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lunedì 1 Settembre 2008, 12:05

Economia africana

La principale attività del Mozambico è il non far niente. A tutti gli occidentali che si stupiscono di ciò viene raccontata la storiella ormai famosa in tutta l’Africa e anche nei Caraibi: quella dell’uomo bianco che vede un pescatore nero sulla spiaggia, seduto a guardare il mare senza fare niente. Allora il bianco gli chiede: perché non stai lavorando? E il pescatore risponde: perché dovrei lavorare? Potresti comprarti una nuova rete, risponde il bianco. E il pescatore: e perché? Il bianco gli spiega che con una nuova rete prenderebbe più pesce. E il pescatore: e a cosa mi serve? Beh, dice il bianco, a forza di prendere più pesce e venderlo al mercato, a un certo punto diventeresti abbastanza ricco da poter smettere di lavorare. E il pescatore risponde trionfante che lui ha già smesso di lavorare senza bisogno di tutta questa fatica!

Non fraintendetemi: Maputo è una città e, come tutte le città, ha uffici, negozi, locali, attività pubbliche e private che funzionano ogni giorno grazie alle persone del posto che ci lavorano. E’ solo diverso il concetto di lavoro e, soprattutto, il suo valore percepito, in termini morali prima ancora che economici. L’autista dell’ufficio – che guadagna cento euro al mese, che comunque qui sono abbastanza per mantenere le sue due compagne e i suoi cinque figli – ci ha detto che è contento delle cose che ha realizzato – i figli, la casa, il televisore – ma che la sua vita è durissima perché quasi tutti i giorni deve andare a lavorare. Un altro ragazzo incontrato il giorno prima – neolaureato, ben vestito, ora impiegato di uno dei vari progetti di cooperazione – ci ha detto tranquillamente che ora era contento di lavorare, ma che non aveva voglia di fare 40 minuti di autobus al mattino e altrettanti la sera, per cui andava a lavorare solo quando l’autista del suo progetto (tutti i progetti hanno macchine con autista sempre a disposizione) poteva passarlo a prendere, se no semplicemente non si presentava in ufficio.

Anche l’approccio al lavoro è molto rilassato: si arriva, si chiacchiera un po’, si fa riunione, si mangia… sembra quasi un ministero italiano. Quasi nessuno dei locali è veramente capace – in metriche occidentali – a fare il lavoro che fa. Per esempio, l’altra sera siamo andati a un ristorante e ci siamo seduti; per prima cosa ci hanno detto (in modo molto rilassato, e senza la scortesia tipica di un esercente italiano) che dovevamo fare in fretta perché erano lì lì per chiudere (mancavano tre quarti d’ora). Poi è arrivata la cameriera a prendere le ordinazioni; qualsiasi cosa scegliessimo dal menu non c’era, però ce n’erano delle altre che sul menu non erano scritte. Alla fine la cameriera non era sicura, così è andata a chiedere in cucina se la cosa che volevamo (più o meno l’unica disponibile) c’era davvero. Poi l’abbiamo vista litigare col padrone, poi è sparita e non è più tornata, così dopo un quarto d’ora uno di noi è andato a chiedere. E’ venuto il padrone a dirci che in realtà la disponibilità delle cose era ancora diversa, e ha suggerito che se volevamo “faceva lui”. Abbiamo accettato, e allora dopo una decina di minuti sono arrivate le zuppe, ma ne mancava una, e mancavano anche due cucchiai. Le bibite sono arrivate dopo altri cinque minuti e un paio di altri solleciti; poi ha cominciato ad arrivare il cibo, anche se nessuno, padrone compreso, era completamente sicuro di cosa sarebbe arrivato e in quali quantità. Alla fine era tutto assolutamente ottimo; abbiamo mangiato in abbondanza e ne abbiamo ancora lasciato lì; abbiamo speso circa dieci euro a testa, una cifra normale per qui, ma poco per i nostri standard. Ovviamente, quando abbiamo dato i soldi per pagare il conto, abbiamo dovuto sollecitare due volte per avere il resto; ma non perché volessero tenerselo, semplicemente perché l’incombenza gli passava di mente nel tragitto tra il tavolo e il bancone.

In effetti, il bianco è molto apprezzato perché arriva qui con competenze che per il posto sono stratosferiche, e per mille o millecinquecento euro al mese è disposto a fare moltissimo lavoro. Ci hanno detto che i locali con competenze comparabili non si sognano nemmeno di farlo: per fare lo stesso lavoro vogliono decisamente di più, altrimenti “non ne vale la pena”.

Ora, questo sarebbe comprensibile se ci fosse un mercato che in qualche modo giustifica questi stipendi; ma non è così. Circa il 60% del PIL del Mozambico è costituito da aiuti umanitari; una quota ulteriore sono rimesse dagli emigrati. L’economia privata è inesistente; siamo a livelli persino peggiori della Calabria (di cui un’amica del posto mi spiegò che il 77% dell’economia è pubblico e parapubblico, e solo il 23% è privato). A parte le piccole attività, esiste qualche fabbrica sudafricana o comunque straniera; il resto è sovvenzione e parastato.

