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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


mercoledì 25 Marzo 2009, 23:49

Una città americana inglese

Boston è davvero una città americana: si capisce che siamo negli Stati Uniti perché una buona metà delle persone che incroci per strada parlottano tra loro in spagnolo. D’altra parte si vede che siamo nel New England: fossimo in California, per strada sentiresti solo spagnolo e basta.

I residui WASP, infatti, se ne stanno ben chiusi nei loro SUV, spostandosi dal garage della villa al parcheggio riservato nel grattacielo dell’azienda e di lì al valet parking del ristorante scicchettoso; è raro che camminino per strada. Questo spiega anche una differenza nei trasporti pubblici: da noi, fuori dai centri, sono abbastanza poco capillari, ma piuttosto frequenti; mentre qui preferiscono frequenze assurde (tipo un bus ogni 30 minuti, 60 fuori ora di punta) ma con linee molto distribuite, in modo che tu abbia comunque una fermata entro due minuti a piedi dalla porta di casa, dato che nessun americano bianco camminerebbe per più di due minuti (fa eccezione Manhattan, ma ne parleremo la settimana prossima).

Ieri, comunque, nel nostro primo giro per la città ci siamo adeguati alla cultura locale, e abbiamo percorso tutto il famoso Freedom Trail: una striscia di mattoni rossi che partendo dal Boston Common attraversa tutta la città portandoti davanti ai principali monumenti della rivoluzione americana (con una sola eccezione, ovvero il sito del Boston Tea Party, che peraltro non esiste più perché la città si è espansa un po’ ovunque verso il mare, quindi ora al posto del molo c’è la sala da té dell’Hotel Intercontinental). Certo, la situazione è un po’ buffa perché praticamente tutto il resto del centro, nei secoli, è stato sostituito con grattacieli: per cui la casetta settecentesca che fu la sede delle assemblee indipendentiste è circondata da edifici alti decine di metri, e nel suo seminterrato settecentesco di mattoni settecenteschi hanno direttamente aperto l’ingresso della metro.

Comunque, la passeggiata è piacevole: porta prima davanti al mercato di Faneuil Hall, a sua volta fronteggiato dalla splendida City Hall, un romantico cubo di cemento progettato da un computer impazzito d’amore, che non si capisce come faccia a non piacere a nessun altro che a me. Poi si attraversa il quartiere italiano, pieno zeppo di ristoranti e di maglie di Ibrahimovic e Del Pippero, e infine si passa su un ponte metallico di inizio secolo tuttora zeppo di traffico (ma preoccupantemente arrugginito) e si arriva a Charlestown, dall’altro lato dell’estuario, dove si può visitare il porto militare e poi salire in cima a Bunker Hill, la sede della prima grande battaglia di indipendenza americana, chiusa tra il fiume Charles e il fiume Mystic e oggi circondata da case elegantissime.

La passeggiata, presa con la dovuta calma, dura tranquillamente tre ore, ed è davvero piena di storia: ed è più di quanto si possa trovare in quasi tutte le città americane. Mentre tornavamo al Quincy Market per mangiare ai baracchini un po’ di tipico cibo americano – pollo in salsa teriyaki e pollo tikka masala – ho pensato che effettivamente valeva la pena di visitare Boston: d’altra parte è l’unica parte di Nord America che potrebbe tuttora passare per una città inglese.

[tags]viaggi, stati uniti, boston, freedom trail[/tags]

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martedì 24 Marzo 2009, 17:07

La metro di Boston

Il nostro viaggio a Boston è finalmente arrivato a Boston, e questo è già qualcosa: siamo ospitati da un’amica che questa settimana è a Washington, e che ci ha lasciato la casa in condivisione con un’altra coppia di ospiti. E’ un’esperienza interessante, perché la casa è veramente americana, in un quartiere davvero americano, abitato prevalentemente da professori di Harvard: quindi si tratta di una immensa distesa di case indipendenti o al massimo bifamiliari, ognuna delle quali di due o tre piani. La nostra conta il regolamentare garage al piano interrato, un primo piano tutto aperto dove si trovano la cucina e il salone, un secondo piano con due camere da letto, e un terzo piano a mansarda con altre due camere da letto. Ogni piano ha il suo ufficetto ovale, ed è da quello del terzo – potere del wi-fi – che vi sto scrivendo in questo momento.

