Profughi, tra mito e realtà (3)
Abbiamo già visto chi sono i profughi e quali sono i requisiti per essere riconosciuti tali, evidenziando alcune anomalie tutte italiane come i tempi lunghissimi per la valutazione delle richieste di asilo e la quantità molto elevata di permessi umanitari concessi a chi non avrebbe i requisiti per la protezione internazionale. In questa puntata vorrei invece raccontarvi il percorso che compie un profugo dall’arrivo in Italia alla eventuale integrazione.
Bisogna premettere che non è semplicissimo per un Paese essere pronto a gestire ondate migratorie improvvise; gli arrivi, difatti, seguono le situazioni geopolitiche e variano velocemente. Per esempio, se nel 2010 gli sbarchi erano stati poco più di 4000, nel 2011, grazie alle “primavere arabe”, furono oltre 60.000; già in quel caso il sistema di accoglienza andò completamente in crisi, con migliaia di persone ammassate a Lampedusa che alla fine costrinsero il governo, impreparato a valutare i casi uno per uno, a proclamare la cosiddetta Emergenza Nord Africa (ENA) e a dare un permesso di soggiorno umanitario a tutti gli sbarcati indistintamente, spendendo un miliardo e trecento milioni di euro per ospitarli a far niente per un paio d’anni, per poi abbandonarli in mezzo a una strada, con 500 euro di buonuscita in mano, alla scadenza dell’emergenza a inizio 2013 (a Torino, molti di questi sono poi andati a trovarsi un tetto occupando il MOI).
Questo, comunque, è stato solo l’antipasto, come dimostrato dalla progressione degli sbarchi negli anni successivi: nel 2012 furono solo 13.000, nel 2013 43.000, nel 2014 170.000 e nel 2015 si potrebbe arrivare a 200-250.000. A tutti questi l’Italia deve dare soccorso e prima accoglienza; poi, come detto, circa metà sparisce ed entra in clandestinità cercando di andare a farsi accogliere in altri Paesi europei, mentre l’altra metà presenta la domanda di asilo, che dà diritto in sé a mediamente un anno di vitto e alloggio, dopo il quale in più di metà dei casi la domanda viene accolta, dando diritto a un percorso di ospitalità e integrazione di un altro annetto e al soggiorno in Italia a tempo indeterminato (a meno che non decada la situazione personale per cui si è avuto asilo).
Pertanto, alla fine di quest’anno l’Italia dovrebbe trovarsi a ospitare oltre 100.000 richiedenti asilo sbarcati nel 2015 e in attesa di valutazione, più circa 40.000 sbarcati nel 2014 e riconosciuti come meritevoli di protezione, più i rifugiati degli anni precedenti che sono ancora inseriti nei progetti di integrazione; oltre a questi, sul territorio restano decine di migliaia di sbarcati entrati in clandestinità .
Se è vero che rispetto alla popolazione italiana sono numeri ancora piccoli, e che sono altrettanto piccoli rispetto alle quantità di rifugiati storicamente presenti in altri Paesi europei, è altrettanto vero che l’Italia non è assolutamente organizzata per gestire un afflusso di queste dimensioni: e quindi tutto si improvvisa e nascono i problemi.
Vediamo dunque qual è il percorso dei profughi partendo dal loro arrivo, che per più di tre quarti (nel 2014) avviene via mare (Atlante SPRAR 2014, pag. 42):
Dopo un lungo e disumano viaggio attraverso il Sahara o lungo il Mediterraneo, gli aspiranti profughi giungono in Libia e da lì si apprestano a partire verso l’Italia. Nonostante l’uso del termine “sbarco”, che fa pensare a zattere che approdano sulla sabbia delle nostre coste dopo giorni e giorni di odissea in mare, in realtà il viaggio dei barconi oggi dura poche decine di chilometri; per facilitare la traversata evitando tragedie, il soccorso avviene solitamente a 30-40 miglia nautiche dalla Libia, più o meno lungo la linea rossa puntinata che vedete in questa cartina.
Da questa politica nascono le polemiche di chi (compreso il governo inglese) sostiene che soccorrere i profughi così vicino all’Africa è in realtà un incentivo a mettersi in mare ed è una delle cause del boom migratorio in atto, vittime comprese, e che se non ci fossero più soccorsi quasi nessuno proverebbe più la traversata. D’altra parte, se di colpo non ci fossero più soccorsi ci sarebbero almeno in una prima fase migliaia di vittime; di qui le proposte di sistemi alternativi, come l’affondamento nei porti libici dei barconi vuoti prima che partano, oppure l’idea di “corridoi umanitari” in cui il viaggio viene organizzato in modo sicuro direttamente dall’Europa, anche se a quel punto si porrebbe il problema di chi ammettere a questi viaggi.
Per ora, al largo delle coste libiche, chi arriva viene soccorso da una nostra nave o, da quando esiste l’operazione europea Triton, da una nave europea; in entrambi i casi, comunque, i profughi vengono trasportati in un porto italiano e consegnati all’Italia.
