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martedì 31 Dicembre 2013, 15:16

2013, l’anno della cattiveria

In questi giorni di messaggi di fine anno, di lettere a Babbo Natale e di propositi per l’anno nuovo, io vorrei dedicare due parole a riflettere sul 2013, l’anno della cattiveria.

Non che gli anni prima non fossero stati almeno un po’ bastardi, dato che la cattiveria è un elemento fondamentale dell’animo umano; ma il 2013 ha visto un trionfo, una tracimazione di cattiveria generale, in questo nostro Paese derelitto e dal futuro sempre più difficile.

Certamente pesa in questo giudizio il mio ruolo di cittadino prestato alla politica; mai come quest’anno la discussione politica si è incattivita, e se una volta si parlava spesso in maniera approfondita di questioni di sostanza, e se ne discuteva anche con persone di diversa opinione, adesso la rete è quasi sempre uno scontro continuo; una enorme vasca in cui c’è sempre meno dialogo, e sempre più lotta nel fango.

A sempre più persone non interessa confrontare idee e proposte, interessa urlare più forte degli altri, e se non basta anche insultare e minacciare, senza più ascoltare; ognuno tifa per se stesso e per la propria squadra. Eppure la politica sarebbe l’arte del mettere d’accordo, del trovare soluzioni intermedie che possano andare bene per tutti, e non quella del vincere e sopraffare le opinioni e le esigenze degli altri cancellandole.

In questo scenario anche i rapporti umani passano in secondo piano, e succede persino di vedere vecchi amici a cui un tempo confidavi le cose più intime, ma ora tifosi di un’altra squadra, che vengono da te e cominciano a prenderti a male parole in quanto “grillino” – come se “grillino” o “piddino” o “pidiellino” fossero categorie esistenziali di persone tutte uguali – e magari poi si vantano pure di essere stati cattivi con te.

Ma non succede solo nella politica; Facebook – che, già di suo, è concepito come uno specchio in cui ognuno scrive senza pudore i propri pensieri – è un flusso di coscienza pieno di cattiverie di ogni genere. Non sei d’accordo con me? Non appartieni al mio clan? Muori, possibilmente tra tormenti atroci; succede coi terremotati di Napoli come con la malata pro-vivisezione. Ed è una reazione collettiva, di minoranze rumorose che diventano sempre più consistenti, fuori da ogni possibilità di controllo da parte di qualsiasi autorità, leader o istituzione, che perdipiù scaccia la discussione civile, perché in mezzo agli insulti gli altri se ne vanno e l’argomento del dibattito diventano gli insulti e non la questione iniziale.

Ma perché tutta questa cattiveria? L’Italia è da sempre una repubblica fondata sull’invidia, e spesso su quella negativa, quella che ti porta a sperare che l’altro perda la sua fortuna invece che a cercare di fartene una tua; atteggiamento peraltro giustificato dalla mancanza di meritocrazia, per cui spesso chi ha avuto fortuna non l’ha avuta per merito e chi ha merito non riesce comunque ad avere la fortuna a cui potrebbe aspirare.

Ma da noi si somma ora un altro fattore preoccupante: come disse bene prima di morire Alberto Sordi, il problema non è nascere e vivere poveri, perché i poveri sono abituati ad arrangiarsi e a non sentirsi tali. Il problema è essere ricchi, o perlomeno benestanti, e poi ridiventare poveri; tanto più dopo essere cresciuti in una società che spinge ad associare l’autostima col benessere materiale. E difatti spesso i più rabbiosi adesso non sono i poverissimi, ma quelli dell’ex classe media che perdono giorno dopo giorno il proprio benessere.

E allora? Credo che nessuno abbia veramente una soluzione sottomano; io, questi potenti della politica e dell’economia che hanno veramente in mano il futuro del Paese, me li immagino sempre più preoccupati che si guardano tra loro dicendo “oddio, e adesso che facciamo?”, confidando semplicemente sulla duplice diga della propaganda e della polizia, che però non può reggere all’infinito.

Dopo, c’è chi come noi lavora a porre le basi per l’avvio della ricostruzione; il problema, però, è cosa ci sarà nel mezzo, e quale sarà il sentimento collettivo che segnerà l’anno 2014; già sapendo che, se non riusciremo ad ascoltarci tra italiani almeno un po’, non potrà che essere un anno ancora più cattivo.

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martedì 24 Dicembre 2013, 17:21

Una maledetta parola (Intervento sulla residenza ai profughi)

“La politica di diritti ne promette a iosa, perché c’è questa abitudine della politica italiana di promettere diritti a tutti, anche se non siamo in periodo elettorale – anzi, forse ormai siamo in periodo elettorale sempre -, comunque di fare una dichiarazione di principio, condivisibile e giusta fin che si vuole, ma poi di non preoccuparsi della possibilità effettiva di implementare quello che si promette.

E’ questo il problema, perché poi il risultato pratico di un approccio di questo genere è che il costo di questa accoglienza, giusta e sacrosanta eccetera, non lo pagherò io, non lo pagherete voi, non lo pagheranno quelli che si incatenavano né quelli che non si incatenavano, perché tutti noi torneremo a casa, mangeremo il nostro panettone, siamo tutte persone che bene o male non hanno problemi ad arrivare a fine mese; lo pagheranno quelli che veramente sono nelle nostre periferie e aspettano l’accoglienza e non riescono ad averla perché lo Stato italiano non ce la fa più ad accogliere le persone che perdono il lavoro, che perdono la casa.

E soltanto la settimana scorsa si è impiccato un signore di cinquant’anni perché ha avuto lo sfratto, in questa città, e io non ho sentito una maledetta parola in questo consiglio comunale per questa persona.”

Alla fine, come già vi avevo anticipato, mi sono astenuto a riguardo della concessione della residenza ai profughi, non perché non condivida il principio, ma perché non condivido l’ipocrisia con cui la politica italiana affronta queste cose. Come sempre, io sono un portavoce dei cittadini e credo che il complesso del mio voto astenuto e del voto favorevole di Chiara rispecchi le diverse visioni che il Movimento ha in materia.

Comunque, per questa scelta, anche da persone del Movimento 5 Stelle, sono stato chiamato xenofobo, disumano, “di destra” e così via. Alcuni hanno chiesto le mie dimissioni. Il mio mandato è come sempre a disposizione, ma credo che sia necessaria una riflessione pubblica e profonda sul pluralismo interno al Movimento.

