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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


martedì 2 Settembre 2008, 11:17

L’ascensore

Siamo ospitati in un appartamento di italiani, al quattordicesimo piano del palazzo dei trentatre piani, il simbolo della città: un cubo di cemento in ottimo stato – che, per qui, vuol dire che è cadente ma non pericolante – su cui troneggia trionfante una grande pubblicità luminosa di Mcel.

Il palazzo è tra i migliori della città: è in pieno centro, vicino ai ristoranti e al supermercato, ed è decisamente signorile, come si capisce dalle tre o quattro guardie armate che stazionano in permanenza nell’atrio di ciascuna delle tre scale del palazzo, ma anche dalle persone che incontri all’interno: tutte nere, ricche e ben vestite, i giovani in tiro o abbigliati da sport, i bambini con la divisa scolastica e le cartelle coi personaggi dei cartoni animati.

Nella nostra scala, quella centrale, ci sono due appartamenti per piano, ognuno a sua volta dotato di un mini-appartamento per la serva, con cameretta, bagno e ingresso separato. L’appartamento principale ha una cucina, un salone, tre camere e tre bagni: direi sui 150 metri quadri. I bagni sono scrostati, ma c’è l’acqua calda, anche se alle volte ne viene soltanto un filo. Il maggior inconveniente è che, essendo vicini al mare, a questa altezza c’è sempre forte vento: e siccome i serramenti sono tutt’altro che efficienti, c’è costantemente un mezzo tornado che scorre per la casa.

Ovviamente, al quattordicesimo piano (ma anche al trentatreesimo) non si può certo arrivare a piedi: quindi in ogni scala c’è l’ascensore. Anzi, ce ne sarebbero due, ma nella nostra il secondo è fuori uso da secoli ed è sbarrato alla bell’e meglio, con le porte arrugginite; ne rimane uno solo, un bell’ascensore Otis con le pareti di metallo e lo specchio, molto simile a quello della mia precedente casa di Torino (a parte la sporcizia).

Il problema è che la similitudine si spinge un po’ troppo avanti: infatti, il funzionamento di questo ascensore è spesso interrotto. Almeno metà delle volte in cui arrivi a casa c’è nell’atrio un bel cartello che comunica che l’ascensore non funziona. In pratica, si rompe a sprazzi: mezz’ora è rotto, poi funziona per un paio d’ore, poi per un po’ è ancora rotto, poi riparte e così via.

Nessuno degli italiani che abitano qui da molti mesi è ancora riuscito esattamente a capire come faccia un ascensore a rompersi e venire riparato tutti i giorni diverse volte al giorno: voglio dire, se si rompe un pezzo lo si cambia o lo si aggiusta, e poi non si rompe più; non può mica rompersi un pezzo diverso ogni due ore. Oltretutto gli ascensori delle altre scale funzionano perfettamente; e anche il nostro, quando funziona, non dà problemi nè particolari segni di squilibrio, se si esclude un vago ondeggiamento e una grossa bolla di presumibile ruggine nel pavimento metallico, sotto il tappeto di plastica, che si piega ogni volta che la calpesti.

Le nostre certezze tecnico-organizzative occidentali sono andate però un po’ in crisi quando uno di noi ha incontrato i tecnici, che ormai stazionano in permanenza nel palazzo, e ha chiesto spiegazioni sull’incapacità di risolvere i guasti: uno di loro ha risposto mettendosi a piangere. Nulla di strano, perché pare che qui mettersi a piangere sia la risposta a qualsiasi situazione in cui si è commesso un errore. Qui però c’è qualcosa di più serio.

Nella casa, infatti, si sa perfettamente la causa del problema, e – a mezza bocca – alla fine la spiegazione arriva anche agli inquilini bianchi: l’ascensore della scala di mezzo si rompe continuamente perché all’ottavo piano ci sono i fantasmi, tra cui quello di un guardiano che un giorno, in un passato imprecisato, aprì le porte ad un piano pensando di liberare delle persone chiuse dentro, e invece non trovò la cabina e cadde nella tromba dell’ascensore, morendo. Per poter usare l’ascensore, quindi, pare necessario attendere il momento in cui i fantasmi sono tranquilli e danno il loro beneplacito.

Ma non temete: una delle grandi leggi dell’Africa è che a tutto si trova sempre una soluzione. In questo caso, si può entrare nella scala di fianco, prendere l’ascensore fino al nono piano – i piani dal primo all’ottavo non sono raggiungibili, si parte dal nono in poi; penso che per i piani bassi si entri da un’altra parte e siano dedicati a uffici o appartamenti più popolari – poi uscire sulle scale, scendere di un piano, e attraversare il lungo corridoio che all’ottavo piano mette in comunicazione tra loro le tre scale, e ospita gli uffici dell’amministrazione. A quel punto si può uscire sulla scala centrale, un antro buio e sporco, salire a piedi di sei piani, poi aprire con la chiave il cancello di ferro antifurto che separa le scale dal pianerottolo e dall’ascensore, e di lì entrare in casa. E’ anche più bello, perché lungo il percorso si fa amicizia, ci si aiuta a portare le borse, si sorride alle bambinette che trascinano su la cartella tornando da scuola, e così via.

