pieno di orgoglio e di rivendicazioni anche dure verso l’amministrazione comunale; non è che siano sparite, ma quest’anno la rivendicazione del bike pride è “un tavolo di discussione interassessorile sull’avanzamento dei lavori”, non esattamente un duro atto di accusa verso chi governa la città.

Negli anni, difatti, di promesse ai ciclisti ne sono state fatte moltissime, ma ne sono state mantenute ben poche; e lo dice un consigliere che sulla mobilità ciclabile lavora tutto l’anno (qui una recente interpellanza sugli attraversamenti delle piazze Rivoli e Bernini).

A fine 2013, con quasi quattro anni di ritardo sul piano della mobilità, è stato approvato dal consiglio comunale il “bici plan”, un documento che doveva rivoluzionare l’approccio dell’amministrazione comunale alle infrastrutture ciclabili. Grazie anche a una serie di nostri emendamenti, a pagina 21 del piano furono inserite delle linee guida che dovevano impedire la costruzione di nuove piste ciclabili “alla torinese”: quelle che, pur di non eliminare nemmeno un posto auto, consistono in una riga di vernice che divide a metà il marciapiede coi pedoni, che iniziano e finiscono nel nulla, che a ogni semaforo fanno uno zig-zag che richiede almeno tre fasi semaforiche, che hanno nel bel mezzo pali, edicole, benzinai, ostacoli di ogni genere. Inoltre, nel piano (pag. 142) fu inserito l’impegno a destinare alla mobilità ciclabile il 15% delle entrate dalle multe stradali, che vorrebbe dire tra i 5 e i 10 milioni di euro ogni anno, fino a completare il piano.

Di tutto questo, pur messo nero su bianco e approvato dal consiglio comunale, poco o nulla è stato mantenuto. I soldi non si sono visti; qualche intervento è stato fatto, ma per cifre molto minori, spesso grazie a finanziamenti preesistenti di altro genere; ad esempio la pista ciclabile di via Anselmetti, 750.000 euro per 1300 metri di pista nel nulla su un vialone di estrema periferia, è stata pagata da TRM come compensazione per l’inceneritore (ti avvelenano l’aria, però puoi respirarla meglio andando in bicicletta).

E’ stata fatta la pista in corso Novara, in maniera assurda, violando molti dei criteri di buona progettazione che ci si erano dati; però si è tolta quella in corso Galileo Ferraris per istituire nuovi parcheggi blu per le auto. Persino la famosa fermata del pullman installata nel bel mezzo della pista di lungo Dora Firenze, nonostante le promesse di pronto intervento, dopo due anni è ancora lì; la soluzione è stata di mettere un cartello per dire ai ciclisti di condividere il marciapiede coi pedoni.

Non molto meglio va su altri aspetti; insieme al bici plan siamo riusciti a far approvare una nostra mozione per realizzare un piano parcheggi per le biciclette, oggi spesso abbandonate a caso su pali e ringhiere; non si è ancora visto praticamente niente, nemmeno il parcheggio coperto alla stazione di Porta Susa più volte promesso.

Un sostenitore della mobilità ciclabile a fronte di tutto questo non può che sentirsi preso in giro; altro che patrocini e sponsorizzazioni. Non a caso, questa svolta ha spaccato il mondo associazionistico torinese. La maggiore associazione cittadina di ciclisti, Bici e dintorni, si è chiamata fuori con un duro comunicato, parlando di “parata con i finanziamenti pubblici”, e facendo notare che in tutte le altre città italiane le amministrazioni fanno “meno parate, e molti più fatti”.

Probabilmente domenica decine di migliaia di torinesi pedaleranno felici e inconsapevoli per le vie cittadine, e in fondo è giusto così. Certamente, questa storia è un bell’esempio di cosa sia la politica torinese di oggi: una macchina da propaganda, pronta ad attirare e inglobare al proprio interno qualsiasi istanza ma solo in superficie, pur di allinearla al potere e di far sì che, nella sostanza, tutto possa sempre continuare esattamente come prima.