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giovedì 19 Dicembre 2013, 14:11

Sull’accoglienza dei profughi

Domani pomeriggio, o al più tardi lunedì, il consiglio comunale dovrà esprimersi su una delibera che istituisce l’indirizzo fittizio “via della Casa Comunale 3” e lo attribuisce come residenza ai profughi e richiedenti asilo che dimorano abitualmente a Torino, tra cui gli attuali occupanti del MOI (ex mercati generali di via Giordano Bruno). Data la complessità della questione, io vorrei raccontarvela con calma e chiedere un parere al fine di determinare il mio voto personale in consiglio comunale, visto che, trattandosi di materie esterne al programma comunale, non siamo vincolati da una posizione pregressa.

Innanzi tutto, non parliamo di immigrati clandestini, ma di persone che, pur entrate in Italia (spesso coi barconi) senza permesso, sono state riconosciute come profughi o meritevoli di protezione umanitaria, in quanto scappano dalla guerra o dalla fame; oppure sono in attesa di risposta alla loro domanda. L’Italia ha firmato diversi trattati internazionali che la impegnano ad accogliere queste persone, in particolare la Convenzione di Ginevra del 1951 che, al capitolo IV, stabilisce che queste persone hanno diritto a casa, istruzione e assistenza come se fossero cittadini italiani.

A Torino, tuttavia, ci sono centinaia di profughi che non hanno mai ottenuto quanto sopra, arrangiandosi per anni a sopravvivere in qualche modo e spesso stabilendosi in immobili occupati, in condizioni di vita spaventose; i più “anziani” sono passati già dalla Clinica San Paolo di corso Peschiera, poi dalla caserma di via Asti, poi dalla ex sede dei vigili di corso Chieri e adesso dalle palazzine del MOI. Il principale motivo è che la Città si è sempre rifiutata, per anni, di riconoscere queste persone come residenti torinesi, iscrivendole nelle liste anagrafiche; e dato che ogni Comune si occupa del welfare dei propri residenti (italiani o stranieri che siano), se non sei residente in alcun Comune nessuno potrà mai darti assistenza pubblica.

Queste persone sono dunque sopravvissute in un limbo, grazie ad aiuti di benefattori e associazioni varie (es. Banco Alimentare); non avendo la residenza, non hanno nemmeno potuto provare a rendersi autonomi, perché non possono accedere a un lavoro non in nero, iscriversi al collocamento o anche solo mettere un indirizzo su un curriculum. Dare la residenza a queste persone (la Città non sa stimarne il numero, ma solo al MOI risultano vivere circa 450 persone) ha dunque una doppia valenza: da una parte aggiunge alcune centinaia di persone a carico dello stremato welfare comunale, dall’altra però può essere un modo per avviarle all’autosufficienza.

Difatti, la situazione attuale comunque non è sostenibile, per loro e per la città, che vede spuntare ogni tanto un nuovo ricovero di centinaia di sconosciuti disperati, con gli inevitabili problemi di convivenza con chi ci abita vicino, e con la totale incapacità di controllare chi ci vive e cosa succede all’interno, nel bene e nel male; il Comune deve affrontare il problema, e su questo in passato abbiamo presentato più di una interpellanza.

Il motivo esposto dalla Città per non concedere la residenza è sempre stato proprio quello che non la si può dare in stabili occupati illegalmente; punto ribadito per iscritto non più di due mesi fa, in risposta a una nostra interrogazione in circoscrizione 3. Adesso, improvvisamente, l’amministrazione comunale ha invertito completamente la rotta; in commissione ci è stato detto che la Città è obbligata per legge a dare la residenza a chiunque dimori abitualmente sul suo territorio, anche in luoghi occupati, e addirittura che i profughi, tramite avvocati benevolenti, sono pronti a denunciare il Comune per questa inadempienza.

L’urgenza da parte della maggioranza nel far approvare questa delibera starebbe comunque nel fatto che a fine anno scade il permesso di soggiorno umanitario ai profughi della cosiddetta “Emergenza Nordafrica”, ovvero quelli che sbarcarono in Italia nei primi mesi del 2011 allo scoppio della guerra civile in Libia. Queste persone sono state accolte e mantenute per un anno e mezzo, con una spesa complessiva da parte dello Stato (a livello nazionale) stimata in un miliardo e mezzo di euro, che oltre a vitto e alloggio avrebbero dovuto coprire percorsi di integrazione e avviamento all’autosufficienza.

In realtà, è stata una grande abbuffata di fondi pubblici (vedi ad esempio questo articolo o quest’altro), di cui hanno goduto tutti tranne i profughi, ai quali, “finita l’emergenza” lo scorso 28 febbraio, sono stati dati in mano 500 euro a testa per “tornare a casa”. Ovviamente a casa non ci è tornato nessuno, e ora sono tutti accampati qui; se non gli si dà la residenza, a quanto ci è stato detto, non possono lavorare regolarmente né rinnovare il permesso di soggiorno e dunque diventeranno clandestini a tutti gli effetti, da espellere a partire dal primo gennaio.

La concessione della residenza pone problemi non indifferenti, in primis perché va comunque legata alla presenza sul territorio. Persino per i senzatetto, a cui da anni viene data la residenza in “via della Casa Comunale 1”, viene richiesto di fornire l’indicazione di una panchina o di una macchina in cui dimorano abitualmente; se per un po’ di volte i vigili non li trovano, vengono depennati dalle liste.

Pertanto, i vigili dovrebbero poi andare al MOI a controllare se i profughi abitano veramente lì; e ovviamente chi si oppone alla delibera sostiene che i vigili non entreranno certo in un posto occupato da centinaia di persone, magari spalleggiate dal centro sociale di turno, a chiedere i documenti, e quindi che il Comune darà la residenza a chiunque la chieda, compresi profughi pronti a spostarsi a Torino per il tempo necessario da altre città meno disponibili. Va però anche detto che diverse altre città italiane hanno iniziato a dare la residenza ai profughi, magari presso la sede delle associazioni umanitarie.

L’altra preoccupazione di chi si oppone alla delibera è la sostanziale mancanza di fondi per affrontare un nuovo carico di persone sul welfare comunale: la delibera difatti riconosce la residenza, ma non prevede alcun tipo di finanziamento aggiuntivo al welfare. Il problema maggiore è legato alle case popolari: la legge regionale (proposta da Bresso e votata da Cota) attribuisce cinque punti aggiuntivi ai profughi in virtù del loro status, il che, sui 12 che servono per avere la casa, vuol dire che i profughi finiranno in massa davanti a tutti, una volta maturati i tre anni di residenza torinese richiesti dalla legge, e che – visto che ogni anno si rendono disponibili al massimo alcune centinaia di alloggi – per un periodo di uno o due anni nessun altro riuscirà ad avere una casa popolare. E poi naturalmente queste persone entreranno in lista per tutto: collocamento, sussidi, asili e così via.