Ah, siccome tempo fa nell’ascensore dell’altra scala si ruppe la lampadina del pulsante del nono piano e nessuno ha voglia di trovarne una per cambiarla, hanno spostato i fili e quando premete il nove lampeggia un attimo la luce del sedicesimo piano; non disperate, poi si ferma correttamente al nono.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, ascensore, otis, fantasmi[/tags]

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lunedì 1 Settembre 2008, 12:05

Economia africana

La principale attività del Mozambico è il non far niente. A tutti gli occidentali che si stupiscono di ciò viene raccontata la storiella ormai famosa in tutta l’Africa e anche nei Caraibi: quella dell’uomo bianco che vede un pescatore nero sulla spiaggia, seduto a guardare il mare senza fare niente. Allora il bianco gli chiede: perché non stai lavorando? E il pescatore risponde: perché dovrei lavorare? Potresti comprarti una nuova rete, risponde il bianco. E il pescatore: e perché? Il bianco gli spiega che con una nuova rete prenderebbe più pesce. E il pescatore: e a cosa mi serve? Beh, dice il bianco, a forza di prendere più pesce e venderlo al mercato, a un certo punto diventeresti abbastanza ricco da poter smettere di lavorare. E il pescatore risponde trionfante che lui ha già smesso di lavorare senza bisogno di tutta questa fatica!

Non fraintendetemi: Maputo è una città e, come tutte le città, ha uffici, negozi, locali, attività pubbliche e private che funzionano ogni giorno grazie alle persone del posto che ci lavorano. E’ solo diverso il concetto di lavoro e, soprattutto, il suo valore percepito, in termini morali prima ancora che economici. L’autista dell’ufficio – che guadagna cento euro al mese, che comunque qui sono abbastanza per mantenere le sue due compagne e i suoi cinque figli – ci ha detto che è contento delle cose che ha realizzato – i figli, la casa, il televisore – ma che la sua vita è durissima perché quasi tutti i giorni deve andare a lavorare. Un altro ragazzo incontrato il giorno prima – neolaureato, ben vestito, ora impiegato di uno dei vari progetti di cooperazione – ci ha detto tranquillamente che ora era contento di lavorare, ma che non aveva voglia di fare 40 minuti di autobus al mattino e altrettanti la sera, per cui andava a lavorare solo quando l’autista del suo progetto (tutti i progetti hanno macchine con autista sempre a disposizione) poteva passarlo a prendere, se no semplicemente non si presentava in ufficio.

Anche l’approccio al lavoro è molto rilassato: si arriva, si chiacchiera un po’, si fa riunione, si mangia… sembra quasi un ministero italiano. Quasi nessuno dei locali è veramente capace – in metriche occidentali – a fare il lavoro che fa. Per esempio, l’altra sera siamo andati a un ristorante e ci siamo seduti; per prima cosa ci hanno detto (in modo molto rilassato, e senza la scortesia tipica di un esercente italiano) che dovevamo fare in fretta perché erano lì lì per chiudere (mancavano tre quarti d’ora). Poi è arrivata la cameriera a prendere le ordinazioni; qualsiasi cosa scegliessimo dal menu non c’era, però ce n’erano delle altre che sul menu non erano scritte. Alla fine la cameriera non era sicura, così è andata a chiedere in cucina se la cosa che volevamo (più o meno l’unica disponibile) c’era davvero. Poi l’abbiamo vista litigare col padrone, poi è sparita e non è più tornata, così dopo un quarto d’ora uno di noi è andato a chiedere. E’ venuto il padrone a dirci che in realtà la disponibilità delle cose era ancora diversa, e ha suggerito che se volevamo “faceva lui”. Abbiamo accettato, e allora dopo una decina di minuti sono arrivate le zuppe, ma ne mancava una, e mancavano anche due cucchiai. Le bibite sono arrivate dopo altri cinque minuti e un paio di altri solleciti; poi ha cominciato ad arrivare il cibo, anche se nessuno, padrone compreso, era completamente sicuro di cosa sarebbe arrivato e in quali quantità. Alla fine era tutto assolutamente ottimo; abbiamo mangiato in abbondanza e ne abbiamo ancora lasciato lì; abbiamo speso circa dieci euro a testa, una cifra normale per qui, ma poco per i nostri standard. Ovviamente, quando abbiamo dato i soldi per pagare il conto, abbiamo dovuto sollecitare due volte per avere il resto; ma non perché volessero tenerselo, semplicemente perché l’incombenza gli passava di mente nel tragitto tra il tavolo e il bancone.