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sabato 30 Maggio 2015, 15:41

Di nomadi, cani e immondizia (3)

Stamattina, insieme ad altri portavoce ed attivisti del Movimento 5 Stelle, sono stato in via Germagnano per parlare sia con gli abitanti del campo nomadi che con i volontari dell’ENPA.

I volontari, giustamente esasperati, chiedono che il Comune provveda a garantire la guardia notturna del canile, attualmente svolta da uno di loro. La famosa pattuglia dell’esercito che doveva garantire l’ordine sostanzialmente non si è ancora vista; i danni sono stati quasi interamente riparati, grazie anche a numerose donazioni, ma hanno paura che possa arrivare presto un nuovo assalto. Ad ogni modo, non c’è nessuna intenzione di abbandonare il canile costruito con tanta fatica ben prima che il Comune mettesse lì i rom.

Nel campo nomadi siamo stati accolti nella casetta occupata da due anziane suore (sante donne veramente), dove abbiamo avuto una lunga discussione che ha coinvolto anche uno dei vecchi capifamiglia del campo e alcune persone che lavorano o hanno lavorato lì come operatori sociali. Ho avuto un’altra conferma delle dinamiche interne di cui vi parlavo; il campo, che nei primi 6-7 anni di vita è stato relativamente tranquillo, è degenerato negli ultimi anni per via di alcune famiglie prepotenti, che hanno fatto anche fuggire altre famiglie, bruciando le loro baracche. Qualcuna di queste famiglie violente è stata anche allontanata dal campo, ma continua ad esercitare il proprio potere dall’esterno.

Comunque, emerge un problema di fondo: il campo è stato progressivamente abbandonato a se stesso. Le casette vengono abbandonate e bruciate perché dal 2006 il Comune non procede a nuove assegnazioni di quelle che si liberano, e alcuni servizi che erano stati creati, ad esempio per intrattenere ed educare i bambini, sono stati nel tempo dismessi con la scusa che si vogliono smantellare i campi. E’ vero che i campi vanno smantellati, ma o lo si fa veramente oppure nel frattempo essi diventano una incontrollabile terra di nessuno.

Parte del problema è veramente legato ai bambini; ci sono famiglie che li curano, li accudiscono e li mandano a scuola, ma ce ne sono altre che se ne fregano completamente dei propri figli, col risultato che (grazie anche all’elevata prolificità dei rom) nel campo si è creato un nucleo di decine di bambini e ragazzini che vivono in gruppo dalla mattina alla sera, completamente allo stato brado, e per passare il tempo tirano i sassi, bruciano le cose, spaccano, disturbano in giro per la zona. Alcuni capifamiglia hanno cercato di convincere gli altri che quello non è un buon modo di gestire i figli, ma senza grandi risultati.

Ho comunque scoperto numerosi fatti che attribuiscono alle istituzioni italiane altrettanta responsabilità del degrado di quella che hanno gli occupanti del campo. Per esempio, la baracca costruita dagli stessi rom per dare ai ragazzini un luogo dove giocare nel campo, senza andare a dar fastidio in giro, è stata sequestrata dalla magistratura tempo fa ed è ancora lì sigillata. Per esempio, le casette non hanno l’abitabilità, perché il Comune le ha date ai rom a titolo di “magazzino”, pur costruendoci dentro il bagno e quant’altro. Per esempio, i lavori di recupero di quattro delle casette bruciate, attesi da tempo, sono casualmente iniziati proprio mercoledì scorso, giorno della manifestazione in strada. Per esempio, il progetto di sostegno sociale e avviamento all’integrazione finanziato quasi due anni fa con 1.200.000 euro non è ancora partito, perché la convenzione con le cooperative prevede che i destinatari siano gli occupanti autorizzati del campo, ma il Comune non è stato in grado di fornirne la lista; tra sei mesi il contratto scade, e sospetto che i soldi dovranno essere pagati comunque alle cooperative, che il progetto sia stato fatto oppure no.