La prospettiva, in sostanza, è che si scateni una guerra tra poveri, e che il costo pratico e sociale dell’accoglienza dei profughi non venga scaricato, come dovrebbe essere, sulla fiscalità generale e sulle tasche di tutti a partire dai più ricchi, ma vada a pesare solo su quelli che si troveranno scavalcati nelle liste per l’accesso all’assistenza. Non saremo certo noi consiglieri comunali che dobbiamo esprimerci sulla delibera a pagarne le conseguenze, ma saranno i poveri delle nostre periferie (italiani e stranieri) già provati dalla crisi; poveri che, molto spesso, non sono stati mantenuti dalle casse pubbliche per un anno e mezzo e non hanno mai ricevuto 500 euro in mano dallo Stato per fare alcunché.

Per questo, pur condividendo il principio, a me questa delibera sembra inaccettabile perché incompleta; perché un modo serio di affrontare il problema sarebbe quello di avere dei dati su quante sono queste persone, su quale sarà il loro impatto (magari meno di quanto si pensa, chissà), su quali servizi andranno potenziati, su dove reperire nuove case, su come finanziare tutto questo e su come evitare che vada a discapito di chi c’è già (quando ho chiesto se i nostri servizi erano in grado di sostenere l’afflusso, la risposta dei dirigenti è stata che all’anagrafe ci sono tanti sportelli; non commento per decenza).

Eppure, la delibera è stata presentata per la prima volta martedì pomeriggio, discussa frettolosamente e portata a forza in aula per votarla domani; non c’è stata nessuna disponibilità della maggioranza ad esaminare concretamente il problema. Questo, onestamente, sembra più che altro uno spot natalizio per permettere al sindaco e ai suoi consiglieri di complimentarsi sotto l’albero su quanto sono stati buoni, umani e accoglienti coi poveri profughi.

Io sono favorevole al riconoscimento di un principio di accoglienza per chi fugge dal disastro, a cui comunque siamo tenuti dall’umanità prima ancora che dalle leggi, e all’inizio di un percorso che possa portare queste persone dal degrado all’integrazione, in cui con il loro lavoro e le loro capacità possano ricambiare l’accoglienza, ma sono contrario alle buone intenzioni portate avanti in modo astratto e ideologico, col solo risultato pratico di scaricare i costi dell’accoglienza sui più deboli e di fomentare la rabbia nelle piazze; per questo motivo la mia intenzione è quella di astenermi, presentando inoltre delle proposte per potenziare il welfare in modo che ce ne sia per tutti (ricorderete la nostra mozione sulla casa). Tuttavia, da buon portavoce, ci tengo a dare a tutti voi fino a domani pomeriggio per concordare con me o per convincermi con i vostri commenti a cambiare orientamento.

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venerdì 13 Dicembre 2013, 10:59

Basta botti a Capodanno

Sappiamo che sono molti gli italiani che amano festeggiare il Capodanno facendo rumore, e in particolare lanciando botti e petardi. Tuttavia, si tratta di una tradizione che va abbandonata; intanto perché è pericolosa per le persone, specialmente per i bambini e per i ragazzi, che non sanno come maneggiare i botti e che spesso li raccolgono per strada rimanendo feriti, anche qui a Torino; ancora l’anno scorso un ragazzino è stato gravemente ferito alle mani.

Inoltre, i botti di Capodanno sono terribili, alle volte mortali, per gli animali, sia quelli domestici che quelli che vivono liberi in città; gli animali ne sono terrorizzati e possono morire di spavento.

A Torino, già dal marzo 2011, è vietato utilizzare qualsiasi tipo di fuoco d’artificio sempre e per tutto l’anno, fatta salva una specifica deroga che deve venire concessa dal Comune e che viene data solo per la festa di San Giovanni (anche se, pure lì, ormai esistono fuochi d’artificio silenziosi che si sposerebbero persino meglio con l’accompagnamento musicale). Tuttavia, il Comune non ha mai mostrato grande attivismo nel far rispettare questa regola; l’impressione è che la si sia messa in periodo pre-elettorale, per far contenti gli animalisti, ma poi nei fatti si lasci perdere.

Noi portiamo avanti la battaglia per il rispetto di questa regola sin da quando siamo entrati in consiglio comunale; abbiamo presentato una interpellanza per il Capodanno 2012, una per il 2013 (di cui vedete la discussione nel video) e adesso una per il 2014, preventiva, per chiedere di organizzarsi per tempo. La risposta dell’amministrazione comunale in aula è prevista per mercoledì prossimo; e noi speriamo che quest’anno per davvero ci sarà un impegno a fermare il più possibile questo fenomeno.

Nel frattempo, però, bisogna che siano anche i cittadini a capire che è ora di smetterla coi botti; i vigili non possono essere ovunque. Speriamo dunque che il nostro appello, che vi invitiamo a diffondere, convinca le persone a passare un Capodanno di festa ma senza rischi, lasciando in pace gli umani e gli altri animali.

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martedì 10 Dicembre 2013, 08:12

Le liste dei giornalisti

Le liste di proscrizione dei giornalisti sono sbagliate e pericolose, e io già in passato – ad esempio nei miei famosi quindici punti – ho avuto modo di dire che non sempre quando un giornalista ti critica è un venduto, e che bisogna saper dialogare con tutti, anche con chi ti disprezza.

Tuttavia, ho trovato piuttosto insostenibile l’apparente indignazione con cui il “giornalismo” italiano ha puntato il dito contro Grillo per avere segnalato gli articoli faziosi di tal Maria Novella Oppo e invitato a segnalarne altri con nome e cognome dell’autore. Perché se l’Italia, stando alle statistiche internazionali, compete per libertà di informazione con l’Africa ci sarà un motivo; e difatti, i giornalisti possono prenderti di mira per mesi e mesi, distorcendo e manipolando la realtà, ma basta parlar male di un giornalista per suscitare una reazione collettiva e corporativa quasi da lesa maestà.

Anche a me è successo, mesi fa, di venire preso di mira dal “giornalismo” italiano, aizzato da alcuni politici dei partiti di governo, stravolgendo completamente la lettera e il senso di alcune parole che avevo scritto su Facebook. Anche a me all’epoca arrivarono insulti minacciosi in abbondanza (ecco un piccolo estratto):

Notoriamente la rete è piena anche di frustrati, che non aspettano altro che qualcuno da insultare per un motivo qualsiasi; dopo un po’ non ci si fa più caso. Eppure, nel mio caso non si è scatenata nessuna solidarietà, nessun allarme, nessun grido allo squadrismo e al fascismo incombente. E addirittura, qualche giorno fa, un nostro attivista senza alcun ruolo pubblico è stato preso di mira per una sua (orrenda) battuta calcistica, venendo attaccato con nome e cognome dai blog calcistici e non di mezza Italia, solo per mettere in cattiva luce il Movimento 5 Stelle.