In effetti, il bianco è molto apprezzato perché arriva qui con competenze che per il posto sono stratosferiche, e per mille o millecinquecento euro al mese è disposto a fare moltissimo lavoro. Ci hanno detto che i locali con competenze comparabili non si sognano nemmeno di farlo: per fare lo stesso lavoro vogliono decisamente di più, altrimenti “non ne vale la pena”.

Ora, questo sarebbe comprensibile se ci fosse un mercato che in qualche modo giustifica questi stipendi; ma non è così. Circa il 60% del PIL del Mozambico è costituito da aiuti umanitari; una quota ulteriore sono rimesse dagli emigrati. L’economia privata è inesistente; siamo a livelli persino peggiori della Calabria (di cui un’amica del posto mi spiegò che il 77% dell’economia è pubblico e parapubblico, e solo il 23% è privato). A parte le piccole attività, esiste qualche fabbrica sudafricana o comunque straniera; il resto è sovvenzione e parastato.

Ci hanno detto che a Maputo c’è il boom economico, e lo vediamo: per le strade circolano moltissime macchine tra cui parecchie nuove (quasi tutti fuoristrada Toyota, Hyundai o comunque giapponesi e coreani) e sono appena stati costruiti due complessi nuovi e scintillanti che sembrano un angolino di Los Angeles trapiantato in Africa: il primo è il Maputo Shopping Center e il secondo è la nuova sede del Ministero della Cooperazione (mentre gli altri ministeri sono ruderi o quasi). Io ingenuamente pensavo che fosse per via della globalizzazione: sta a vedere che qualche briciola della grande delocalizzazione occidentale è finita anche qui. Invece no: c’è il boom semplicemente perché alcuni dei paesi donatori hanno sensibilmente incrementato gli aiuti a fondo perduto.

Il flusso del denaro, qui, è così: dai governi occidentali al governo locale, che ne trattiene l’80-90 per cento in corruzione, oppure a dipendenti locali di istituti e NGO occidentali, sotto forma di lavori artificialmente ben pagati. Dai mozambicani, i soldi finiscono per la maggior parte a una delle due compagnie di cellulari: la Mcel e la Vodacom, che tappezzano di pubblicità il paese, ovunque, in qualunque angolo, dipingendo dei loro colori le case e i negozi. Oppure, in una delle due banche che in centro hanno uno sportello ogni due isolati: la Millennium (portoghese) e la Barclay’s (inglese). Di lì, tornano in buona misura in Occidente, visto che quasi tutto deve essere importato, dai lavandini ai biscotti: di prodotto nazionale, a parte ottima verdura, carne e pesce, e forse i mattoni e il cemento, non c’è niente di niente. Questo spiega come mai il prezzo di tutto sia quasi uguale a quello europeo, anche se i locali non potranno mai permettersi nulla di tutto ciò.

All’Hipermaputo, il maggior supermercato della città, che non ha nulla da invidiare al Carrefour – prezzi compresi – tranne la birra perché è posseduto da arabi e quindi non si vendono alcoolici, il cibo è di provenienza insospettabile: buona parte dei prodotti hanno le etichette innanzi tutto in thailandese. Sono i misteriosi ricircoli del commercio globale, persino qui. L’Italia nemmeno qui è veramente competitiva, ma almeno un po’ si difende: c’è pasta Divella e Spigadoro – in mezzo a un mucchio di imitazioni con improbabili nomi paraitalici – e soprattutto c’è lui, l’oggetto che più di ogni altro pianta la bandiera italiana in ogni angolo del pianeta: l’espositore Ferrero con i Kinder Bueno. Li ho comprati subito: gioverà alla nostra economia.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, africa, economia[/tags]

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domenica 31 Agosto 2008, 09:17

Tomtom all’africana

Siete all’aeroporto di Maputo.

Imboccate corso Accordi di Lusaka. Proseguite diritto per quattro chilometri, attraversando piazza degli Eroi Mozambicani.

Alla rotonda che incrocia con corso Mao Tse Tung, girate alla seconda uscita in corso della Guerra Popolare.

Al quinto incrocio, girate a sinistra in corso Eduardo Mondlane.

Proseguite diritto senza girare, attraversando nell’ordine: corso Karl Marx, corso Olof Palme, corso Vladimir Lenin, corso Amilcare Cabral. Svoltate a sinistra in corso Salvador Allende.

Alla prima a destra, svoltate e poi imboccate la terza a sinistra. Siete ora in corso Kim Il Sung. Proseguite diritto fino all’incrocio con il secondo grande corso: ecco, lì a sinistra c’è l’ambasciata italiana.