Io penso che invece di gridare slogan, che siano pro o contro i rom, sia necessario rimboccarsi le maniche ed entrare nel dettaglio dei problemi, scavando fino a scoprire cosa non funziona e come lo si può sistemare. La sensazione è che tra i rom ci siano sicuramente molte persone che delinquono o perlomeno che non sono in grado di stare in una società civile, ma anche che molta gente in giacca e cravatta ben inserita nella società italiana ci marci sopra in ogni modo, tanto è facile dare la colpa ai rom per qualsiasi propria inefficienza, negligenza o addirittura ladrocinio.

Oggi nel campo c’erano i carabinieri in forze, stanno cercando di identificare uno per uno i ragazzini e ragazzoni che hanno compiuto l’assalto al canile. Poi, però, bisognerà capire cosa farne; i servizi sociali cercano di darli in affido diurno, ma a parte la difficoltà di trovare una famiglia che voglia prendersi in casa un ragazzino rom quindicenne cresciuto per strada e molto più adulto (soprattutto nel male) dei suoi coetanei italiani, poi la sera lo si rimanda nel campo e siamo da capo. Anche i progetti di educazione alla genitorialità, già difficili con gli italiani, sono molto più difficili coi rom.

Tuttavia, le scelte non sono molte: detto che molte delle famiglie che vivono nel campo sono in Italia da quarant’anni almeno e i più giovani sono cittadini italiani come tutti noi (quindi non esiste “rimandiamoli al loro Paese”), o pensiamo di far schiacciare alle ruspe oltre alle baracche anche le persone, bambini compresi, oppure bisogna faticosamente educare al rispetto della convivenza civile, un po’ con la carota e un po’ con il bastone. Il primo passo di tutto ciò è guardarsi negli occhi, cosa che a quanto pare, in dieci anni, tra campo e canile non è mai avvenuta. Scoperto che abbiamo tutti due braccia, due gambe e una testa, talvolta illuminata e talvolta un po’ di cazzo, si può proseguire ad affrontare i problemi invece di gridarne soltanto.

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martedì 26 Maggio 2015, 15:13

Perché Uber non è il progresso

Ha fatto rumore la sentenza del Tribunale di Milano che dichiara UberPop – il servizio principale di Uber, quello in cui chiunque può prendere la propria auto e cominciare a trasportare gente a pagamento – illegale in tutta Italia, e ne impone il blocco entro quindici giorni.

Eppure, per chi ha approfondito la vicenda, la sentenza era inevitabile: per la legge italiana, il servizio di trasporto pubblico di persone non di linea può essere svolto solo dai tassisti o dagli NCC (noleggio con conducente), entrambi sottoposti a licenza. Anche le sentenze dei giudici di pace tanto sbandierate nelle scorse settimane non hanno mai detto che UberPop è legale, ma piuttosto hanno contestato la regolarità del modo in cui i vigili avevano sequestrato le auto agli autisti Uber, dicendo che dovevano farlo in un modo diverso oppure che comunque il sequestro dell’auto era una punizione eccessiva; bastava leggerle.

Sento però già i cori di gente che parla di libertà del mercato violata, di vittoria delle lobby, di resistenza al progresso, di cittadini forzati a farsi rapinare da tassisti esosi e violenti (a proposito, i tassisti spesso hanno avuto comportamenti spregevoli, e sono bravissimi a farsi odiare dalla gente; ma questo non cambia il discorso che sto per fare). Per questo voglio mettere in evidenza che la vera questione in ballo non è affatto quella che pensate, ed è molto più importante di quello che sembra.

Vi siete chiesti, infatti, come fa Uber a praticare prezzi così bassi? E’ bello credere che i tassisti si arricchiscano sulle spalle degli italiani, e che sarebbe possibile viaggiare tutti in taxi per metà del prezzo, ma non è così. Se esistono margini per abbassare un po’ i prezzi, naturalmente senza introdurre sovvenzioni pubbliche, sono legati a un migliore utilizzo dei veicoli: oggi ci sono troppi taxi in funzione della domanda che si è ridotta, per cui molti passano il tempo in attesa di una chiamata, lavorano poco e guadagnano poco.