La verità è che, se per i giornalisti innovativi si aprono nuove possibilità, i “giornalisti” all’italiana sono sempre più nervosi; la loro presa diminuisce e sempre più persone usano la televisione come soprammobile e i giornali solo per incartare il pesce, tanto che le entrate crollano, le perdite aumentano e persino la Busiarda si appresta a diventare nient’altro che il supplemento torinese del Corriere della Sera, che peraltro per sopravvivere sta vendendo la sua storica sede di via Solferino a Milano.

Per discutere di questi temi, abbiamo organizzato un dibattito pubblico stasera (martedì 10 dicembre) alle 21, presso il centro civico di via De Sanctis 12, invitando diversi giornalisti del web, dei giornali e delle televisioni torinesi. Avremmo voluto sentire anche il parere dell’ordine dei giornalisti, nella persona di Giorgio Levi (tesoriere dell’ordine piemontese), che però ha rifiutato pubblicamente l’invito. Non importa: noi vi aspettiamo lo stesso, per darvi l’opportunità di ascoltare un nutrito elenco di professionisti – Vittorio Pasteris, Cosimo Caridi, Maurizio Pagliassotti, Cristiano Tassinari, Alessandro Valabrega – e di discutere tranquillamente con loro sullo stato dell’informazione torinese. Ci vediamo!

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venerdì 6 Dicembre 2013, 09:51

Contro la privatizzazione di GTT

Se vi arrivasse a casa senza preavviso una multa da cinquecento euro, probabilmente sareste arrabbiati e preoccupati. Ma se vi arrivasse una multa da ottocento euro, e poi dopo le vostre obiezioni e le vostre lamentele venisse ridotta a cinquecento, probabilmente non sareste così arrabbiati, anzi alla fine sareste persino un po’ sollevati: ve la cavate con “solo” cinquecento euro.

Questa è la tattica che l’amministrazione torinese ha usato per riuscire a privatizzare, dopo i rifiuti e l’aeroporto, anche il trasporto pubblico: nei prossimi giorni, la Sala Rossa approverà la vendita del 49% di GTT a un socio privato, che avrà anche il diritto di nominare l’amministratore delegato, acquistando di fatto il controllo della società. Eppure, per mesi Fassino ha agitato la prospettiva di vendere l’80%, e questo permetterà ai consiglieri della maggioranza che tanto parlano di beni comuni di cantare vittoria: “grazie a noi abbiamo venduto ‘solo’ il 49%”!

Certamente, per chi come noi crede che il trasporto locale dovrebbe essere interamente pubblico e possibilmente anche gratuito (del resto la fiscalità generale già paga due terzi dei costi, alla fine mancano cento euro a testa o giù di lì), per alcuni versi è meglio che vendano solo il 49%: sarà più facile ricomprarlo in futuro. Tuttavia, per altri versi è fin peggio, perché di fatto il privato acquisterà il controllo della società pagando soltanto 49 invece di 80, lasciando in mano al Comune una partecipazione di fatto invendibile a terzi; e le possibilità di controllo lasciate alla politica dal 51% saranno probabilmente usate non per difendere il servizio, ma per difendere i dirigenti politicizzati e i meccanismi clientelari.

GTT, difatti, è uno dei maggiori serbatoi di voti del PD, gestito a forza di collusioni coi sindacati confederali (ricordiamo la nostra interpellanza sulle migliaia di giornate di permesso in più rispetto alla legge unilateralmente regalate da GTT ai sindacalisti di CGIL-CISL-UIL, mentre poi i lavoratori in sciopero vengono ripresi disciplinarmente) e di prese per i fondelli. Basta che ci siano un paio di esponenti della maggioranza che sollevano con durissime parole i problemi dei lavoratori GTT e denunciano le pastette interne; poi, finito lo show, gli esponenti della maggioranza votano lo stesso le delibere, le vendite avanzano e le pastette continuano, mentre ai lavoratori si dice “sì però c’è uno del centrosinistra che è dalla vostra parte, dunque continuate a votarli”.

Va sottolineato inoltre che, almeno secondo quanto affermato dall’assessore Tedesco ieri in commissione, non si tratta di una vendita obbligata per fare cassa, dato che il Comune ha già appianato il buco di quest’anno e in parte quello dell’anno prossimo con l’ennesima ondata di speculazioni immobiliari, da quella sull’area Westinghouse a quella sull’area ThyssenKrupp (ve ne parleremo presto in dettaglio).

Ci sono effettivamente città che sono costrette a vendere dai perversi effetti del patto di stabilità, per cui i lavoratori del trasporto pubblico gestito in casa contano come dipendenti comunali e fanno sforare le soglie di “dimagrimento” della pubblica amministrazione: succede così persino a Parma, dove Pizzarotti per aggirare questo vincolo assurdo sta cercando una azienda esterna (meglio se pubblica) che compri il 49% del trasporto pubblico, mettendo la clausola di poterselo ricomprare tra qualche anno. Ma Torino no, vende perché ci crede: vende definitivamente e per “scelta industriale”, perché a Torino privato è bello (meglio però se controllato dai partiti e/o finanziato con soldi pubblici, come Iren o la Cassa Depositi e Prestiti).

Eppure le “scelte industriali” sono chiare a tutti: mercoledì scorso è terminato definitivamente il servizio tramviario sulla storica linea di via Cibrario (attiva da oltre cent’anni) e via Nicola Fabrizi. Forse a gennaio comparirà un “13 barrato” tram per rinforzare il tratto centrale, una richiesta che peraltro avevamo fatto anche noi in una interpellanza, ma intanto il 13 è stato sostituito con autobus, ufficialmente per l’accessibilità… ma – a parte che voglio vedere quale carrozzina si può infilare sul mezzo metro di marciapiede in mezzo alla strada dove ferma il 13 – sarebbe bastato investire per tempo sui tram; un tram dura cinquant’anni, mentre gli splendidi bus nuovi di oggi tra cinque anni saranno già scomodi e scassati, e necessiteranno di grandi spese in manutenzione che saranno appaltate con logiche immaginabili.

Nella delibera di vendita non c’è traccia di scelte industriali sulla mobilità; ci sono dei punti su un piano industriale da valutare in termini essenzialmente economici. Nel frattempo si prospettano altri tagli dei fondi nazionali e regionali; si parla di un ulteriore 24% di taglio, il che vorrebbe dire chiudere molte linee e viaggiare con i mezzi strapieni su tutte le altre. Eppure – come dicevo in aula l’altro giorno (nel video) – ci sarebbero soluzioni per risparmiare dentro GTT, tagliando gli sprechi; i sindacati le hanno presentate da mesi, ma non si fanno.