Ora, invece, svoltate a destra e scendete sul mare dal lato destro. Proseguite sul corso Marginale, il lungomare: questo vi permetterà di arrivare fino al centro città.

Passate sotto lo svincolo di corso Friedrich Engels: siete ora in piazza Robert Mugabe. Benvenuti nel centro di Maputo!

[tags]viaggi, mozambico, maputo, comunismo, africa[/tags]

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sabato 30 Agosto 2008, 13:30

Tudo bem

Mi perdonerete se in questi giorni non scrivo molto: in realtà ci sarebbero parecchie cose da raccontare, ma il tempo è speso nelle frenetiche attività di questo luogo. Tutto qui richiede tre o quattro volte il tempo che prenderebbe a casa, per tanti motivi di cui il principale è proprio la dilatazione del tempo stesso: le cose scorrono lentamente e anche gli occidentali, una volta giunti qui, si adeguano naturalmente senza il minimo sforzo. Per questo motivo, non so esattamente in che cosa sia volato via il tempo da giovedì mattina quando siamo arrivati, ma è volato senza grande fatica.

Maputo non è molto diversa da una qualsiasi città del Sudamerica o del Nordafrica; non sembra nè degradata nè pericolosa, naturalmente riferendosi agli standard del mondo non sviluppato; comunque siamo quasi sempre accompagnati, anche se il portoghese è comprensibile. Di zanzare ne avrò viste tre o quattro in tre giorni, soltanto di sera e nei ristoranti, e apparentemente senza la minima intenzione di pungere qualcuno; del resto la reazione della comunità ospite – locali e bianchi insieme – alla vista delle nostre pastiglie di Malarone è stata unanimemente “ah ah che polli, anche voi come dei gonzi vi siete fatti gabbare dalle multinazionali farmaceutiche e gli avete regalato centodieci euro”.

In teoria dovevamo avere la connettività wi-fi in casa, ottenibile andando sul balcone del quattordicesimo piano e orientando il computer verso l’ufficio di un progetto di cooperazione di un amico – situato al sesto piano di un palazzo a un duecento-trecento metri di distanza in linea d’aria – che ha messo il router wifi accanto alla finestra. Purtroppo l’hardware Apple in questo fallisce miseramente, e l’unico portatile che riesce a prendere il segnale è un bisonte Windows-dotato; visto che non ho nemmeno un pacchetto di Pringles per costruire una cantenna, facciamo prima ad andare all’Internet cafè del centro commerciale costruito dagli arabi per i ricchi del posto e prendere un PC per mezz’ora con 25 metticaso, circa 70 centesimi di euro. (I metticaso sono la moneta locale; qui almeno non hanno scelto una moneta a caso, come hanno fatto i sudafricani, ma le hanno dato un nome preciso.)

Comunque, io scrivo e salvo sulla chiavetta (se mi ricordo) per cui cercherò di mandare tempestivamente qualche racconto nei prossimi giorni. Nel frattempo, vi saluto con la vista del centro cittadino dal balcone di casa.

DSC05370s.JPG

[tags]viaggi, mozambico, maputo[/tags]

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venerdì 29 Agosto 2008, 11:20

Integrazione (2)

(segue da qui)

Capisci che hai delle ottime speranze di integrarti passabilmente nella cultura locale – almeno da visitatore – quando, essendo entrato in Mozambico da tre ore e mezza – il minimo tempo che ci vuole per uscire dall’aeroporto, trovare le persone che sono venute a prenderti e percorrere in auto i cinque chilometri che separano l’aeroporto dal centro di Maputo, se si seguono gli usi e costumi del posto – arrivi nel condominio di trentatre piani dove risiede la tua ospite, il più elegante e famoso di tutta la città, entri nell’atrio con le valigie, e per accedere al lussuoso ascensore Otis devi aggirare la carcassa di una mucca, distesa lì sul pavimento, sanguinante e squartata, su un telo da campeggio davanti al banco del portiere; e il tuo commento è: “Si vede che è una casa elegante: se fosse stata una casa meno bella, sul telo ci sarebbe stato solo un quarto della mucca!”

[tags]africa, mozambico, viaggi[/tags]

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lunedì 25 Agosto 2008, 14:13

Assicurazioni di viaggio

Dopo due mesi di preparazioni vaccinatorie, dopodomani parto per il Mozambico (l’avevo scritto, vero?) e tra le ultime cose da fare c’è il procurarsi una assicurazione di viaggio. Io ho girato mezzo mondo senza mai farne una, però l’Africa è l’Africa, i pericoli sanitari sono più della media e in fondo si vive più tranquilli essendo assicurati e avendo coperto l’eventuale trattamento più rimpatrio.