I prezzi dei taxi, comunque, non sono fissati dai tassisti, ma dalle Province e dai Comuni, esattamente come i prezzi del biglietto dell’autobus; chiedere di pagare meno il taxi è come chiedere di pagare meno l’autobus, con la differenza che i biglietti dell’autobus coprono solo un terzo scarso del costo del servizio (il resto è sovvenzionato dalle tasse di tutti), mentre il prezzo del taxi deve ripagare tutto il costo. Se un viaggio in bus costasse 4,50 Euro, come da costo effettivo, il prezzo del taxi non sembrerebbe così esoso.

Uber, invece, taglia su ben altri costi. Il prezzo della corsa viene determinato con il costo chilometrico ACI, che come sappiamo è una misura generosa dei costi di esercizio di un’automobile; su quello, il 20% viene trattenuto da Uber, mentre l’80% va all’autista. Uber, però, paga le tasse in Olanda, ad aliquote ridotte, e non in Italia; pur avendo una filiale italiana, essa rigira gli incassi alla casa madre come “affitto della piattaforma”. L’autista, invece, prende i soldi e dichiara che sono semplicemente un rimborso spese, e non un reddito da lavoro, per cui non sono soggetti a tasse.

Quindi, su ciò che voi pagate all’autista Uber, nessuno paga tasse in Italia; il tassista, invece, paga allo Stato italiano le tasse sul reddito e i contributi previdenziali ed è soggetto agli studi di settore, il che vuol dire che anche se evade finisce per pagare lo stesso, mentre se invece lavora pochissimo paga comunque una botta di tasse; e questo fa grande differenza sui prezzi.

Già il modo furbetto in cui si presenta Uber dovrebbe inquietarvi: ci sono tante persone disoccupate che vogliono lavorare per Uber e tanti che reclamano la liberalizzazione di Uber perché “porta lavoro”, eppure la società stessa pubblicizza il servizio come un modo divertente di passare il proprio tempo per “coprire i costi della propria auto”, senza fine di lucro; lo dice anche la pubblicità di Uber su Facebook.

Insomma, ufficialmente non è un lavoro per guadagnare, è proprio che all’autista Uber fa piacere uscire di casa e passare il tempo libero portando uno sconosciuto da un posto a un altro posto dove altrimenti non sarebbe mai andato: ma dai!! (Questa, tra l’altro, è la differenza con Blablacar, che invece permette davvero di condividere la spesa per un viaggio che si farebbe comunque.)

Ma le differenze di costo non finiscono qui. Il tassista deve conseguire e pagarsi una patente speciale, ossia un certificato di abilitazione professionale; l’autista Uber no. Il tassista è soggetto a visite mediche annuali a campione per verificare che non faccia uso regolare di droga e che sia in salute; l’autista Uber no. Il tassista ha limiti ben precisi di orario al volante; l’autista Uber, se l’app glielo concedesse, potrebbe guidare per ventiquattr’ore di fila. Il tassista paga una assicurazione professionale che copre qualsiasi danno; l’autista Uber gira con la normale assicurazione RC auto, sulla quale è scritto esplicitamente che è escluso il trasporto a pagamento, e auguri a voi se venite coinvolti in un incidente come passeggero pagante (Uber giura di avere una assicurazione integrativa, sperate in bene).

Tutti questi sono costi; ora, possiamo anche decidere che alcune di queste cose sono eccessive, ed è giusto che vengano eliminate. Ma allora le eliminiamo per tutti, a partire dai tassisti; così poi sì che si può fare “concorrenza sul libero mercato”. E le facciamo eliminare al Parlamento, non a una multinazionale che arriva qui e fa quello che le pare.

C’è, infine, il problema del costo della licenza. Questo per me non è un problema concettuale: ci sono altre categorie che avevano una licenza che ha perso di valore di botto, fa parte del rischio d’impresa. E’ comunque un problema pratico: ci sono migliaia di giovani che si sono ipotecati la casa o hanno fatto colletta tra i parenti per pagare 100.000 o 150.000 euro di licenza, davvero li vogliamo mettere in mezzo a una strada? Aggiungo solo che, contrariamente a quel che si crede, la compravendita di licenze taxi non è nè illegale nè in nero, ma è riconosciuta e soggetta al 23% di tasse, cioè decine di migliaia di euro a transazione, che lo Stato italiano in questi anni ha tranquillamente incassato.