Ci hanno detto che a Maputo c’è il boom economico, e lo vediamo: per le strade circolano moltissime macchine tra cui parecchie nuove (quasi tutti fuoristrada Toyota, Hyundai o comunque giapponesi e coreani) e sono appena stati costruiti due complessi nuovi e scintillanti che sembrano un angolino di Los Angeles trapiantato in Africa: il primo è il Maputo Shopping Center e il secondo è la nuova sede del Ministero della Cooperazione (mentre gli altri ministeri sono ruderi o quasi). Io ingenuamente pensavo che fosse per via della globalizzazione: sta a vedere che qualche briciola della grande delocalizzazione occidentale è finita anche qui. Invece no: c’è il boom semplicemente perché alcuni dei paesi donatori hanno sensibilmente incrementato gli aiuti a fondo perduto.

Il flusso del denaro, qui, è così: dai governi occidentali al governo locale, che ne trattiene l’80-90 per cento in corruzione, oppure a dipendenti locali di istituti e NGO occidentali, sotto forma di lavori artificialmente ben pagati. Dai mozambicani, i soldi finiscono per la maggior parte a una delle due compagnie di cellulari: la Mcel e la Vodacom, che tappezzano di pubblicità il paese, ovunque, in qualunque angolo, dipingendo dei loro colori le case e i negozi. Oppure, in una delle due banche che in centro hanno uno sportello ogni due isolati: la Millennium (portoghese) e la Barclay’s (inglese). Di lì, tornano in buona misura in Occidente, visto che quasi tutto deve essere importato, dai lavandini ai biscotti: di prodotto nazionale, a parte ottima verdura, carne e pesce, e forse i mattoni e il cemento, non c’è niente di niente. Questo spiega come mai il prezzo di tutto sia quasi uguale a quello europeo, anche se i locali non potranno mai permettersi nulla di tutto ciò.

All’Hipermaputo, il maggior supermercato della città, che non ha nulla da invidiare al Carrefour – prezzi compresi – tranne la birra perché è posseduto da arabi e quindi non si vendono alcoolici, il cibo è di provenienza insospettabile: buona parte dei prodotti hanno le etichette innanzi tutto in thailandese. Sono i misteriosi ricircoli del commercio globale, persino qui. L’Italia nemmeno qui è veramente competitiva, ma almeno un po’ si difende: c’è pasta Divella e Spigadoro – in mezzo a un mucchio di imitazioni con improbabili nomi paraitalici – e soprattutto c’è lui, l’oggetto che più di ogni altro pianta la bandiera italiana in ogni angolo del pianeta: l’espositore Ferrero con i Kinder Bueno. Li ho comprati subito: gioverà alla nostra economia.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, africa, economia[/tags]

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4 commenti a “Economia africana”

  1. Mantopelo:

    anche nel mio oramai antico peregrinare per il mondo (terzo) le situazioni erano quelle: stato, parastato, aiuti, ong, onu nelle sue declinazioni, i capitali arabi, qualche bella multinazionale, ferrero uber alles, pasta italica e manifestamente tarocca messe accanto (i brand di quelle tarocche sono fin più belli delle nostre), infine Perfetti e i cicles (in Banghladesh fanno parte della normale fonte di zuccheri), il danaro torna indietro…

    Occhio Vitto, con buona pace del 3 a 0, il Toro non lo conosce proprio nessuno laggiù, malgrado un manipolo di amici Alpini che ha speso un po’ di mesi a Nampula, in mezzo ai pioppi più pioppi del Mozambico ed ha fatto proselitismo parabolico-satellitare, mentre ha edificato una scuola…
    Ricordo con commozione una simil conversazione con un paio di bambini in un’isoletta sperduta dell’est-est indonesia anni fa (il conto fallo tu che sei più preparato di me); palafitte, un paio di maialini neri a spasso sulle assi, nubi nere, caldo bestia, moccio al naso tracoma e parabole satellitari ovunque. Mi chiedono di dove fossi, dico Italy…Torino…e loro yessir, juventus (mi sale l’acido). Faccio il brillante e cito “yes, RobertoBaggio, you know?” Risposta con faccia perplesso/sardonica “ah you fake, you no italian: Baggio with Milan, no more juve” (lo avevano venduto durante il mio viaggio).

  2. D# AKA BlindWolf:

    Anche a Zagabria vige l’equazione Torino->Juventus. E il Barcanova Salus no?

  3. vb:

    Beh, ieri sera siamo andati a cena in un ristorante elegante un po’ fuori città, davanti c’erano ovviamente i parcheggiatori abusivo-mendicanti (qui ci sono comunque molti meno mendicanti che nel Nordafrica, non perché non ci sia uguale o maggiore povertà ma perché mendicare è già faticoso). Ci hanno chiesto da dove venivamo, abbiamo detto “Italia”, e loro hanno risposto: “ALEXANDRE DO PIERO!!” Lì ho pregato per la lebbra.

  4. MCP:

    Deppiero! Seubravudetuti peacuacubeve!

    http://www.stefanodisegni.it/Vignette.aspx?comicID=161

 
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