Naturalmente, nonostante gli ottimi rapporti con il mio assicuratore, non mi è nemmeno passato per il cervello di chiedere ad una assicurazione italiana: comunque, chi invece l’ha fatto – perché siamo piemontesi e vorrai mica non assicurarti con l’assicurazione di famiglia – ha avuto un prezzo di circa 230 euro, per 16 giorni di viaggio, con 30.000 euro di massimale sul rimpatrio. Io ho provato online con Europ Assistance e il preventivo è risultato di circa 100 euro, cioè meno della metà.

La accendiamo? No, perché grazie a un mio collega spesso discretamente sfigato – quello di questo episodio, a cui quest’estate la macchina è stata semidistrutta mentre era parcheggiata sotto casa perché ci è crollato sopra il camino del palazzo – ho scoperto World Nomads, un sito australiano che vende assicurazioni di viaggio online in tre click. Coprono anche gli sport estremi, hanno un massimale di 250.000 euro, includono cure, rimpatrio per ragioni mediche con doppio viaggio di accompagnatori, rimpatrio per incidente a un congiunto, cure dentistiche d’emergenza, persino il furto o perdita del bagaglio e degli oggetti elettronici anche se con massimali ridotti (800 euro, 400 per oggetto, a prezzo svalutato in base all’uso); il tutto dovunque tu sia fuori dall’Italia, dal momento in cui varchi il confine al momento in cui lo riattraversi al ritorno. Anche se il sito è australiano, la garanzia è offerta da una assicurazione danese e quindi ci sono tutte le protezioni legali intra-Europa. Il costo è di circa 40 euro, che includono due euro di donazione a Oxfam per costruire una scuola elementare in Cambogia; in realtà sarebbero stati 28 se avessi rinunciato a due giorni, visto che va a settimane. Si fa tutto online con attivazione immediata, comprese le segnalazioni, ma ovviamente per emergenza si può anche telefonare o mandare una mail a un call center a Copenaghen, attivo 24 ore su 24.

Spero di non dover mai fare la prova e capire se a queste differenze di prezzo corrisponda una differenza di prestazioni, anche se, sulla carta, l’assicurazione più economica è anche quella che copre di più. Certo che, ancora una volta, emergono le grandi verità della rete globale: uno, qualsiasi sia il servizio di cui hai bisogno l’Italia non è competitiva, e due, chi si sbatte a cercare e confrontare le possibilità in rete finisce per guadagnarci sensibilmente.

[tags]viaggi, assicurazione, mozambico[/tags]

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martedì 19 Agosto 2008, 11:32

Cervinia

Ieri sono stato per la prima volta a Cervinia, un posto di cui tutti dicono sempre un gran bene: del resto, se c’ha la casa Mike Bongiorno

In effetti una cosa eccellente a Cervinia c’è: era buona la pizza al taglio che abbiamo mangiato per pranzo, sulla via principale, accanto all’ufficio postale. Si sa che il vero segreto per fare buoni il pane e la pizza non è la farina, ma l’acqua; per questo motivo, in montagna è difficile mangiare pizza cattiva. Comunque, abbiamo apprezzato.

Il resto, invece, lascia perplessi. Il posto, in termini naturali, è bellissimo: una ampia conca soleggiata circondata da montagne altissime, con in mezzo il Cervino, da cui scendono ruscelli e cascatelle in mezzo ai prati, mentre verso la valle incominciano le foreste. Peccato che ci abbiano trasferito in mezzo un pezzo di città di raro squallore, che si avvicina molto alle vette di bruttezza di Bardonecchia.

Non è solo questione dell’effetto che fanno dei palazzi di tre, cinque, dieci piani nel bel mezzo di un prato d’alta montagna; è che i palazzi in questione sono per buona parte vecchi e cadenti. Uno non si immaginerebbe che in una località chic ed esclusiva – se non altro perché la quantità di appartamenti disponibile è ampia ma comunque non infinita – ci siano vecchi palazzoni anni ’50 con le ringhiere arrugginite e il cemento che si sbriciola; abbiamo persino visto un paio di case chiaramente in abbandono, con i vetri rotti e l’interno pieno di scritte. Per non parlare della partenza della funivia: un edificio bombardato, con il piano superiore diroccato e un’ala di cui resta soltanto un muro, e dall’interno sporco, che sembra mai più ripulito dalla seconda guerra mondiale; all’ingresso c’è persino un cartellone vintage, primi anni ’60, che segnala l’apertura o chiusura delle varie funivie con delle lucette semaforiche recuperate direttamente da un garage sotterraneo di Milano Lambrate.