Sicuramente avrete sentito parlare di Boston come più antica tra le città americane (fu fondata nel 1630), come un centro di cultura e di politica. In realtà, la cosa che colpisce subito di Boston è che è la città trasportisticamente più sfigata d’America. Certo, la sua geografia è particolare: il centro si trova su una penisola che si protende sull’estuario di un fiume, per cui i collegamenti non sono agevoli. Qui, però, l’anarchia di mercato americana ha fatto gravi danni: tanto è vero che il progetto per risolvere il problema del traffico una volta per tutte, riempiendo la città di tunnel per trent’anni e 22 miliardi di dollari, ha lasciato in eredità non solo i conti da pagare, ma tutta una serie di polemiche; in particolare da quando si è scoperto che gli appaltatori hanno risparmiato sul cemento, fino a quando un pezzo di tunnel non è crollato sulle auto in transito.

E’ in questo scenario che ho vissuto una esperienza ridicola: prendere la linea grigia (pardon, argento) della metro di Boston, che collega l’aeroporto col centro. Già, perché qualche sospetto dovrebbe venirti già quando compri il biglietto e ti trovi davanti una scritta che dice “aspettate la linea grigia sul bordo del marciapiede fuori dal terminal”. Non è molto normale aspettare la metro in mezzo alla strada, e infatti a un certo punto arriva un bus, vecchio e strapieno di gente pigiata, con sopra scritto “SILVER LINE”. Tu lo prendi pensando che sia la navetta che ti porta alla fermata della metro, e invece no: è proprio la metro.

Già, perché in tutto questo ambaradan di lavori pubblici che partono, si incrociano, poi a metà vengono cambiati, poi cancellati e poi rifatti in un altro modo, a un certo punto hanno scoperto che non potevano far passare i binari della metro nello stesso tunnel sotto l’estuario che ospita le auto dirette all’aeroporto; e così ci hanno messo i bus. Però, quando i bus escono dal tunnel, fanno tutto un giro dell’oca per arrivare all’ingresso del percorso previsto per la metro, dove magicamente (in soli due minuti di cristoni dell’autista) tirano fuori un pantografo e passano all’alimentazione elettrica, diventando dei filobus.

Dopodiché percorrono un pezzo di strada, poi arrivano al punto dove la metro doveva scendere sotto terra; e infatti inizia un tunnel bloccato da una sbarra, al che l’autista tira fuori il telecomando e apre la sbarra, un po’ come facciamo noi per entrare in garage, e poi si infila nel tunnel. Che è un tunnel della metro, di forma quasi quadrata, largo come il bus più 20 centimetri per lato, dove invece dei binari hanno messo l’asfalto; là dove una metro sfreccerebbe a cento all’ora, c’è un povero autista che deve guidare a mano un grosso bus a venti, stando attento a non rifarsi la fiancata nelle curve. Ed è surreale arrivare a delle vere e proprie fermate sotterranee della metro, dove però invece fermano i bus. Un capolavoro di organizzazione dei trasporti pubblici, non c’è che dire!

L’America è così: prendere o lasciare. Alle volte l’esasperazione del marketing dà risultati interessanti: per esempio JetBlue ha trovato un sistema furbo per conciliare low cost e servizio a bordo da major, cioè ti dà gratis le bevande a bordo, addirittura a volontà, ma solo se le chiedi o te le vai a prendere da solo; e il risultato è che la maggior parte dei clienti, sui brevi voli interni, lascia perdere, ma intanto il servizio c’è. Altre volte invece escono fuori aborti come la Silver Line; del resto, se l’obiettivo dei servizi pubblici europei è offrire il miglior servizio possibile senza perderci troppo, l’obiettivo di quelli americani – che, come spiega Homer Simpson, sono rigorosamente per i perdenti – è di trasportare messicani, neri e turisti europei solo a patto di mantenere i conti accettabili; manutenzione, pulizia, frequenza del servizio sono le prime cose su cui si risparmia.

Ieri sera però siamo andati a fare la spesa: e così ho provato un ipermercato americano, quasi dieci anni dopo la prima esperienza a San Jose. Tutto è parecchio caro – Boston è una delle città più care d’America – ma alla fine non ci sono poi tutte queste differenze, a parte il fatto che non potrei mai vivere qui perché non esistono né il salame né lo sgombro sott’olio. Ma c’è la pasta Barilla, De Cecco, Buitoni e Giovanni Rana, e hanno persino i sughi Saclà.