Ma questo non è nemmeno il punto vero; il vero problema è il modello di lavoro che Uber rappresenta. I tassisti sono una categoria di piccoli imprenditori di se stessi, ognuno dei quali vive, lavora e paga le tasse in Italia, e si è conquistato nel tempo diritti e doveri, e in particolare l’indipendenza da un padrone; al massimo i taxi si radunano in cooperativa, ma non sono dipendenti.

La proposta di Uber è quella di sostituirli con un esercito di persone precarie, non professionalizzate, senza alcun diritto, mentre gli utili del sistema di gestione se ne vanno all’estero. Lo stipendio di queste persone, perdipiù, è totalmente incerto, proprio perché  le condizioni di lavoro degli autisti, nonché i prezzi e la ripartizione, sono stabiliti da Uber come vuole. Non ci sono garanzie, e, se Uber vuole, da domani non guidi più e perdi il lavoro; e in più, presto gli autisti si accorgeranno che l’80% del rimborso chilometrico è un compenso che permette a malapena di rientrare nelle spese, e quando dopo aver incassato apparentemente un buon guadagno scopriranno che devono cambiare la macchina per usura già l’anno prossimo spendendo anche più di quanto incassato, nessuno sarà lì ad aiutarli; ci saranno invece altri disoccupati pronti a immolare la propria auto per incassare un po’ di soldi subito.

Insomma, altro che “sharing economy”, questo è semplicemente il caporalato come per i poveretti che raccolgono i pomodori nei campi, la stecca del 20% da pagare ogni giorno per poter lavorare. Capisco che questo sia il modello che piace ai grandi investitori finanziari e ai loro media, ma non capisco perché piaccia a voi. Davvero questo sarebbe il progresso?

Per questo io penso che sia giusto che Uber e i suoi autisti possano offrire il loro servizio, che è ben fatto e ben realizzato; ma alle stesse condizioni dei tassisti. La politica, finora latitante, dovrebbe battere un colpo e decidere se mantenere le condizioni attuali o rivederle per tutti, assicurandosi in primo luogo che le tasse sul servizio di trasporto restino pagate in Italia, che i clienti siano garantiti nella sicurezza, e che i lavoratori abbiano i propri diritti. A quel punto, ben venga Uber; credo però che i prezzi non caleranno così tanto, ma credo anche che sia giusto così.

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domenica 24 Maggio 2015, 22:23

Quando la musica si suonava da sola

Nella storia della musica è esistito un momento molto particolare, circa dal 1880 al 1930. E’ il momento in cui la rivoluzione ferroviaria di metà Ottocento e la fine delle guerre di indipendenza nazionale portano a una fase di sviluppo, di benessere e di ricchezza che solo la Prima Guerra Mondiale (e, negli Stati Uniti, nemmeno quella) metterà in crisi. E’ il periodo in cui furono inventate e si diffusero tecnologie che cambiarono il mondo, spesso tramite le comunicazioni: il telefono, la lampadina, la dinamo, la rete elettrica, la rotativa tipografica, la fotografia portatile, e poi la radio e il cinema.

L’unione di queste tecnologie e di una fase di crescente benessere, almeno per la borghesia inurbata, portò la cosiddetta Belle Epoque; un’era di divertimento e di intrattenimenti di massa. Là dove c’è divertimento c’è sempre la musica; e un’altra delle invenzioni di quest’epoca, il fonografo/grammofono o più volgarmente “giradischi”, permise per la prima volta di registrare una performance musicale e di riprodurla più e più volte, anche se con qualità inizialmente pessima e quasi inintelligibile.

Il problema, tuttavia, è che il suono riprodotto dalla puntina che scorre su di un disco è molto molto debole, per cui è necessario amplificarlo; ma l’unico sistema che all’epoca avevano a disposizione era quello dell’amplificazione naturale tramite un grosso corno, proprio come per gli strumenti a fiato. L’anno scorso allo Science Museum di Londra, in una mostra temporanea, ho visto la riproduzione di un corno gigantesco, realizzato nel 1929 – alla fine di quest’epoca – come esperimento del meglio possibile nell’amplificazione naturale; era lungo una decina di metri e occupava un intero salone, permettendo però a un pubblico di qualche decina di persone di riuscire ad ascoltare la fonte di suono. In condizioni normali, comunque, l’amplificazione naturale è sufficiente a malapena per una piccola camera con qualche persona che ascolta in religioso silenzio.