Lo scempio sarebbe comunque tollerabile se fosse limitato all’interno della conca; e invece no. Basta girarsi verso est, la parte delle piste, per vedere palazzoni di ogni genere spuntare orrendamente tra i boschi e in mezzo ai pendii; a seconda della zona, si può ammirare il peggio dell’architettura anni ’50, il peggio dell’architettura anni ’60, il peggio dell’architettura anni ’70 e il peggio dell’architettura anni ’80. Come se non bastasse, il Cervino è incorniciato dalle gru: difatti – nonostante in Val d’Aosta sia vietato costruire nuovi edifici sopra una certa quota d’altezza – devono aver trovato qualche scappatoia, o qualche gancio politico, e così stanno ancora costruendo condomini sempre più in alto sulla montagna, naturalmente tutti con un ufficio vendite il cui numero di telefono inizia per 02 o al massimo 03.

Abbiamo capito l’aria che tirava quando, durante la nostra passeggiata sul lato ovest della conca (quello meno deturpato), abbiamo incrociato un tizio che nel tipico dialetto locale ci ha chiesto: “Uè, figa, ma questa è già Cervinia? Ma dov’è la strada che va a duemilaeotto?”. Praticamente, voleva arrivare con la sua macchinetta dritto dritto sulla cima del Cervino o quasi, e non si convinceva che in montagna, oltre una certa quota, si debba andare a piedi.

Alla fine, la natura è talmente magnifica che la passeggiata è stata bellissima lo stesso. Certo è che, a Cervinia, l’uomo si è messo di grande impegno a devastare la montagna.

[tags]cervinia, val d’aosta, pizza, turismo, deturpazioni, milanesi[/tags]

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lunedì 11 Agosto 2008, 17:29

Oltre (3)

Ci sono molte cose del Giappone che non ho ancora avuto tempo di raccontare. Oggi, per esempio, sento l’esigenza di farvi vedere qualche video tratto dalla mia passeggiata di domenica pomeriggio da Shinjuku a Shibuya, passando per il parco Yoyogi.

Non ho avuto tempo per attraversare per intero il parco, ma mi è bastato spingermi a pochi metri dall’ingresso principale per osservare tre diverse attrazioni. La prima sono i famosi rockabilly di Yoyogi: gente che non sa ballare, non sa cantare e non sa suonare, ma che è oltre. Molto oltre.

Altrettanto oltre era questo gruppo di ragazzi che poco più in là mettevano in scena un cosplay in piena regola. Purtroppo l’audio è scarso, perché non ho osato avvicinarmi e riprenderli da vicino; in pratica, dal radiolone sul davanti esce una base musicale pre-registrata, mentre loro recitano il loro dramma fantasy in costume secondo un copione ben studiato. L’impegno è ammirevole, il risultato… beh… è di nuovo oltre.

L’ultimo video è l’unico decente: sono gli Stereo Lynch, gruppo indipendente che dispone persino di un sito e di date nei locali alternativi di Tokyo. In effetti questi sapevano suonare e cantare, e così ho registrato un pezzo intero. Stavo quasi per comprargli il disco, poi ho realizzato che ero sotto l’effetto congiunto dei 35 gradi, del 99% di umidità e della Asahi Super Dry.

[tags]tokyo, yoyogi, viaggi, rockabilly, cosplay, stereo lynch[/tags]

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giovedì 7 Agosto 2008, 03:52

La storia vista dall’altra parte

Sono in partenza – domani mattina alle 6:30 devo lasciare l’albergo e andare a Narita per tornare indietro. Oggi ho perso un’ora alla stazione di Tokyo per capire come fare in anticipo il biglietto del Narita Express; se fare qualsiasi altro biglietto è semplicissimo, per i treni speciali non si possono usare macchinette e quindi mi toccherà fare la coda allo sportello (l’avrei fatta oggi ma non sapevo come comunicare che volevo un biglietto per il giorno dopo a una determinata ora…). Speriamo bene.

Nel frattempo ho scoperto un altro paio di cose interessanti. La prima è che anche in Giappone esiste il cielo blu; è apparso per la prima volta dopo otto giorni e in effetti è stato un po’ meglio, nel senso che il caldo faceva male alla testa (tipo 35 gradi e oltre) ma almeno c’era vento e non si soffocava.

La seconda è che, siccome dovevo già vedere Ginza e il palazzo imperiale, ci stava il tempo per un solo museo; vista la data, ho rinunciato al parco di Ueno e ho scelto lo Yasukuni-jinja, il tempio dedicato ai caduti per la patria sin dalle guerre civili di metà Ottocento; e l’annesso museo della storia militare del Giappone.

Nel tempio ero più fuori posto del solito; non c’era neanche mezza riga in inglese, nemmeno sulle mappe, e anche se non ero l’unico turista ho cercato di passare il più inosservato possibile. Ma il meglio è stato l’annesso museo, in cui, in venti sale, viene esposta con dovizia di particolari la storia militare del paese, partendo dall’epoca dei samurai (infatti ho visto esposte armature e spade davvero splendide).