D’altra parte, tutto è in confezioni giganti (c’era del sugo di pomodoro in una tanica di plastica da un paio di litri, come fosse benzina) e ovunque c’è il buffet del cibo a peso: decine di vaschette con ogni genere di piatto, dall’insalata alle bistecche, che tu puoi prendere e mescolare nel tuo contenitore, pagando poi a peso, da sei a otto dollari a libbra: ieri all’aeroporto mi sono sparato un mescolone assurdo di riso, puré, bistecca, manzo e verdure, pesce al forno e pollo in salsa barbecue, eccellente!

Però ancora non mi spiego com’è che qui le scatole di latta siano tuttora prive di anello: sarà che in ogni casa c’è l’apriscatole elettrico?

[tags]viaggi, stati uniti, boston, trasporti, bus, metro, supermercati, cibo[/tags]

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lunedì 23 Marzo 2009, 03:38

Nuovo cinema Lufthansa (3)

Ci sarebbero molte cose da raccontare su questo viaggio a Boston: per esempio, com’è che siamo invece finiti a New York, in un albergo (peraltro piuttosto carino) dove un divano appena un po’ allargato viene spacciato per un letto matrimoniale; e a cenare da un coreano troppo impegnato a scacciare gli ubriaconi a fucilate, un po’ come Apu nei Simpson.

E invece, siccome sono stanco ed è tardissimo in qualsiasi sistema orario, mi limito a segnalare che in volo ci hanno deliziato con Australia, che non avevo ancora visto. Non è completamente da buttar via, soprattutto se si scopre il gioco, peraltro abbastanza esplicito, che è quello di rifare un film anni ’40 con sessant’anni di ritardo. Interpretato in quel senso – cioè partendo dall’idea di andare a vedere una specie di Via col vento – Australia diventa un polpettone quasi accettabile, anche se viene costantemente schiacciato da tonnellate di antica retorica cinematografica e politicamente corretta. Si salva un po’ di più la seconda parte, quella della guerra, e secondo me Hugh Jackman è un buon attore, ma molto del film si regge sulla performance del chirurgo plastico di Nicole Kidman.

E’ stato così davvero rinfrescante vedere subito dopo The Rocker, una allegra commedia rocchettara su un quarantenne che, con vent’anni di ritardo, ha finalmente l’occasione giusta per roccheggiare. E sì, si vede pure Rock Band. Ma soprattutto, finalmente un film con un messaggio sensato: ave al glam rock degli anni ’80, e più in generale a quella meravigliosa esperienza che è fare del rock per locali con un gruppo di amici.

P.S. Giusto per non dimenticare, Watchmen merda.

[tags]cinema, recensioni, lufthansa, australia, jackman, kidman, the rocker, rock’n’roll!!!!![/tags]

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giovedì 12 Marzo 2009, 17:39

Tlatelolco

Ci sono tante altre cose che avrei voluto raccontarvi del Messico, e invece non ne ho avuto il tempo. Ma ce n’è una che voglio proprio descrivere, perché è stata davvero emozionante: la visita alla piazza delle Tre Culture, ossia Tlatelolco.

Immaginate di trovarvi nella periferia di una delle nostre grandi città, in un ambiente che potrebbe essere un po’ Mirafiori o un po’ le Vallette: un incrocio tra due grandi stradoni a tre corsie pieni di traffico, uno dei quali si inarca su un ponte e si dirige verso la tangenziale. L’ambiente è urbanizzato ma largo, con palazzi alti, grossi e distanziati. (In realtà siamo a venti minuti a piedi dalla piazza centrale, tanto è vero che io ci sono andato a piedi sfidando gli attraversamenti stradali – ma a Città del Messico le auto si fermano tranquillamente al rosso, non è certo peggio dell’Italia – e qualche isolato di casupole affastellate dove però il maggior pericolo che ho visto è stata una torma di bambinetti in divisa, appena usciti da qualche scuola, che a ogni negozio o bottega guardavano dietro e gridavano in coro “BUENAS TARDES!”.)

Immaginate insomma che negli anni ’50 e ’60 qui abbiano spianato tutto e costruito la città del futuro, nello stile parasocialista che si usava allora: immaginate una grande piazza di cemento, bordeggiata da enormi parallelepipedi di altrettanto cemento, che oggi sono cadenti e squallidissimi, ma che allora erano palazzi modello, dotati di tutte le più moderne comodità, costruiti allo scopo di garantire agli abitanti una vita spesa ad essere una vittima di cattivi imitatori di Le Corbusier.

