Il social housing e l’assistenza ai poveri
Il tema dell’accesso a una casa, necessità primaria per sopravvivere, è a Torino sempre più attuale, a fronte delle migliaia di sfratti ogni anno. Noi ce ne siamo occupati continuamente in questi anni, presentando in aula proposte concrete, che escano dagli schemi ideologici e possano dare delle soluzioni immediate; purtroppo non ci hanno dato molto ascolto.
A fronte della scarsità di risorse delle casse pubbliche, negli ultimi anni si sta affermando una nuova soluzione per l’assistenza immediata a chi perde la casa: quella del social housing. Esistono molte diverse interpretazioni di questo termine, ma generalmente si tratta di iniziative in cui un ente benefico privato contribuisce a mettere in piedi un edificio in cui sia possibile offrire spazi a prezzo convenzionato a chi non riesce più a pagare l’affitto, sia per breve che per medio termine, ma in cui abitino anche altre persone (spesso studenti o lavoratori fuori sede) che pagano il prezzo pieno.
In questo modo, le rette di chi può pagare il prezzo più alto sovvenzionano in parte anche le spese delle famiglie bisognose, e inoltre si crea un ambiente sociale misto in cui i diversi ospiti possono aiutarsi a vicenda, e questo può aiutare anche le famiglie bisognose a trovare vie d’uscita dalla condizione di bisogno; gli spazi comuni vengono condivisi, utilizzati per servizi (dal medico alla mensa alla sala studio) e spesso messi a disposizione anche del quartiere circostante.
Non di rado, comunque, è anche il Comune a finanziare e sfruttare queste iniziative, stipulando convenzioni con cui paga il costo di una parte delle camere e dei miniappartamenti che vengono poi destinate alle famiglie senza casa, tipicamente come “soluzione ponte” nel periodo tra lo sfratto e l’ottenimento di una casa popolare dall’ATC, ma anche per altre emergenze in cui in passato il Comune sistemava le persone in albergo, una soluzione generalmente più costosa e meno dignitosa; per esempio, gli sfollati di strada della Verna sono finiti in blocco nel social housing di via Ribordone.
A Torino le esperienze sono ormai parecchie. C’è Buena Vista, all’interno di una delle palazzine dell’ex MOI, realizzato da un raggruppamento di molte note associazioni e cooperative sociali torinesi; e c’è Luoghi Comuni, realizzato dalla Compagnia di San Paolo in piena Porta Palazzo. C’è DORHO, intitolato a don Orione e promosso dalla Caritas Diocesana in una struttura già esistente di corso Principe Oddone, e c’è Sharing, realizzato in un ex immobile delle Poste di via Ribordone poi passato alla Cassa Depositi e Prestiti e ristrutturato grazie a 14 milioni di euro della Fondazione CRT, e che nei prossimi anni raddoppierà con un progetto simile ristrutturando a tale scopo la Cascina Fossata.
Il Comune, di suo, non avrebbe mai avuto le decine di milioni di euro necessarie per mettere in piedi queste strutture; e anche se il modello in cui dal welfare pubblico si ritorna alla beneficenza privata sa di ritorno all’Ottocento, anche se indubbiamente queste iniziative sopravvivono anche grazie a buoni rapporti con la politica e/o i poteri forti della Città , bisogna comunque dire “meno male che ci sono”.
D’altra parte, qualcosa è cambiato anche nel rapporto tra le istituzioni e quella fetta di città che non ha niente e vive di assistenza. Fino a due o tre anni fa, per esempio, le case venivano anche date gratis; adesso, anche per chi ufficialmente ha reddito e patrimonio zero, l’ATC richiede un affitto minimo di 40 euro al mese.
Il Comune, per queste soluzioni temporanee, richiede lo stesso canone che chiederebbe l’ATC. Gli assistiti versano così al Comune circa 18.000 euro l’anno a fronte di una spesa di circa 400.000, ma quello che conta è il messaggio; nessuno può più vivere completamente di assistenza, sedersi lì e pensare che tutto gli sia dovuto.
In questi anni, infatti, ho imparato che l’assistenza ai poveri va fatta con la testa. E’ molto facile, difatti, farsi trascinare dall’emozione e dalla pietà per persone che perdono la casa o il lavoro, ma non sempre dare a tutti ciò che chiedono è la soluzione giusta. Per ogni persona povera che occupa una casa ATC o vi si barrica dentro per non esserne cacciata avendo perso i requisiti, ce n’è una ancora più povera che aspetta in silenzio il suo turno per avere la casa a cui ha diritto; e a fronte di un inquilino che non può più permettersi di pagare l’affitto e cerca di bloccare lo sfratto con la forza, può esserci non un cattivo proprietario speculatore immobiliare coi miliardi in banca, ma un comune cittadino della ex classe media che ha investito in una seconda casa da affittare i risparmi di una vita e che se non riceve regolarmente l’affitto non sa come pagare le spese e i mille euro di IMU che gli chiede il Comune.
Gli stessi dirigenti comunali ci raccontavano che ogni giorno arriva qualcuno negli uffici a battere i pugni sul tavolo, convinto che gridando più forte o facendo una sceneggiata potrà scavalcare le graduatorie o ottenere ciò a cui non ha diritto, e che non di rado sono costretti a chiamare la forza pubblica per difendersi. Aggiungo io che questi sono i risultati di decenni di assistenzialismo a fondo perduto e di collusioni con la politica, in quanto spesso l’assistenza è stata concessa essenzialmente per “intercessione” del politico di turno in cambio di voti, al di là delle effettive necessità ; e quindi, molti si sono abituati a chiedere con insistenza per avere (ci provano anche con noi).
Per questo, anche se cacciare da una casa popolare qualcuno che non ha 40 euro al mese può sembrare a prima vista una cattiveria, alla fine promuovere la responsabilità e l’iniziativa di chi è in difficoltà , mettendolo piuttosto in ambienti sociali che gli diano l’opportunità di crescere e di tirarsene fuori, è più opportuno che scaricare tutto all’infinito sulle casse pubbliche, magari in quartieri-ghetto senza prospettive. Almeno, questa è la mia opinione e mi piacerebbe sentire la vostra.