Così, presto si arriva ai giorni nostri e si comincia a narrare: prima di come il Giappone, nel 1894, sconfisse la Cina per liberare la Corea e darle l’indipendenza, cosa di cui i coreani furono tanto grati che nel 1909 chiesero di propria spontanea volontà l’annessione al Giappone come colonia. Solo che pochi giorni dopo la vittoria contro la Cina i terribili russi dello zar si intromisero e, con la complicità delle altre potenze occidentali, obbligarono i giapponesi a restituire parte dei territori conquistati sul continente; ciò obbligò quindi i giapponesi a contrattaccare dieci anni dopo e sconfiggere i russi.

Dopodiché, nei decenni successivi, vengono riportati decine di “incidenti” in cui truppe giapponesi in vacanza in Cina vennero prese di mira dai cattivi nazionalisti, costringendo il Giappone a liberare la Manciuria e poi anche parti della Cina.

Dopodiché, per circa quattro grandi sale, si narra la seconda guerra mondiale, riportando ogni campagna e ogni battaglia con mappe, reperti, descrizioni e foto dei generali coinvolti (ci sono alcuni bellissimi oggetti, come un aereo-kamikaze e un siluro-kamikaze – sì, li facevano anche sottomarini). E poi, nell’ultima didascalia dell’ultima sala, c’è scritto qualcosa tipo “comunque, alla fine, gli Stati Uniti lanciarono bombe sul territorio giapponese, comprese due bombe atomiche: una a Hiroshima e una a Nagasaki. Così il Giappone si arrese.”. Punto. Fine del museo.

Cioè, non c’è nemmeno una foto, un oggetto, niente che riguardi le bombe atomiche se non quella frase e un paio di didascalie in piccolo di una frase l’una. Seguono solo cinque stanze (un quarto del museo) piene zeppe di migliaia di piccole foto di tutti i singoli militari giapponesi di ogni ordine e grado che sono onorati nel tempio.

Avevo già avuto qualche sospetto che certi argomenti fossero ancora tabù, tanto più se da descrivere in inglese e quindi agli occhi degli stranieri: ad esempio nel museo civico di Otaru si narrava per una intera parete del molo ferroviario sospeso sul mare, orgoglio della nazione, che fu costruito negli anni ’10 e svolse la sua funzione di carico delle navi con grande perfezione finché “it ceased to exist in 1945”. Anche qui, punto e fine spiegazione.

A ben pensarci, trattandosi di un museo di storia militare, credo che parlare e mostrare al suo interno la sconfitta sarebbe vissuto come un insulto ai caduti: il museo vuole onorarli e per il giapponese la sconfitta è il massimo disonore. Certo che – anche avendo letto l’ultimo pannello, che dice qualcosa tipo “le conquiste giapponesi non avvennero invano, perché cacciando gli occidentali e mostrando la potenza di un paese asiatico finirono per portare all’indipendenza di tutti i paesi dell’Asia, quindi l’indipendenza dei paesi asiatici è essenzialmente merito del Giappone” – si capisce perché i vicini abbiano spesso protestato contro la cultura storica dei giapponesi.

[tags]giappone, viaggi, storia[/tags]

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mercoledì 6 Agosto 2008, 01:19

Prospettive di vita giapponese

Oggi ho fatto proprio bene a mettere in programma due cose che i visitatori di breve periodo a Tokyo normalmente non fanno, perché ho avuto un’illuminazione.

La prima cosa è stata quella di investire un po’ di yen in un tour guidato fuori dalla città, a vedere le pendici del Monte Fuji e la zona termale elegante di Hakone. Il tour in sé non è stato il massimo, perché il tempo era coperto e il Fuji si è visto ben poco, ma alla quinta stazione (quasi 2400 metri di altitudine e 28 gradi di temperatura pur in un giorno senza sole) ho di nuovo assaggiato la strabiliante densità di questo popolo: era come andare ad un qualsiasi rifugio alpino di quell’altitudine in estate, solo che invece di esserci un rifugio c’erano sei palazzi di quattro piani, e invece di esserci qualche decina di persone intente a prendere il sole o a partire per le salite più serie ce n’erano probabilmente oltre un migliaio: erano tutti vestiti tecnicissimi da scalatori provetti, ma il sentiero alpino che porta in cima al Fuji era più o meno come via Garibaldi il sabato pomeriggio.