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La piazza però – la terza cultura – è l’ultima cosa che vedrete; perché per arrivarci, entrando da un cancelletto in una vasta spianata di erba cosparsa di pietre a labirinto, dovrete attraversare ogni angolo delle rovine della spianata sacra di Tlatelolco, la città gemella di Technotitlan, là dove si svolse uno scontro decisivo per la colonizzazione del popolo azteco. Anche qui, come nel Templo Mayor, si trovano i resti dei vari templi aztechi; solo che qui non ci hanno mai costruito sopra (almeno fino a quando, sempre negli anni ’50, il Ministero degli Esteri decise di costruire qui sopra il proprio grattacielo, cancellando per sempre la parte meridionale della piazza).

I resti insomma sono impressionanti, in questo costruire e ampliare – i templi aztechi erano costruiti a strati, ogni vent’anni aggiungevano uno strato di gradinate e pietre sopra quello vecchio, anche perché la città era in mezzo a un lago e i templi continuavano a sprofondare ed abbassarsi – che lascia ora sequenze di gradinate di pietra nera una dietro l’altra, e poi altari, tempietti, basamenti, con poche ma splendide decorazioni.

Ma la cosa più impressionante è quella che sta dietro: quando gli spagnoli giunsero qui, “riconsacrarono” il luogo costruendo una chiesa cattolica con le pietre dei templi. Ciò, in realtà, si ritorse contro di loro, perché basta guardare bene questa chiesa, specie in congiunzione col resto, per accorgersi chiaramente che non è una chiesa cattolica, ma un tempio azteco a forma di chiesa cattolica; e che il dio che celebra non è certamente quello europeo.

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Il luogo è senz’altro drammatico e pieno di energie; non è un caso che in questa piazza di cemento si sia svolto uno dei più famosi episodi della storia messicana. Il 2 ottobre 1968, dopo mesi di lotta studentesca che stavano minacciando persino le Olimpiadi, l’esercito aprì il fuoco contro l’ennesima oceanica manifestazione di protesta, in corso su questo cemento azteco-estberlinese. Gli studenti si difesero dentro l’edificio Chihuahua (quello a destra nella prima foto), ma fu una mattanza. Una giovane Oriana Fallaci, ferita dalle pallottole governative, riportò gli eventi al mondo, anche perché la stampa messicana preferì parlare del tempo. Si calcolano tra i 150 e i 300 morti.

Quando avrete finito il giro, potrete entrare nel centro culturale che sta a lato, dove è ricordata in modo molto coinvolgente la strage. Così facendo, avrete visto un coagulo di storia memorabile, e sarete in grado di apprezzare appieno la scritta che hanno messo su una lapide proprio al centro delle tre culture, tra la piazza la chiesa e il tempio, e che tradotta recita:

Il 13 di agosto del 1521
eroicamente difesa da Cuauhtemoc
cadde Tlatelolco in potere di Hernan Cortes

Non fu un trionfo né una disfatta
fu la dolorosa nascita del popolo meticcio
che è il Messico di oggi

[tags]viaggi, messico, città del messico, tlatelolco, plaza de las tres culturas, aztechi, chiesa, protesta studentesca, polizia, strage[/tags]

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domenica 8 Marzo 2009, 23:29

A Firenze (2)

Il primo importante riscontro di questo week-end a Firenze è che la Trattoria Palle d’Oro di via Sant’Antonino si è conquistata un posto stabile tra le mie preferenze gastronomiche: era la seconda prova in quattro mesi ed è stata ancora ampiamente positiva, visto che per 26 euro a testa abbiamo preso primo, secondo e dolce ed era tutto ottimo. Positiva anche la new entry dell’Hotel Villa Betania, un tre stelle nuovo e pulito in una splendida villa sulla collina di fronte alla città: certo ci vuole mezz’ora a piedi per arrivare in zona centrale, ma il posto è davvero bello e il costo (55 euro la doppia) più che abbordabile, e in più (cosa rara per la città) sia il wi-fi che il parcheggio sono gratuiti. Bisogna dire che con le raccomandazioni di TripAdvisor raramente si sbaglia!

Per il resto, vi rimando con calma a domani…

[tags]viaggi, firenze, trattorie, osterie, alberghi[/tags]

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venerdì 6 Marzo 2009, 19:15

Sfiga di suora

Ho già detto che, da adulto laico ma di mente aperta, ho sviluppato un rapporto dialettico e non privo di stima con la Chiesa Cattolica, pur rimanendo spesso sconcertato dai suoi aspetti più moralistici o più affaristici (tra questi, in questo viaggio si è aggiunto il santuario della Beata Vergine di Guadalupe, dove per massimizzare il flusso di pellegrini che riescono ad ammirare la reliquia dell’apparizione è stato installato tra l’altare e la teca un sistema di tapis roulant modello aeroporto, i quali, muovendosi costantemente a una certa velocità, impediscono ai fedeli di sostare per troppo tempo davanti alla reliquia e con ciò diminuire il throughput del santuario).