D’altra parte, l’avvento dell’intrattenimento di massa rendeva sempre più difficile utilizzare il metodo tradizionale di generare la musica, cioè suonandola ogni volta dal vivo. Se nelle sale da concerto e in quelle da ballo continuavano ampiamente a spopolare le orchestre, vi erano una serie di situazioni in cui l’orchestra era troppo costosa e troppo poco pratica, mentre il grammofono offriva qualità e livello sonoro insufficienti; in particolare per le fiere viaggianti, per le giostre all’aperto, per le prime forme di pubblicità sonora, e per le proiezioni del cinema muto, che venivano normalmente arricchite da una colonna sonora strumentale eseguita sul posto. Nelle case per bene, poi, in attesa di una maggior diffusione della musica registrata, si usava che qualcuno suonasse il pianoforte per accompagnare la famiglia a cantare gli ultimi successi; ma che fare per avere un po’ di musica in assenza di un buon pianista?

Per tutte queste situazioni, si affermò un’industria sorprendente e oggi quasi completamente dimenticata: l’industria degli strumenti musicali automatici.

Uno strumento musicale automatico è un normale strumento musicale, per esempio un organo, a cui viene abbinato un meccanismo che permette di leggere una specie di spartito musicale e muovere di conseguenza i tasti dello strumento, suonandolo “automaticamente”. L’organo è il caso più tipico, perché è uno strumento molto versatile e molto potente, adatto a riempire di suono le sale più grandi e persino luoghi aperti; invece, per gli usi domestici ad essere automatizzato era il pianoforte. Tuttavia, nell’epoca d’oro di questi strumenti furono inventati meccanismi automatici per quasi ogni genere di strumento, compresi violini, chitarre, percussioni, fiati, spesso mescolati tra loro nei cosiddetti Orchestrion.

I primi strumenti automatici risalgono al Medioevo, mentre già alla fine del Settecento si affermarono piccoli strumenti come i carillon; ma quelli che per noi sono più sorprendenti sono appunto gli strumenti – praticamente piccole orchestre – dell’epoca in questione. Sono strumenti che tipicamente funzionano ad aria compressa generata da soffietti alimentati elettricamente o, prima dell’elettricità, a vapore o per ingranaggi ruotati a forza umana. Leggono lo spartito da un cilindro di carta o di metallo, su cui sono praticati fori o apposti spunzoni per azionare specifici tasti; oppure, da un “libro” di fogli perforati incollati a soffietto, in modo da generare un unico lunghissimo foglio continuo che permette di eseguire brani molto più lunghi rispetto a un cilindro.

Il più noto fabbricante di questi strumenti fu probabilmente lo statunitense immigrato tedesco Rudolph Wurlitzer, la cui azienda è sopravvissuta poi nell’era dei jukebox; un altro grosso centro di produzione fu Parigi, dove si trovava l’azienda della famiglia modenese dei Gavioli, inventori appunto del libro a soffietto. Nel 1897 la Aeolian Company di New York lanciò un innovativo pianoforte automatico denominato Pianola, che riproduceva brani musicali leggendoli da rotoli cartacei; fu un tale successo che la parola ha perso la maiuscola ed è rimasta persino nel dizionario italiano.

Gli strumenti automatici furono prodotti a catena di montaggio, e l’industria dei rotoli cartacei per le pianole diventò come quella discografica di oggi, con un continuo lancio sul mercato di nuovi successi popolari. Improvvisamente, però, negli anni Venti si affermò la tecnologia delle valvole termoioniche, da poco inventate, che permisero di realizzare amplificatori elettrici di grande potenza; e così, il grammofono e la radio poterono emettere suoni a volume molto più alto, dando il via anche al cinema sonoro, e una intera industria diventò improvvisamente obsoleta.