Uscendo dalla città, ho scoperto che il Giappone ha sì 120 milioni di abitanti in un territorio grande come la Germania, ma questi abitanti sono concentrati nel 25% del territorio costituito da pianure o da fondovalli; il rimanente 75% sono montagne praticamente disabitate. Per questo motivo, finché si sta in pianura non si vedono che case, case, case e case a perdita d’occhio per decine e centinaia di chilometri, al massimo – dopo i primi 30-40 km di allontanamento dal centro – inframmezzati da qualche timido campo di riso (non risaia, che a quanto pare qui non li allagano, ma seminano a giugno e raccolgono a ottobre; tanto c’è abbastanza acqua nell’aria per tutta l’estate, è come se le piante fossero a mollo).

Poi, d’improvviso, si arriva al bordo della montagna; e di botto le cose cambiano. Lì gli insediamenti umani sono piccoli villaggi che si fanno faticosamente strada in mezzo a una vegetazione lussureggiante, densissima, quasi impenetrabile; che siano foreste (come per la maggior parte) o prati di erba alta mezzo metro, la natura crea un intrico misterioso che respinge. In più, l’orografia del territorio è labirintica, perché il Giappone non è stato creato da uno scontro di continenti con successiva erosione delle acque, ma da eruzioni vulcaniche che ogni tanto, anche in tempi geologicamente recenti, creavano una nuova montagna dove prima non c’era, in un luogo più o meno casuale.

Si capisce insomma come i giapponesi da una parte si schiaccino in pianura, e dall’altra abbiano questo rispetto atavico per la natura che ce li schiaccia: vorrebbero allargarsi, ma vulcani, terremoti e foreste glielo impediscono.

La sera, poi, sono andato a cena a casa del mio amico Izumi; è un’opportunità molto rara perché non è facile essere invitati in casa da un giapponese. Io mi ero preparato, mi ero portato il regalo, mi ero anche tenuto da parte un paio di calze nuove, ma ero piuttosto teso all’idea di confrontarmi con tutti i vari tabù dei giapponesi, pur se il mio amico ha girato il mondo e in patria è considerato molto occidentalizzato. Invece è stata una bella serata, soprattutto perché ho scoperto un ulteriore livello della cortesia dell’ospite: se il tuo invitato scatarra nel bicchiere perché non sa che è maleducazione (è solo un esempio, non l’ho fatto…), tu non devi semplicemente fingere che vada tutto bene; devi prendere il tuo bicchiere e scatarrare anche tu giurando che quella è la normalità delle buone maniere locali. In alcuni casi ha usato anche l’inganno, ad esempio insistendo perché ci trovassimo alla stazione di Meguro per andare insieme a casa sua, per poi scoprire che casa sua è a 10 euro di taxi, che lui si è fatto una volta per venire a prendermi e una seconda per riportarmi indietro (la terza l’ho pagata io).

Però ho capito una cosa importante: che quel che si vede dall’esterno, cioè la folla inimmaginabile, i formicai umani, il rumore, le luci, la confusione e l’intruppamento, ha un suo contrappeso non evidente nello spazio privato, che pure esiste, nelle viuzze semideserte e silenziose di periferia, e nelle case piccole ma accoglienti che ci si affacciano sopra. Anche esse stracolme di roba, affastellata in modo incredibile, tanto che alla fine mi sono un po’ preoccupato perchè il mio regalo occuperà una trentina di centimetri di diametro e in quella casa è una percentuale significativa dello spazio disponibile. Però tranquille, ben studiate, piene di vecchi mobili di legno o magari di plastica.

La vita è dura per i giapponesi, e noi bene abituati non sappiamo nemmeno immaginare quanto: io sono andato via alle undici e mezza e la figlia più piccola del mio amico, vent’anni e qualcosa, non era ancora tornata dal lavoro come commessa in palestra; i giapponesi lavorano sei giorni su sette, per tutto il giorno e spesso anche la sera, e per riprendersi hanno una settimana di ferie l’anno. Non è un caso che sui treni del sistema ferroviario più efficiente del mondo, dove nulla si rompe mai e un minuto di ritardo vale le scuse in ginocchio dell’intera azienda, si leggano continuamente nei pannelli informativi, tutti i giorni, uno dietro l’altro, annunci di questa o quella linea bloccata per “incidente”. Dopo dieci minuti, pulito il sangue, i pendolari ricominciano a scorrere.

In origine, dal dopoguerra fino agli anni ’80, tutto questo sacrificio – quello che ti viene richiesto in quanto piccola rotellina senza spazio di manovra, ma con l’orgoglio di contribuire al fatto che la tua comunità primeggi nel mondo – era ripagato da una grande ricchezza collettiva, che faceva essere i giapponesi danarosi quasi quanto gli arabi. Da quindici anni, dopo la crisi e la globalizzazione e l’esplosione degli odiati cugini cinesi, non si vede nemmeno più bene il perché di tutto questo; se non, forse, per godersi per sei o sette ore al giorno – tra vita, pasti e sonno – quei pochi metri quadri di periferia.

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