Per questo noi siamo contrari, e lo siamo da sempre e con chiarezza, e già due anni fa denunciavamo in aula la svendita del bene comune e le logiche perverse che le stanno dietro. Eppure, Fassino preferisce vendere, magari a un partner amico come Trenitalia, e per il resto vivere alla giornata, abbandonando un servizio vitale per la stessa sopravvivenza della nostra città; tanto, il sindaco certo non viaggia in pullman.

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venerdì 15 Novembre 2013, 17:03

Una visita al CIE

Ieri ho avuto la possibilità di visitare il CIE (Centro Identificazione ed Espulsione) di corso Brunelleschi a Torino. Credo che sia quindi utile portarvi con me in un rapido giro e raccontarvi le cose che ho appreso, di modo che ognuno possa formarsi una opinione più informata sul senso di questi centri.

Il CIE nasce nel 1998, a seguito di una direttiva europea; al quartiere fu promesso che sarebbe stato lì solo un paio d’anni, ma quindici anni dopo è ancora lì. A un costo iniziale di 18 milioni di euro si è aggiunta una ristrutturazione, completata tre anni fa, per altri 14 milioni di euro, che lo portò ad essere il più grande d’Italia. Il CIE non è un carcere, e non è costruito coi criteri di sicurezza di un carcere, ma è comunque un luogo in cui risiedono dei “trattenuti”, persone straniere clandestine e/o dall’identità sconosciuta in attesa di essere identificate ed espulse: per questo ci sono gabbie e barriere.

L’identificazione non consiste solo nel dare un nome alle persone, ma soprattutto nell’ottenere che il loro Paese se li riprenda, emettendo un lasciapassare che gli permetta di affrontare il rimpatrio (il 95% delle persone difatti arriva al CIE senza documenti, dunque anche senza un passaporto per poter passare la frontiera). In diversi Paesi europei non vi è limite al tempo di trattenimento delle persone nei CIE, ma in Italia il limite è di 18 mesi; di norma, comunque, se lo Stato non riesce a rimpatriare qualcuno entro sei mesi lo lascia libero, perché a quel punto si presume che non esista la possibilità concreta di rimpatriarlo. Esistono diversi altri motivi per cui non si può essere trattenuti nel CIE; se si è minore o donna incinta, se si è diabetici, persino se si hanno fratture che richiedono l’ingessamento (ci si può far male da soli per uscire). Alla fine, mediamente solo il 50% delle persone che entrano nel CIE viene effettivamente espulso e rimpatriato; gli altri tornano liberi con un foglio che gli ordina di andarsene dall’Italia, cosa che ovviamente non fanno, a meno di non riuscire ad andare a nord.

I “trattenuti” hanno a disposizione degli avvocati, che spesso vengono ringraziati con disegni, lettere e in un caso addirittura con un murale dipinto nella loro stanza; e dei medici, che ne controllano lo stato di salute. Spesso partono scioperi della fame con implorazione “fatemi uscire sto morendo” che poi risultano finti, perché le persone rifiutano il cibo ma poi trovano il modo di mangiare altra roba giunta dall’esterno; anche noi siamo stati fermati da un detenuto che lamentava di avere l’epatite, con immediata mobilitazione di alcune consigliere, a cui il medico ha risposto che non era il caso.

La cosa che colpisce in realtà è quanto è piccolo il CIE, pur essendo il più grande d’Italia. Tre anni fa aveva 210 posti, divisi in sei aree separate di cui una femminile, ma adesso ne ha soltanto 98, di cui soltanto 85 sono occupati (il 60% da persone fermate a Torino e provincia, il resto da fuori). In ogni area potrebbero vivere 35 persone, divise in cinque camerate da sette, ma di solito ce ne sono al massimo una ventina.

Ogni camerata è dotata dei letti, di alcune caselle di legno, di un bagno e di un televisore; non ci sono armadi, perché, ci hanno spiegato, venivano spaccati e usati come armi. Il risultato è ovviamente quello di una scarsa intimità, a cui i “trattenuti” rimediano come possono.

Ogni area ha poi una casetta separata utilizzata come mensa e luogo di ritrovo, nella quale vi sono anche un lavandino (studiato per non poter essere divelto) e un telefono.

L’intero centro, pur sorvegliato da ragazzi dell’esercito in tuta mimetica, è gestito dalla Croce Rossa, che ha vinto il relativo appalto. Tra le cose che fanno c’è la gestione dei pasti, che vengono preparati e distribuiti caldi ma impacchettati (non ci sono fuochi, gas o attrezzi per scaldare dentro le gabbie).

Loro cercano di soddisfare i “trattenuti” almeno in questo, per cui ognuno può indicare le proprie preferenze (su 85 ospiti vi sono 81 menu diversi) e il numero di pasti è sovrabbondante, per cui chi vuole può fare il bis e anche essere un po’ schizzinoso: ad esempio abbiamo visto un ospite prendere il riso attraverso l’apposita feritoia, non gradirlo, scaraventare fuori tutto il pacchetto e chiedere un’altra cosa.

Ogni “trattenuto” riceve dalla Croce Rossa 3,50 euro al giorno, che può utilizzare per ricariche telefoniche, per comprare le sigarette o per poco altro; comunque, spesso parenti e amici inviano vaglia postali, oltre ai soldi (spesso non pochi) che ognuno di loro aveva in tasca quando è stato fermato. Oltre alla televisione, sono disponibili un campo da calcio e dei canestri da basket: non c’è molto con cui ingannare il tempo.

Forse vi starete chiedendo come mai, su 210 posti originari, ce ne sono ora soltanto 98. Il motivo è che gli altri posti sono stati devastati nelle periodiche rivolte, e così molte delle camerate – e anche una intera area – sono chiuse, mentre gli altri vivono tra le tracce degli incendi passati: qui, ad esempio, sono in uso solo due camerate su cinque.

Vi sono diversi motivi per cui le rivolte sono così frequenti. Innanzi tutto, a differenza di ciò che avveniva molti anni fa, oggi quasi mai chi entra in un CIE è un clandestino appena sbarcato; la popolazione è “paracarceraria”, ovvero quasi tutti sono in Italia da molto tempo e sono già stati per molti anni in carcere, uscendone senza permesso di soggiorno e quindi venendo poi ri-fermati e inviati al CIE. L’assurdità, difatti, è che per legge non possono essere avviate le procedure di identificazione e rimpatrio mentre sono in carcere, dunque devono scontare la pena, uscire, finire in un CIE e poi aspettare mesi lì dentro per lo svolgimento delle procedure. E loro stessi dicono: almeno in carcere sapevo perché ero dentro, ma qui? E perché non avete svolto le procedure mentre ero in carcere? Aggiungete che il livello di sicurezza è molto più basso e che fuggire è possibile – qui sotto vedete l’angolo da cui, arrampicandosi, tutti provano a scappare, e che non si può bloccare meglio per evitare il rischio che si ammazzino scappando, con conseguenti responsabilità penali e polemiche politiche – e capirete perché due volte al mese c’è una rivolta.