Quando arrivano, i profughi praticamente sempre non hanno documenti e non sono identificabili; dunque, prima di chiedergli se vogliono presentare domanda di asilo, si pone il problema di identificarli. Prima ancora, però, spesso i profughi sono anche in cattive condizioni di salute, e in questi casi la nave li porta in uno dei CPSA (Centro di Primo Soccorso e Accoglienza), che si trovano a Lampedusa, Pozzallo, Cagliari-Elmas e Otranto; lì, i profughi devono rimanere per massimo 48 ore, soltanto per riprendersi e venire curati. In alternativa, se non c’è bisogno di grandi soccorsi, i profughi vengono portati sempre per massimo 48 ore in un CDA (Centro Di Accoglienza). Sia nei CDA che nei CPSA, il profugo può presentare la domanda di asilo; se non la presenta, e non ha altri documenti validi, è un clandestino e dunque viene trasferito in un CIE per essere poi espulso e rimpatriato.
Se invece, anche senza essere stato ancora identificato, dichiara di voler presentare la domanda, allora il profugo viene trasferito in un CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo), nel quale arrivano anche coloro che, invece di sbarcare, si sono presentati a una nostra frontiera via terra o aereo per fare domanda di asilo. In pratica, CARA e CDA sono quasi sempre insieme nello stesso posto; ce ne sono una dozzina, quasi tutti al Sud, e l’unico al Nord è a Gradisca, per chi arriva dall’Est Europa. Il più grande e famoso CARA è quello realizzato nella ex base NATO di Mineo, in provincia di Catania; a giudicare dalla frequenza con cui lo dicono in televisione, “caradimineo” è destinata a diventare una parola comune. Nei CARA si procede all’identificazione del richiedente asilo – che può richiedere settimane, essendo necessaria la verifica presso le ambasciate e le anagrafi di Paesi esteri talvolta poco collaborativi – e all’esame della sua domanda di asilo.
Nel momento in cui la domanda viene accolta in una delle tre possibili categorie già viste (rifugiato, protezione sussidiaria o protezione umanitaria), il profugo viene trasferito nel sistema SPRAR (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), una rete di centri situati su tutto il territorio nazionale. Fino a questo punto, difatti, tutte le strutture che abbiamo menzionato sono gestite direttamente dal governo centrale, tramite suoi appalti; lo SPRAR, invece, si basa sulla collaborazione tra Comuni e associazioni di volontariato. In pratica, i Comuni partecipano a un bando ministeriale, offrendosi di gestire un certo numero di posti, che in caso di ulteriori necessità possono anche venire aumentati dopo l’aggiudicazione del bando, e che vengono poi subappaltati in tutto o in parte alle associazioni; lo Stato paga i Comuni per il servizio, peraltro mediamente con grande ritardo, e i Comuni pagano le associazioni.
In questa fase, il profugo non viene più soltanto ospitato con vitto e alloggio, ma partecipa a progetti di formazione: gli si insegna l’italiano e lo si avvia al lavoro. Lo SPRAR prevede inoltre progetti specifici per richiedenti asilo di categorie deboli, come i malati sia fisici che psichici, le donne in gravidanza e i MSNARA (minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo; ce ne sono più di mille, praticamente tutti dai 15 anni in su).
Al termine del progetto, dunque, il profugo diventa indipendente e autonomo; può mantenersi da solo, pagarsi un affitto e diventare un elemento produttivo e integrato della società , e, dopo dieci anni di residenza legale e continuativa, ottenere la cittadinanza italiana; se è rifugiato o titolare di protezione sussidiaria, ha anche sin da subito il diritto di far venire in Italia tutta la sua famiglia, che ottiene il suo stesso status.
Bene, tutto chiaro? Problema risolto? Beh, se avete letto con attenzione le puntate precedenti ci saranno numerosi punti che non vi tornano: come è possibile allora che una buona metà degli sbarcati sparisca senza né presentare domanda di asilo né venire rimpatriato tramite CIE? E come è possibile che lo SPRAR, concepito per integrare i rifugiati, in realtà ospiti per il 61% semplici richiedenti asilo, metà dei quali si riveleranno in realtà dei clandestini? E dov’è la parte in cui il Prefetto invia senza preavviso profughi qua e là in giro per l’Italia, suscitando le rivolte dei residenti? (E poi, com’è la storia dei 35 euro al giorno?)
Vedete, quanto sopra è la teoria, ma nella pratica, complici i numeri in aumento, il sistema è quasi collassato. Tra CPSA, CDA e CARA, i profughi vengono portati un po’ dove capita a seconda di dove c’è posto, soccorsi come si riesce e trattenuti a tempo indeterminato fin che non si trova un altro posto dove metterli, magari perché c’è bisogno di liberare spazio per nuovi sbarchi in arrivo.
Nel frattempo, visto che la legge non specifica bene se l’ospite dei CPSA/CDA/CARA possa o meno andarsene dagli stessi, questi centri tendono a essere organizzati come delle prigioni, similmente ai CIE, ma nessuno ha veramente il diritto di bloccare uno che nonostante le reti scavalca e se ne va, visto che uno sbarcato non ha fatto niente di male e, se ha fatto la domanda, ha anche il permesso per restare in Italia fino alla risposta; quindi, una volta arrivati al CARA quelli che vogliono andarsene se ne vanno, sia prima che dopo aver presentato la domanda (circa al 10% dei richiedenti asilo non si riesce a consegnare la risposta perché risultano irreperibili). A maggior ragione, possono andarsene dove e quando vogliono, con un permesso di soggiorno in tasca, tutti quelli inseriti nello SPRAR.