Se capitate a Londra e vi interessa questo mondo, vale la pena di andare fino a Kew Bridge a visitare il Musical Museum (attenzione agli orari di apertura), una raccolta di strumenti automatici molto completa gestita da una piccola associazione privata.

Se no, ormai su Youtube si trovano performance di ogni genere, eseguite su strumenti d’epoca amorevolmente restaurati. Nel video qui sotto, potete sentire Bohemian Rhapsody dei Queen eseguita da un organo automatico Marenghi del 1905; lo spartito non sarà perfetto, ma il risultato è decisamente affascinante.

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giovedì 21 Maggio 2015, 15:51

Ancora su nomadi e cani

L’Ente Nazionale Protezione Animali ha pubblicato le foto dell’ennesimo raid nel suo canile privato, adiacente al campo rom di via Germagnano, di cui vi avevo già parlato in un articolo di poche settimane fa; strumentazione distrutta, arredi fatti a pezzi, animali molestati e forse avvelenati, tubi divelti con allagamento, e circa centomila euro di danni.

L’ENPA aggiunge un “pacato” commento sulle politiche pro nomadi della Città di Torino, parlando di “una città che, mentre ridimensiona e centellina servizi previsti e garantiti dalla Legge, abdica ai ROM con milioni di euro spesi in permissivi mediatori culturali, disprezzata assistenza sanitaria nei campi, inefficaci cooperative di sostegno, inutile personale di vigilanza, continue ristrutturazioni di ciò che essi distruggono, con quotidiani interventi di vigili del fuoco.” Solo nelle prime due ore (dalle 6 alle 8 del mattino) il post ha ottenuto circa 5000 condivisioni in tutta Italia, e dopo nove ore è oltre le 60.000; e potete immaginare il tono dei commenti e la bella figura della città.

Il problema è arcinoto e già più volte discusso in consiglio comunale, e anche se non lo sbandieriamo tanto noi ce ne stiamo occupando da un po’ in modo serio. Grazie a una rete di contatti, stiamo cercando di aprire un dialogo diretto tra volontari ENPA e abitanti del campo, per capire le ragioni di questo accanimento distruttivo (non è solo questione di rubare). Ieri ero all’ufficio nomadi del Comune e ho avuto modo di parlarne anche con chi segue istituzionalmente il campo.

La questione non è semplice come sembra. Non è che tutti gli abitanti del campo si divertano a prendersela con l’ENPA; se mai, nel campo è in corso da tempo una guerra per il controllo dello stesso, e questo è un modo per gli aspiranti capi del campo di dimostrare che possono distruggere e far scappare non solo eventuali oppositori interni, ma addirittura la polizia e le istituzioni italiane. I campi rom sono spesso come i paesini mafiosi dell’Italia profonda; gli abitanti non sono tutti mafiosi o delinquenti, ma hanno paura di esporsi; vige l’omertà, tutti sanno chi compie questi atti ma nessuno ha il coraggio di denunciarli.

Questo ovviamente non giustifica i danni subiti dall’ENPA e non li rende accettabili, e non giustifica nemmeno il palese fallimento delle politiche pubbliche adottate verso i rom in questi vent’anni in tutti i loro aspetti, dalla scelta di mantenere i campi al permissivismo verso la piccola criminalità fino al boldrinismo di istituzioni nazionali ed europee che bacchettano il Comune se si permette anche solo di abbattere una baracca (esiste persino un ricorso dei rom alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro lo sgombero di lungo Stura Lazio…).

Gridare slogan e insulti è facile, ma non risolve i problemi. Tuttavia, è chiaro che è ora di un giro di vite su questa situazione, che si risolve innanzi tutto assicurando i colpevoli alla giustizia e dimostrando che le istituzioni esistono e non si fanno mettere i piedi in testa. Purtroppo, qualsiasi richiesta di intervento da parte delle forze dell’ordine in queste settimane, per qualsiasi motivo, riceve la risposta per cui adesso esse sono troppo impegnate a garantire la sicurezza dell’ostensione della Sindone, e che se ne parlerà a luglio. Anche questo è il simbolo di una città che investe solo in grandi eventi per poteri forti nel centro cittadino, e che abbandona le persone comuni e le periferie al proprio destino.

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