Inoltre, nel CIE di Torino (non dappertutto è così) ai “trattenuti” viene lasciato un telefonino, purché privo di fotocamera (se no gli chiedono di spaccarsela). Molti di loro sono in diretto contatto con l’esterno, dove sia i parenti che i centri sociali li aiutano a ribellarsi. Tempo fa, per esempio, fu lanciato dall’esterno un seghetto col quale furono tagliate le gabbie per poi cercare di uscire (qui vedete la riparazione).

In più, grazie al telefonino e alla televisione, loro sono informati di ciò che succede negli altri CIE e in Italia, e dunque a ogni episodio di razzismo che finisce sui giornali o che gli viene raccontato (vero o falso che sia, spesso vengono messe in giro voci ad hoc) o a ogni rivolta in altri CIE parte una rivolta anche a Torino.

Qual è la conclusione? Sicuramente questo è un luogo spiacevole; vedere delle persone dentro delle gabbie non fa piacere a nessuno, e il luogo – pur con tutto l’impegno della Croce Rossa – è comunque grigio, piuttosto sporco, degradato, con l’aspetto da campo profughi e in più le gabbie. L’impressione però è che il problema di fondo sia l’inconcludenza italica, per cui si decide di espellere delle persone “ma non troppo”, e dunque poi metà non vengono espulse e l’altra metà si perde in mesi di burocrazia che forse si potrebbe evitare, e tutte le due metà stanno per troppo tempo in condizioni comunque poco umane. Chi ha in gestione il CIE fa quello che può, ma è il modo in cui si approccia l’immigrazione in Italia che non funziona.

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venerdì 8 Novembre 2013, 13:29

Vittorie e battaglie sui rifiuti

Nelle scorse settimane sono state approvate definitivamente le tariffe Tares, di cui vi avevo già parlato. Sono state approvate senza modifiche, e anzi alle opposizioni non sono nemmeno stati forniti i dati minimi necessari per fare proposte di modifica. Sono tariffe che concederanno anche qualche sconto ad alcuni, ma che su alcune categorie, dalle famiglie numerose ai ristoranti e ai banchi di alimentari del mercato, peseranno come un macigno.

In uno scenario del genere, noi abbiamo comunque studiato approfonditamente il tema e presentato numerose proposte concrete, strappando anche alcune vittorie. Queste sono le cose che abbiamo proposto e che il consiglio comunale ha approvato:

  1. L’impegno a stanziare ogni anno i soldi necessari per far crescere la raccolta differenziata in città dell’1,5%, mediante l’estensione della raccolta porta a porta (mozione 1, punto 1).
  2. L’impegno a studiare modi per migliorare la raccolta e aumentare il ricavo dalla vendita dei rifiuti differenziati, abbassando così le tariffe (mozione 1, punto 2).
  3. L’impegno a valutare metodi per misurare quanta immondizia produce ciascun utente e a farlo pagare in proporzione (mozione 1, punto 3; la maggioranza tuttavia non è del tutto convinta e ha reso il testo più vago parlando anche di “aree omogenee”).
  4. L’impegno a chiedere ad Amiat una “spending review” che faccia ridurre i costi e di conseguenza le tariffe (mozione 2; noi avevamo chiesto il 10% di taglio in tre anni, ma il sindaco ha risposto “così poi devono licenziare qualcuno”; l’impegno è a ridurre anche solo di un euro, ma se già per tre anni i costi non aumentassero ancora sarebbe una grande vittoria).
  5. L’impegno a rivedere gli studi, vecchi di un decennio, che determinano le tariffe delle varie categorie commerciali (mozione 3, punto 1).
  6. L’impegno a promuovere forme di autogestione della raccolta rifiuti nei mercati, per abbassarne il costo e permetterne il controllo diretto agli operatori (mozione 3, punto 2).
  7. L’impegno a prevedere sgravi sulla Tares per i “negozi leggeri” che vendono solo prodotti senza imballaggi (nostro emendamento accolto nella mozione 4).

Insomma, ci siamo dati da fare seriamente e costruttivamente, come potete sentire anche nel lungo intervento contenuto nel video. Peccato che, come vedete alla fine, poi arrivino altri gruppi politici che si mettono semplicemente a tirare fuori un bidone ed agitarlo in aula, attirando i fotografi come le mosche; noi siamo comunque convinti che il nostro approccio sia quello che alla fine produce più risultati per i cittadini.

Comunque, il problema della Tares resta ed è grave, e sicuramente avete saputo della manifestazione dei mercatali che martedì ha bloccato Porta Susa. Ognuno si può fare l’opinione che crede, ma queste sono famiglie che rischiano il posto di lavoro, a fronte dell’aumento delle tasse e della contemporanea politica di continua apertura di nuovi supermercati adottata da Fassino; martedì noi siamo gli unici che sono andati ad ascoltarli, e ora vi lasciamo con un testo che uno di loro ci ha mandato, con preghiera di pubblicazione, per far sapere che le cose non sono proprio come le raccontano i giornali.

“Per dare una risposta a Passoni, assessore al Bilancio, e al sindaco Fassino è doveroso chiarire alcuni punti: a Torino la situazione del commercio e quindi degli ambulanti sta precipitando per due principali motivi, oltre che per la solita storia della crisi:

  • una politica favorevole ai centri commerciali e di disinteresse e ostacolo verso i mercati.
  • una pressione fiscale da parte del Comune che non ha nulla a che vedere con gli scontrini ma che colpisce l’ambulante soltanto perché “esiste”.

Stiamo parlando di circa 3000 euro per 10 mq (nel 2004 si pagava euro 1320) per gli alimentari e 800 euro per non alimentari che fanno 1-2 kg di carta al giorno. Ed è riconosciuto che facciamo molti meno rifiuti di alcuni anni addietro. Strano: meno rifiuti si fanno negli anni, più si paga… Torino – Amiat (azienda raccolta e smaltimento) è proprio strana.

Chi ha superfici maggiori paga proporzionalmente, quindi ci sono ambulanti che pagano anche 5000-6000 euro/anno e anche più. La tassa dei rifiuti per gli ambulanti torinesi è la più alta d’Italia, più del doppio di Milano e il triplo di Bologna, e gli aumenti proseguiranno. Non è più sostenibile: e il motivo che adduce Passoni che circa il 40% non paga la tassa non giustifica che bisogna caricare tutto su chi paga: è una risposta ben misera.