Comunque, ogni tanto si risveglia anche l’anima da quindicenne, risalente a quando, durante una vacanza estiva o forse una gita, mi fu insegnato il gioco della sfiga di suora; gioco tanto semplice quanto irrazionale, perché consisteva nel contare il numero di suore che si incontravano sul cammino, e applicare le opportune formule per scaricarne la supposta potenza iettatrice su qualcun altro.

Bene, capirete quindi che quando ieri sera – in attesa di decollare da Città del Messico, seduto sull’aereo nel posto finestrino di un blocco di tre – l’occupante del posto accanto a me si è rivelata essere una suora con tanto d’abito d’ordinanza, mi son chiesto: che sfiga, cosa ci potrebbe essere di peggio?

La risposta è arrivata subito: peggio di una suora seduta accanto a te, c’è che la suora seduta accanto a te chieda al passeggero sistemato dall’altro lato se può cambiare posto, in modo da far accomodare nel tuo blocco di tre una seconda suora.

E non finisce qui: quando le suore hanno attaccato a parlare in italiano, ho subito capito che la cosa era lì per durare; infatti, dove mai in Italia possono essere destinate due suore missionarie che tornano dal Messico, se non a Torino? E infatti, puntualissime, le due suore si sono palesate anche a Francoforte, all’imbarco del volo per Torino.

Qui, il mio inconscio si è ribellato e ha deciso di fare un esperimento in due parti; e parlo di inconscio perché sono due cose di cui mi sono accorto solo atterrato a Torino, e che non mi era mai capitato di fare, nessuna delle due, in decine e decine di voli in giro per il mondo. In pratica, quando a metà volo mi sono alzato un attimo e mi sono riseduto, mi sono dimenticato di allacciare le cinture, e ho fatto tutto l’atterraggio slegato; inoltre, quando alla partenza ho messo la giacca nella cappelliera, mi sono completamente dimenticato di spegnere il cellulare che stava in tasca, e che è rimasto acceso e attivo per tutto il volo.

L’esperimento prova dunque che non solo le suore non portano sfortuna, ma anzi fanno girare tutto per il verso giusto: i voli erano in perfetto orario, la valigia è arrivata senza problemi, e nonostante i ripetuti rischi non è successo nulla di negativo. In più, anche se non abbiamo avuto modo di chiacchierare più di tanto visto il volo notturno (e sinceramente mi dispiace), la suora alla mia destra mi ha anche offerto il suo pasto, che però ho cortesemente rifiutato per esaurimento di stomaco. Insomma, l’esperienza è stata positiva: spero di incontrarne ancora.

[tags]chiesa, suore, sfortuna, viaggi, incontri, aerei, sicurezza, beata vergine proteggici dai cellulari[/tags]

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martedì 3 Marzo 2009, 23:29

Ripido

La giornata di ieri ha ridefinito il mio concetto di ripido; ma ne è valsa la pena.

Infatti, a differenza di oggi – in cui sono stato preso tutto il giorno in riunioni, e quel paio d’ore libere che ho avuto è stato speso facendo altre cose per l’Italia e crollando a dormire con la faccia sul letto – ieri mi sono preso la giornata libera e sono andato con un giro organizzato a vedere le piramidi di Teotihuacan.

Ed è stata una visita davvero impressionante: una città-tempio di duemila anni fa in cui anche solo il poco che è stato ricostruito è di un’imponenza impressionante; una cosa la cui grandiosità, tra ciò che ho visto, è comparabile forse solo con le rovine di Efeso, ma che ad esse unisce il fascino alieno di una civiltà lontana dalla nostra, un po’ come su per la montagna di Hattusha.

Ma quando si arriva in cima alla Piramide del Sole, o alla piattaforma di metà di quella della Luna (più su non si può andare), la sensazione è eccezionale. La prima è più alta, ma la seconda per me è stata più impressionante, perché è posta al fondo di una grande piazza perfettamente quadrata a cui si giunge da un enorme viale lungo un paio di chilometri, e da lì sopra tutto questo è inchinato ai tuoi piedi.

