Bratislava o Marte
L’Europa si divide in due: quelli che da piccoli guardavano Tom e Jerry e quelli che da piccoli guardavano Nu pogodi. Bratislava appartiene alla seconda categoria e, a differenza di Praga, è sufficientemente fuori dalle rotte turistiche e finanziarie principali da mostrare ancora evidenti, in modo affascinante, le contraddizioni del suo passato. Da una parte è una delle zone a maggior crescita economica dell’Europa orientale, con un centro storico asburgico, restaurato e pieno di locali e di vita, e con una infilata di palazzi di vetro più centro commerciale sulle rive del Danubio; dall’altra, basta aprire gli occhi e allargare un po’ il raggio per ritrovarsi d’improvviso in quegli angoli alieni tipici delle città ex comuniste.
Chi arriva, come noi, a piedi dalla stazione ferroviaria comincia salendo sul castello dal lato della terra, su una ripida salita che passa davanti al monumento di Raoul Wallenberg. Il castello è carino, in stile rinascimentale, ma non è molto grosso ed è abbastanza vuoto; fu bruciato nelle guerre di Napoleone e rimase lì in rovine fin che non nacque la Cecoslovacchia nel 1918.
Da allora cominciarono a pensare di ricostruirlo, ma fino al secondo dopoguerra non ci fu il modo. Ci pensarono i comunisti, dando l’incarico a un noto professore di architettura; peccato che il progetto si sia poi fermato dopo che egli fu arrestato per “pubblica diffamazione di una potenza amica” (chissà quale). Dagli anni ’60 in poi i lavori vanno avanti, ma a tutt’oggi il castello è spoglio e incompleto: ci si sale soprattutto per guardare dall’alto la città.
Alla fine della salita, entrati nelle mura, si spunta dal piazzale del castello e la vista appare improvvisa, inattesa e per un attimo meravigliosa: il bel Danubio verde scorre là sotto in primo piano. E’ solo alzando lo sguardo che progressivamente si rimane sempre più perplessi, come se si capisse solo allora che le cose non sono come dovrebbero essere. Avete presente il finale del Pianeta delle scimmie? Ecco, la rivelazione è simile ma opposta: pensavate di essere sulla Terra, e invece questa non è la Terra.
Difatti, dall’altra parte del fiume, oltre gli alberi del parco sulla riva, si notano alcuni palazzi di case popolari, dei parallelepipedi perfetti di cemento appena risegati dalle casette degli impianti sui tetti piatti. E poi, dietro di loro, ce ne sono altri uguali. E poi dietro ancora. E anche di fianco, su tutto il fronte della città. E così via, a perdita d’occhio, fino a svanire nella foschia dell’orizzonte. E’ come se avessero preso un casermone alto e largo, il peggio delle periferie urbane, e l’avessero ricopiato e incollato digitalmente nella vista, ruotandolo appena un po’ di qua e un po’ di là, dozzine di volte; digitalmente, perché nessuno in natura potrebbe ripetere così pervicacemente lo stesso identico enorme oggetto.
Per completare la vista, proprio davanti al tutto c’è un ufo di cemento, sospeso in aria sopra i tetti dei palazzi; un disco volante come quelli dei film anni ’50. In realtà è un ristorante panoramico per la nomenklatura del tempo che fu, attaccato in cima all’unico enorme pilone che sostiene il Ponte Nuovo, collegando la città umana dove siete voi con la città aliena dall’altra parte del fiume.
Il sobborgo di Petrzalka doveva essere il trionfo dell’uomo nuovo socialista; tutti dovevano vivere nelle stesse case (prefabbricate col cemento) e diventare un collettivo senza volto. Oggi gli abitanti cercano di dare un’anima a questi casermoni dipingendoli a colori vivaci, chi rosso, chi viola, chi arancio. Almeno, così li si distingue.