Questo fuoco che sta divampando tra i commercianti, anche i negozianti, è da circa un anno che lo facciamo presente. Ma lo stesso Fassino non ci ha mai incontrato, e tutte le volte che lo abbiamo cercato lui non c’era mai. Un sindaco che di fronte al grido di grande disagio di molti suoi cittadini non c’è mai. Probabilmente pensa che sono tutte storie, che i commercianti sono pieni di soldi… e via così. A Torino in gennaio e febbraio hanno chiuso circa 240 negozi, 6400 in tutta Italia in due mesi. Quindi sono tutte storie? Stiamo andando sempre peggio.

Molti mercati torinesi si sono desertificati perché gli ambulanti non li frequentano più, non rendono più niente e le licenze si stanno restituendo al Comune perché non si riescono a vendere da diversi anni. Ci sono un mucchio di ambulanti che incassano meno di 100 euro al giorno e devono decidere se mangiare o pagare le tasse comunali, compresa l’occupazione del suolo pubblico, minimo 1250 euro per 10 mq. Le organizzazioni sindacali Anva – Fiva – Confcommercio latitano e portano avanti il loro compito principale: fare da commercialisti agli ambulanti e negozianti.

Invece di ridurci queste tasse il Comune non interviene su Amiat, il cui amministratore delegato ha pensato bene di creare l’incarico di direttore commerciale e di farsene carico con il relativo stipendio. 2 incarichi = 2 stipendi.

Un fuoco probabilmente destinato a divampare!”

Aggiungo un’ultima cosa talmente assurda che non me ne capacito: nella tabella delle tariffe voi trovate dei valori a metro quadro e anno da cui apparentemente quella dei mercati sembra ragionevole: per esempio i ristoranti e simili pagano 41 €/mq/anno mentre gli ambulanti alimentari ne pagano 52. Il problema è che il Comune di Torino, unico in Italia, ha adottato questo metodo di calcolo: mentre un pizza al taglio di 20 mq aperto sei giorni a settimana paga 41 * 20 = 820 €/anno, un banco del mercato di 20 mq che fa ogni settimana sei mercati in sei giorni diversi paga sei volte, ovvero paga 52 * 20 * 6 = 6240 €/anno. Ma che senso ha, a parte quello di nascondere al cittadino medio l’esosità delle tariffe applicate ai mercati?

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mercoledì 30 Ottobre 2013, 15:41

I dati di spesa sul welfare

Ieri il consiglio comunale ha approvato il bilancio di previsione per il 2013; e già l’idea di approvare un bilancio di previsione – che dovrebbe pianificare le spese dell’anno – a fine ottobre, avendo atteso per tutto l’anno che da Roma decidessero su IMU eccetera, dimostra quanto la gestione della cosa pubblica sia ormai in totale emergenza.

Vorrei affrontare in questo post l’argomento dei finanziamenti al welfare, ossia a tutte quelle categorie deboli che hanno bisogno di essere sostenute dalla collettività. In questo modo potrò anche chiarire una questione che mi è stata sollevata infinite volte nelle scorse settimane, girandomi a colpi di due o tre al giorno due link (presi da blog piuttosto xenofobi) che hanno imperversato per i social network, ovvero “la città dà cinque milioni di euro agli zingari e poi taglia le scuole” e poi “undici milioni di euro regalati a zingari e immigrati”. Io vi dirò come stanno le cose, poi ognuno potrà farsi la propria opinione.

Questa è la tabella che illustra gli stanziamenti per le varie macro-categorie del welfare cittadino, confrontati con quelli degli anni precedenti, aggiornando quella che già vi avevo mostrato lo scorso anno:


2011 2012 2013 Var. sul 2012 Var. sul 2011 % sul tot.
Stranieri e nomadi 4.229.312 4.291.577 10.909.570 +154,2% +158,0% 11,3%
Anziani e famiglie 37.689.973 29.581.872 32.228.987 +8,9% -14,5% 33,3%
Adulti in difficoltà 6.864.354 6.925.343 8.111.122 +17,1% +18,2% 8,4%
Minori 22.607.373 18.737.517 19.888.586 +6,1% -12,0% 20,6%
Disabili 27.186.539 25.243.076 25.563.363 +1,3% -6,0% 26,4%
Altro 498.994 25.500 25.500


TOTALE 99.076.545 84.804.885 96.727.128 +14,1% -2,4%
di cui





Fondi comunali 41.172.897 40.176.639 42.417.521 +5,6% +3,0%  
Fondi esterni 57.903.648 44.628.246 54.309.607 +21,7% -6,2%

Quest’anno le cose sono migliorate; lo stanziamento complessivo è risalito quasi ai livelli del 2011, recuperando gran parte dei tagli del 2012, anche se per completezza va detto che su altre spese che non fanno parte del settore welfare le cose non sono andate così bene; per esempio il fondo per i trasporti dei disabili è di 1,5 milioni di euro (l’anno scorso erano 2,2, nel 2011 erano 3), e quello per i cantieri di lavoro (ovvero lavori socialmente utili per disoccupati) ha subito tagli analoghi.

Il grosso della risalita sul welfare vero e proprio, tuttavia, deriva non dai fondi comunali – che sono un po’ aumentati, ma sono aumentate non di poco anche le tasse… – ma dai fondi regionali e nazionali, che sono aumentati del 20% rispetto allo scorso anno. Ad ogni modo, questa è una buona notizia e ne va dato atto, dopo che molti di noi, in maniera bipartisan, avevano passato i mesi a battere sul tema.

In sostanza, sul welfare vengono stanziati 97 milioni di euro, così ripartiti: 32 per l’assistenza agli anziani, 26 per i disabili, 20 per i minori, 11 per stranieri e nomadi, 8 per gli adulti in difficoltà. Come detto, il totale è quasi pari a quello del 2011 (97 invece di 99) ma è diversa la ripartizione, che allora era: 38 per gli anziani, 27 per i disabili, 23 per i minori, 4 per stranieri e nomadi e 7 per gli adulti in difficoltà.

E’ chiaro che l’aumento di una volta e mezzo dello stanziamento per stranieri e nomadi è quello che proporzionalmente attira di più l’attenzione, ma va anche spiegato che tale aumento è dovuto all’arrivo di cinque milioni di euro di fondi nazionali stanziati molti anni fa per affrontare il problema dei campi nomadi abusivi e recentemente sbloccati; degli 11 milioni, i fondi comunali destinati a questo capitolo sono solo 800.000 euro, corrispondenti alla quota minima prevista per poter avere i finanziamenti nazionali; inoltre, una buona parte di questo fondo non è per i nomadi ma per i profughi e per i minorenni stranieri soli. E poi, è un po’ ingannevole parlare solo degli 11 milioni e non spiegare che ce ne sono altri 86 destinati a tutte le altre categorie, o non spiegare che l’aumento è un fatto straordinario derivante in gran parte da un fondo nazionale una tantum.