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C’è solo un piccolo particolare: o questi aztechi discendevano dagli stambecchi, o avevano le gambe di due metri, perché tutti questi edifici sono accessibili soltanto mediante scalinate ripidissime. E quando intendo ripide dico sul serio: questo ad esempio è il punto più ripido dell’ascesa alla Piramide del Sole.

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Oltre a questo, si è a circa duemila metri di altitudine; e la temperatura gradevole (circa venticinque gradi) non toglie il fatto che si è dritti sotto il sole e non c’è una nuvola in cielo da nessuna parte. Io mi sono limitato ad arrossarmi un po’, ma i miei compagni di viaggio finlandesi hanno rischiato grosso. Sulla salita, però, abbiamo rischiato tutti l’infarto, o in alternativa di perdere l’equilibrio per sfinimento e rotolare giù sulle pietre per qualche decina di metri.

E poi, la cosa è stata resa più difficile da un altro piccolo particolare: come in tutti i tour organizzati, la prima sosta obbligata è stata presso il classico “negozietto tipico di artigianato” dove ti dimostrano le abilità locali e poi cercano di farti comprare qualcosa. Solo che in questo, oltre alle statuine di ossidiana e ai tessuti di fibra di agave, ci hanno rifilato (alle dieci del mattino) una dimostrazione di liquori del posto: e prova il pulque, e prova la tequila, e prova il liquore alle mandorle, e quello rosso e quello verde… come tattica di vendita è interessante, e comunque, quando siamo usciti di lì e siamo arrivati alle piramidi, il clima era piuttosto allegro.

Però valeva la pena di andarci, e di riuscire a salire fin lassù: se non altro per essere riuscito a farlo senza ammazzarmi.

[tags]viaggi, messico, teotihuacan, piramidi, aztechi, tequila[/tags]

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lunedì 2 Marzo 2009, 04:19

Un grande Paese

Probabilmente, voi del Messico avete in testa l’immagine vista nei film: deserto e calore, sombreri pigri a fare la siesta, oppure città degradate, traffico e inquinamento, violenza di ogni genere, destini in fuga dall’ordine americano verso l’anarchia misteriosa del mondo latino. Bene, il Messico è esattamente così: ma è anche completamente l’opposto.

Oggi, per esempio, sono uscito da una riunione verso le undici, e la giornata era meravigliosa: c’erano una ventina di gradi, un sole che spaccava le pietre e un vento intenso e rinfrescante. Sembrava di essere al mare a giugno, e invece siamo in inverno e a quasi duemila metri di altitudine. Quando siamo arrivati, l’organizzazione americana ci ha dato un vademecum terrificante: non uscite mai da soli dall’albergo, non prendete la metro perché vi scippano, non prendete un taxi per strada perché vi rapiscono, non portate mai dietro soldi o documenti, e quando (quando, non se) vi rapineranno consegnate subito tutto quello che avete.

E invece, io sono uscito da solo e ho trovato questo: un grande viale alberato, circondato da grattacieli ed edifici nuovissimi di vetro e cemento. Il viale, come tutte le strade principali, era stato pedonalizzato per l’intera domenica – lo fanno ogni domenica – ed era invaso da centinaia e centinaia di persone in bici, a piedi, sui monopattini, di corsa. Ogni qualche centinaio di metri c’era un punto dove il comune offre gratuitamente acqua e assistenza alle biciclette; in alcuni punti ti davano anche gratis la bici in prestito.

A metà del vialone c’era un concerto: dal palco un gruppo locale suonava rock, hip hop e crossover di stile americano, altro che mariachi, davanti a centinaia di persone. Al centro della piazza c’era un bel monumento, mentre più in là c’erano aiuole e fontane. Su un angolo, c’era una campagna per la riforestazione degli spazi attorno alla città, che spiegava come l’intero evento fosse a emissioni zero.

Ho camminato per un’ora e per un’ora ho trovato solo grattacieli, negozi moderni e alberghi in stile internazionale, tutto piuttosto nuovo; e migliaia di persone sulla strada pedonalizzata. Alla fine, ho trovato il parco: un grande parco urbano pieno di persone in gita, di bancarelle che vendono di tutto (sono stato tentato dalle maschere di lucha libre), di spazi attrezzati per il barbecue o per mangiare da uno dei vari chioschi che vendono tacos e carne alla griglia. Poi c’era un lago, dove una lunga e ordinata fila di persone aspettava di poter noleggiare una barchetta per fare un giro.