In generale, Bratislava sembra una città che sta lentamente tornando alla vita; i palazzi vengono a uno a uno restaurati e resi nuovi e lucenti come un pezzo di Germania, con tanto di Audi e Mercedes parcheggiate davanti. Il problema è che i palazzi ripuliti sono solo una parte, concentrati nelle strade principali del centro storico, e gli altri vanno dal degradato al pienamente fatiscente. Anche in pieno centro ci sono palazzi coi muri a pezzi, i vetri rotti, le pareti puntellate (c’erano anche a Torino, ma gli ultimi sono spariti vent’anni fa). Basta uscire un po’ dal centro perché il degrado si moltiplichi: i marciapiedi sono pieni di buche, le aiuole una savana, le fermate dell’autobus arrugginite e sfondate. Il Ponte Vecchio è sbarrato e oscillante, con un vecchio binario ferroviario il cui accesso è coperto dalle erbacce e protetto da reti sfondate che nessuno si preoccupa di tirare su; ed è comunque in uso pedonale. Oltre il ponte, c’è uno stadio in abbandono.
Le ferite saranno dure da risanare, in certi casi impossibili. Per esempio, dato che ai comunisti la religione non piace, il regime decise che il tracciato migliore per la tangenziale era proprio sul sagrato del Duomo. Per questo, la cattedrale oggi si affaccia su uno svincolo autostradale di cemento cadente, con le auto che sfrecciano a un metro dalla facciata.
Si percepisce che gli slovacchi non hanno nessuna voglia di restaurare il proprio patrimonio post-1918, e che forse sarebbero più contenti se potesse crollare e basta. Appena fuori dal centro c’è una meravigliosa chiesa Jugendstil di colore azzurro, tutta restaurata, ridipinta e luccicante. Di fronte c’è un tronfio palazzone di otto piani in stile aulico: è sporco, semiabbandonato, con i vetri rotti e le erbacce che crescono. Sotto gli immancabili fregi posti accanto all’ingresso principale qualcuno ha commentato con lo spray “Mega Death”.
Ma il punto più surreale è piazza della Libertà, un grande quadrato subito fuori dal centro circondato sui lati dagli edifici dei ministeri. La bruttezza degradabile e la monumentale ingestibilità dello stile architettonico dell’immediato dopoguerra (di cui a noi resta il Palazzo del Lavoro) qui si esprime al meglio. Al centro c’è un giardino che, nonostante il verde, dà subito l’impressione di un inospitale deserto di pietra, un tempo luogo dei fasti di qualche civiltà aliena e ora abbandonato per i secoli dei secoli. L’arredo urbano, tutto scrostato e arrugginito, sembra uscito dal Solaris di Tarkovskij; al centro c’è una gigantesca fontana a forma di fiore, bordata di travertino, in cui l’acqua sembra non scorrere più da tempo immemorabile. Come sempre, il cemento e la pietra sono in frantumi e nessuno ha voglia di sistemarli.
Oltre il quadrato della piazza, appare come una rivelazione l’ultimo enigma architettonico: la grande piramide rovesciata della Radio Slovacca. Penso che la sua forma totalmente innaturale volesse simboleggiare, oltre alla solita supremazia della scienza umana sulla natura, l’emissione delle onde che si allargano verso il cielo per raccontare al mondo i trionfi del comunismo cecoslovacco. In verità, ora la base è piena di graffiti e di erbacce, l’incuria è totale e l’unica percezione che può avere un essere umano davanti a un simile oggetto è “qui c’è qualcosa di profondamente sbagliato”.
Di fronte hanno costruito un grattacielo di vetro con la sede della Banca Nazionale Slovacca, con tanto di mostre sull’euro e monumenti alla moneta, probabilmente sperando di far passare inosservata la piramide grazie alla presenza a fianco di un edificio più grosso e moderno. Alla fine, però, nonostante gli slovacchi comprensibilmente facciano di tutto per occultarli e per ripresentarsi al mondo come la nazione asburgica che sono stati per mille anni, i residui comunisti di Bratislava sono un monito interessante: i segni di una cultura tragica rimasti nella pietra.
[tags]bratislava, slovacchia, architettura, paesaggio, urbanistica, comunismo[/tags]