Certo, lascia perplessi anche la divisione dei 900.000 euro disponibili per investimenti nell’edilizia sociale per il 2013, che sono così ripartiti: zero per anziani, adulti, stranieri e minori; 300.000 euro per i disabili (realizzazione di rampe di accesso ai Poveri Vecchi); 600.000 euro per i nomadi (ripristino delle casette danneggiate nel campo regolare di via Germagnano e relativi impianti igienici e idrici; impianto di raccolta acque bianche nel campo di strada dell’Aeroporto; realizzazione di una barriera attorno all’area di Lungo Stura Lazio).

Allora, è vero che spendiamo “undici milioni di euro per zingari e immigrati”? Tecnicamente sì, almeno se equipariamo fondi locali e nazionali, ma la vera domanda è: ma questi soldi a cosa servono? Sono spesi bene o spesi male? E’ questo il problema; perché da una parte non possiamo pensare di risolvere il problema senza spendere niente (persino per abbattere le baracche abusive servono soldi e non pochi), ma dall’altra quanto speso in questi anni non è mai servito a risolvere il problema; si è limitato a finanziare associazioni direttamente connesse alla politica, dando risultati scarsi o nulli sia per i rom che per chi vive vicino a loro.

Insomma, io sarei ben lieto di spendere cinque milioni di euro se servissero a far sparire i campi abusivi, a togliere i bambini dall’immondizia (e dalle famiglie che li sfruttano), ad avviare qualcuno a una condizione di vita decente e a cacciare o catturare i delinquenti; ma ho il forte sospetto che anche questi soldi non serviranno a questo (nel video sopra trovate il mio intervento in aula quando si è discusso dell’argomento a settembre). E a cosa servirà ripristinare le casette di via Germagnano, distrutte nelle faide tra gli stessi occupanti, sapendo che verranno presto di nuovo devastate?

E allora, poi non ci si può lamentare se – come raccontavo anche nel mio intervento – mentre la politica pontifica e poi s’indigna e grida al razzismo a qualsiasi mezza parola non allineata sull’argomento, e però mantiene su queste spese una omertà difficile da penetrare persino per noi, basta girare per strada per sentire invettive e voci incontrollate contro “gli zingari” (ieri sul 4 un ventenne italiano apostrofava urlando il controllore con “e poi agli zingari non fate mai niente, anzi il Comune gli regala i biglietti e loro li rivendono e si fanno i soldi e poi girano senza”), e sui social network continuano a fare furore i link di cui sopra o foto come questa, in cui bastano un cartone e due pacchi di pasta a scatenare la furia da tastiera contro i rom, condivisa e approvata da decine di migliaia di persone. Io ho molta paura che prima o poi il nodo verrà al pettine, e nel modo peggiore.

Il discorso, peraltro, va per forza di cose esteso a tutte le categorie di cui sopra: c’è una grande parte di società che si trova in difficoltà ed è doveroso assisterla, ma al suo interno ce n’è una parte per cui questa assistenza è diventata un meccanismo opaco e clientelare, in cui la casa popolare o l’assistenza economica, anche se ottenute per diritto, implicano la riconoscenza in sede di cabina elettorale, o magari persino di congresso di partito (vedete l’istruttivo racconto del senatore Esposito su quanto avviene a Santa Rita); e ce n’è una parte di cui alla politica, più che il suo benessere, importano gli appalti che si possono dare ad aziende e cooperative amiche in nome del welfare.

In una società che prospera, la collettività è in grado di sostenere fasce anche rilevanti che vivono di pura assistenza; in una società in cui le fasce in difficoltà aumentano e le aziende chiudono, in cui le entrate fiscali diminuiscono e la spesa per il welfare aumenta, questo non è più sostenibile. Il rischio, conoscendo la politica, è che il welfare progressivamente sparisca per tutti, tranne che per quelli che permettono col loro voto di sostenere il sistema.

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venerdì 25 Ottobre 2013, 14:22

Approvato il bici plan

Era il febbraio 2011 quando il consiglio comunale, ancora sotto Chiamparino, decise di allegare al piano della mobilità urbana un documento di pianificazione del trasporto in bicicletta, denominato “bici plan”. Sono trascorsi quasi tre anni, e da quando siamo entrati non abbiamo mai mancato di raccontarvene e di spingere perché fosse realizzato. A luglio ne arrivò una prima bozza, e noi abbiamo dato vita a un’ampia consultazione con i cittadini e i gruppi di circoscrizione; il nostro gruppo di lavoro sui trasporti produsse una approfondita analisi con molte proposte migliorative.

Grazie allo sforzo, il bici plan non solo è stato approvato, ma contiene anche molte delle nostre proposte; per una volta, l’amministrazione ha mostrato un atteggiamento disponibile e costruttivo, e questo ci ha permesso di presentare miglioramenti utili e costruttivi e di votare infine a favore del piano. Abbiamo così presentato tredici emendamenti, concentrati essenzialmente su tre argomenti: la definizione di criteri costruttivi (già oggetto di una nostra mozione di due anni fa) per le future piste ciclabili, che spesso sono perfette sulla carta ma in realtà sono piene di ostacoli al punto da risultare inutilizzabili, sprecando i soldi pubblici; la partecipazione dei cittadini alla definizione dei progetti, tramite il passaggio preventivo dei progetti nelle commissioni consiliari delle circoscrizioni, aperte al pubblico, per evitare di realizzare infrastrutture che creano più problemi di quanti ne risolvono; e la garanzia dei finanziamenti necessari alla realizzazione del piano.

Abbiamo inoltre portato in aula un’altra nostra mozione che richiede una ulteriore specifica pianificazione per quanto riguarda i parcheggi per le biciclette, studiando i tipi di infrastrutture già presenti nel Nord Europa, come i parcheggi chiusi e custoditi, ma anche l’interscambio con i mezzi pubblici e il contrasto ai furti; e anche la mozione è stata approvata.

Il bici plan non è perfetto; in particolare, su ciascuno dei percorsi previsti nel piano (qui trovate una bozza quasi finale del documento, senza le ultime modifiche approvate in aula) ci sarebbe molto da dire, e prima di realizzarli si faranno ulteriori analisi e aggiustamenti. Il vero rischio, comunque, è duplice; da una parte che, nonostante le indicazioni dettagliate che abbiamo messo nel piano, si continuino a realizzare piste inutili perchè tortuose, lente, scomode, piene di pericoli e lontane dai percorsi dei principali spostamenti; dall’altra, che alla fine si realizzi poco o nulla perché, nonostante l’impegno di stanziare ogni anno almeno due milioni di euro dai proventi delle multe, di fatto i soldi vengano dirottati su altro.

Eppure, esso costituisce comunque un passo avanti: ora non resta che vedere se l’amministrazione si metterà al lavoro per realizzarlo davvero.

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