E dato che nemmeno i CIE e il sistema delle espulsioni funzionano, ai richiedenti asilo che ricevono una risposta negativa generalmente viene consegnato un semplice ordine di lasciare il Paese con loro mezzi, col quale escono dalla struttura e ovviamente, invece di rimpatriare, restano in Italia come clandestini, magari per tentare poi di andarsene verso nord. Di fatto, solo una minuscola frazione degli sbarcati viene in qualche modo rimpatriata; il 99% abbondante, avente diritto o meno che sia, resta in Italia o in Europa.
Oltretutto, in alternativa al diventare clandestino, il richiedente asilo a cui è stata respinta la domanda può presentare ricorso in tribunale, spesso incoraggiato dalle stesse associazioni che gestiscono l’accoglienza e dai centri sociali. Siccome il richiedente asilo è nullatenente, gli avvocati per il ricorso glieli paghiamo noi; e nel frattempo, fino a che non vengono esauriti tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione, il richiedente asilo – nonostante già al primo esame sia stato riconosciuto essere un semplice clandestino – continua ad avere diritto di rimanere in Italia e di venire ospitato, magari per due, tre, quattro anni, per vedere se il tribunale ribalta la decisione della commissione territoriale.
A fronte di tutto questo, e dell’ondata di sbarchi dell’ultimo periodo, le strutture disponibili sono risultate insufficienti e vi è stata la necessità di trovare immediatamente nuove sistemazioni. Per questo il Ministero dell’Interno tramite le Prefetture ha provveduto a reperire strutture in giro per l’Italia per ospitare i profughi, inclusi i richiedenti asilo; sono i cosiddetti “centri di accoglienza straordinaria” o “strutture di emergenza”.
I richiedenti asilo che devono liberare posto nei CARA per i nuovi arrivi vengono dunque o inseriti nei posti SPRAR, che come abbiamo visto ospitano ormai per la maggior parte richiedenti asilo invece che persone già riconosciute come aventi diritto alla protezione, oppure, spesso senza nemmeno avere ancora presentato la domanda di asilo, vengono trasferiti in uno “hub regionale” (in Piemonte, il centro Teobaldo Fenoglio di Settimo Torinese, gestito dalla Croce Rossa) dal quale entro pochi giorni vengono smistati nei posti di emergenza reperiti dalla Prefettura sul territorio, salvo andarsene proprio a questo punto ringraziando per il passaggio offerto dal Sud al Nord che li avvicina all’Europa. L’assegnazione del profugo all’uno o all’altro sistema, a parte le categorie deboli, è sostanzialmente casuale, a seconda delle disponibilità .
Il modello dell’ospitalità prefettizia sarebbe simile allo SPRAR: in queste strutture non si dovrebbe fare solo ospitalità , ma anche formazione e integrazione. I Comuni però non vengono coinvolti, se non, quando va bene, in una discussione preventiva col Prefetto su quanti profughi si possano ospitare e dove; dopodiché, si tratta di un appalto diretto dalla Prefettura alle associazioni e alle entità private (albergatori compresi) che ritengono di avere posti da offrire. Succede dunque che i Comuni subiscano l’inserimento di profughi sul loro territorio senza poter dire niente, e che, a differenza dei posti SPRAR per cui i Comuni controllano cosa succede, nei posti prefettizi i controlli sul trattamento dei profughi siano scarsi o nulli; e qui è dove c’è più spazio per abusi.
In queste statistiche del Ministero dell’Interno, oltre a trovare l’elenco dei vari centri, potete vedere come ormai l’emergenza abbia preso il sopravvento: alla fine del 2014, dopo le ondate di sbarchi dell’anno, l’intero sistema accoglieva e manteneva oltre 66.000 profughi, quasi il quadruplo di quelli che erano ospitati all’inizio dell’anno; di questi, circa 10.000 erano nelle strutture governative (CPSA, CDA e CARA), circa 20.000 erano inseriti nello SPRAR, e circa 36.000 erano nei posti di emergenza appaltati dalle Prefetture.
E dato che gli sbarchi continuano ad avvenire, questi numeri sono già vecchi; nella prima metà dell’anno sono stati approntate altre migliaia di posti, quasi tutti gestiti dalle Prefetture; difatti, come visto, i posti necessari entro fine anno dovrebbero essere ben oltre centomila, anche considerando che l’accoglienza nello SPRAR deve terminare entro dodici mesi (tempo in cui il profugo dovrebbe diventare autosufficiente) e quindi c’è comunque un ricambio.
Ma quanto ci costa tutto questo sistema, da dove vengono i fondi, e chi ci guadagna? E, alla fine, quanto riesce veramente ad accogliere e integrare i profughi, e quale sarà veramente il loro destino? Di questo parleremo nella prossima puntata.