Oltre il lago e oltre il viale c’era il Museo Nazionale di Antropologia, un edificio enorme e meraviglioso, pieno di reperti dalle svariate culture che popolavano il Messico prima della Conquista; molti erano davvero belli, con le imponenti ricostruzioni di interi templi, e alcuni erano veramente eccezionali, come il gigantesco disco solare (o calendario azteco) o la statua olmeca di un giaguaro. E’ la prima volta, a parte l’Estremo Oriente, che mi trovo davanti ai resti di una cultura non europea ma pure chiaramente sviluppata almeno altrettanto della nostra: si può davvero toccare con mano che per complessità, per risultati artistici, per scienza i popoli e gli stati dell’era pre-colombiana non avevano nulla da invidiare ai nostri, a parte, purtroppo per loro, la polvere da sparo. Insomma, il Messico non ha nulla a che vedere con il Brasile, con l’Africa, con gli stessi Stati Uniti, con altre parti del mondo non europeo dove prima della colonizzazione lo sviluppo dell’umanità locale era ancora molto arretrato; dopo aver visto il museo, mi viene da accomunarlo soltanto all’India e alla Cina.

E’ una sensazione straniante: anche perché alle cineserie siamo abituati, ma quasi nessun magnate o ricercatore nostrano si è mai preoccupato di promuovere in Europa queste culture. Ci si trova insomma davanti a un’estetica raffinata ma radicalmente diversa: una forma di cultura aliena e a noi ignota, che esiste soltanto qui.

E’ evidente quindi come la cultura sia in qualche modo rimasta; il museo era pieno di ragazzi che ricopiavano le didascalie per portarsi a casa qualcosa della propria storia… e l’altro giorno in centro ho visto lunghe code non all’ingresso di un negozio di scarpe, ma davanti a una fiera del libro.

Dopo tre ore al museo sono tornato indietro, e per spregio agli americani che avevano compilato le istruzioni ho preso la metro: efficiente, ampia, discretamente pulita e facile da usare, anche perché è stata pensata per gli analfabeti, così ogni linea ha un proprio colore e ogni fermata ha un proprio logo; e allo sportello dei biglietti – umano, ma basta avvicinarsi e dire “uno”, il prezzo è di circa 10 centesimi di euro a corsa – c’è la tabella che dice quanto costa un numero di biglietti qualsiasi da 1 a 50. Costano sempre due pesos l’uno, per cui la tabella è “1 = 2$, 2 = 4$, 3 = 6$… 49 = 98$, 50 = 100$”: insomma si può viaggiare in gruppo anche senza sapere fare le moltiplicazioni.

In tutto questo giro, mai una volta mi sono sentito in pericolo; attorno a me c’era gente, tanta gente, molti con macchine fotografiche e Ipod, tutti tranquilli ed allegri a godersi la domenica di sole senza traffico. Tutto ben diverso da come ce l’avevano dipinto.

Insomma, a prima vista è un paese strano, pieno di tinte forti e di contraddizioni, sospeso a metà tra Simon Bolivar e Jennifer Lopez. Ma è senza dubbio un grande paese.

[tags]viaggi, messico, città del messico[/tags]

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sabato 28 Febbraio 2009, 21:31

Messico a cinque stelle

Ci avevano avvisato che le manifestazioni di protesta, a Città del Messico, sono frequentissime: e chiaramente sconsigliato di avvicinarsi se ne avessimo visto una. Ovviamente io mi ci sono infilato e l’ho seguita fino alla piazza centrale, dove ho filmato la fase finale (avendo esaurito lo spazio-dossier presso la Digos italiana, non volevo farmi mancare l’apertura del faldone presso quella messicana). E così ho colto – nonostante i due che ci si sono subito messi davanti – il messaggio fondamentale, affidato allo striscione al centro del corteo:

“Questo evento è trasmesso in diretta via Internet”.

[tags]messico, protesta, corteo, internet, diretta, politica digitale[/tags]

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venerdì 27 Febbraio 2009, 05:07

Arrivo in Messico

La prima cosa che ho scoperto del Messico è che lontanissimo. Lo so che non ci crederete ma, causa curvatura terrestre, è stato il volo più lungo che abbia fatto (dodici ore pulite da decollo ad atterraggio) ad esclusione del viaggio in Nuova Zelanda: persino la California, persino il Giappone, persino il Sudafrica sono più vicini… o almeno mi sono sembrati tali.

Il volo è stato un po’ così: non fanno più i film di una volta, e mi sono toccati una inesistente commedia al femminile con Meg Ryan (sì, è ancora viva) e un improbabile film di spionaggio con Rosario Dawson e Billy Bob Thornton (il protagonista era tal… aspe’ che me lo sono scritto… Shia LaBoeuf: vabbe’ che negli Stati Uniti qualsiasi stringa di caratteri è legale come nome o come cognome, ma questo si posiziona ben in alto nelle classifiche dei nomi assurdi).

Però il viaggio mi si è riscattato quando, nei venti minuti di coda all’immigrazione messicana, mi sono trovato dietro a due coppie di una certa età che, dall’accento, venivano da qualche parte tra Brescia e Verona. Quando il poliziotto messicano ha fatto tagliare la coda a una mamma con un bambino di sei mesi (persino in Messico ci arrivano…), loro hanno esordito commentando con garbo “uè, i soliti culattoni”; poi i due signori hanno cominciato a far casino perché secondo loro quelli in cima alla fila non erano abbastanza veloci nell’avvicinarsi agli sportelli man mano che si liberavano: e giù di “impedito!”, “deficiente!”, “baluba!” a voce altissima verso gente di tutte le nazionalità. Quindi se la sono presa con due ragazzi tedeschi che non avevano compilato i moduli sul volo, e appena possibile li hanno superati nella fila approfittando del loro rallentamento. Naturalmente, arrivati praticamente alla fine, al pre-controllo dei moduli gli hanno fatto notare che (nonostante fosse scritto e spiegato chiaramente sia in spagnolo che in inglese) non avevano compilato tutta la parte bassa dei moduli, e loro che fanno? Si fermano a compilare, ma nel contempo si allargano strategicamente a ventaglio in modo che nessuno possa superarli. Ah, la furbizia lombardo-veneta!

Comunque, ho scoperto ancora una volta che prepararsi vale: la prima regola per non farsi fregare da turista sperduto all’estero è scoprire in anticipo quanto devono costare le cose. Così sono arrivato allo sportello dei taxi prepagati (come si usa in tutto il Sudamerica, per evitare che il tassista possa ricattarti sul prezzo a corsa finita) e ho chiesto il taxi per il centro; e mi hanno chiesto 250 pesos (20 pesos = 1 euro). Io ho fatto tanto d’occhi e ho detto: scusate, mi hanno detto che ne costa 130! La risposta è stata: “Ah, ma lei signore vuole il biglietto singolo perché è da solo, poteva dirlo subito! Allora fanno 152 pesos.” Deciso che la contrattazione era soddisfacente, ho accettato e anzi ho dato pure altri 20 pesos di mancia al povero autista, che era gentile e d’aspetto simpatico.

Certo, ho capito molte cose già solo nel viaggio dall’aeroporto a qui: non solo che il posto forse non è poi così insicuro, visto che – a differenza del Brasile – i vetri del taxi non erano oscurati, l’autista non si è chiuso dentro con la sicura e la strada dall’aeroporto era a livello terra e non sopraelevata per evitare che dalla favela sottostante assaltino le auto dei turisti.

Per esempio, ho intuito che qui il tempo è irrilevante, tanto è vero che io ho lasciato l’aeroporto alle 19:30 ora locale sotto un tabellone luminoso che segnava le 21:13, e poco dopo in strada ne ho incrociato un altro che diceva “6:27”. Insomma, tutto è relativo, e si fa come si può: quando il tassista è arrivato e ha scoperto che per arrivare davanti alla porta dell’albergo doveva fare il giro dell’isolato, non ha avuto voglia: è andato avanti, poi ha messo la retro e ha percorso un centinaio di metri all’indietro a velocità folle perché così faceva prima.

Del resto, è la prima volta che arrivo in un business hotel e non solo non vengo inseguito dai fattorini che vogliono assolutamente portarmi la valigia, ma non trovo nemmeno nessuno alla reception; devi suonare un po’ di volte e poi compare qualcuno. Il collegamento inalambrico funziona, ma ti devono avvertire che nel modulo di login devi scrivere il cognome tutto maiuscolo e il numero di stanza con uno zero davanti, perché aggiungere una riga di codice al programma che lo faccia era faticoso. E poi vai a cena nel centro commerciale sottostante e in un invitante griglieria ci sono tre inservienti lì, ma chiedi se ti possono servire e ti rispondono di no, che in quel momento non hanno voglia di cucinare.

Però al gabbiotto di fianco mi hanno dato tacos del pastor e un misto di carne grigliata e jalapeños tritati con tortillas che era davvero buonissimo, il tutto per tre euro compresa la bibita. La parte culinaria promette bene; e adesso che qui sono le dieci, posso andare finalmente a dormire.

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