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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


martedì 5 Agosto 2008, 01:11

Shopping

Oggi è stato il giorno dello shopping: infatti al mattino sono andato al Museo d’Arte Ghibli di Mitaka, con annesso negozio di souvenir appropriatamente denominato Mamma Aiuto!; poi, approfittando dell’essere sulla strada, mi sono fermato a Nakano per vedere il famoso Mandarake, dove ho comprato un paio di numeri uno di manga giapponesi tanto per averli, ma soprattutto ho osservato il disfacimento umano di ragazzi nipponici che passano le giornate a collezionare gasshapon di Nami di One Piece seminuda in quindici posizioni diverse; e infine sono andato a Akihabara.

Il museo Ghibli è stato per certi versi una delusione, nel senso che il museo è più che altro un complemento del negozio, e in più è veramente centrato sui bambini; allo stesso tempo, due o tre cose lì dentro sono comunque magiche. Poi è stato bello vedere la riproduzione dello studio e del processo di produzione, con un sacco di meravigliosi sfondi dipinti a mano con la tempera, prima di sovrapporre il rodovetro con i personaggi animati; quando li vedi nel film non ti rendi conto di quanto siano perfetti… tanto è vero che una sezione del museo è dedicata a un gemellaggio col Louvre che ospita riproduzioni rimpicciolite della Gioconda e di altre opere, con un effetto per noi buffissimo (anche perché metà delle didascalie in francese erano sbagliate).

A parte questo, in tutto il museo non c’è mezza riga in lingua altra dal giapponese, però se uno conosce un po’ di tecnica dell’animazione e un po’ di opere di Miyazaki se la cava lo stesso. Alla fine sono stato quasi tentato di fare la follia e calare 250 euro per un fotogramma originale (completo, sfondo più rodovetro) di Mononoke Hime, ma poi mi sono trattenuto; comunque, qui è uscito da due settimane Ponyo della scogliera sul mare e, anche se è evidente il tentativo di produrre un nuovo Totoro, i bambini erano tutti lì per quello. Ah, e per salire sul nekobus di peluche: quello li mandava in delirio.

Il Mandarake di Nakano è stato invece un bel contrasto: immaginatevi un centro commerciale tipo gli ultimi due piani della Rinascente di via Lagrange, insomma un posto triste di negozietti un po’ mal messi, un po’ vecchi, un po’ sporchi e abbandonati; solo che per tutti e tre i piani superiori il posto è stato via via colonizzato da Mandarake, un negozio di materiale fumettoso di ogni genere per appassionati duri e puri. I fumetti sono solo un accessorio; esistono una dozzina di diversi negozietti Mandarake, ciascuno di un 20-30 metri quadri pieni zeppi di roba affastellata, ciascuno dedicato a un aspetto diverso.

Per esempio, c’è il Mandarake per il cosplay, dove a un centinaio di euro puoi comprare i vestiti da Sailor Moon fatti e completi; c’è il Mandarake per i collezionisti di automobiline; c’è, ed è enorme, il Mandarake per le statuine di plastica dei personaggi dei fumetti, i gasshapon appunto. C’è il Mandarake per i doujinshi per lui, pieno di belle ragazze che la danno via in ogni posizione ma solo su carta disegnata, e il Mandarake per i doujinshi per lei, pieno di bei pornazzi con uomini muscolosi disegnati in gran dettaglio. I normali manga diventano quasi irrilevanti…

Dopo di questo – ed erano già quasi le quattro del pomeriggio – ho preso il treno e ho attraversato tutta la città per andare a Akihabara, uscita Electric Town (scritto direttamente in inglese). Si tratta di qualche isolato dove sono concentrati i maggiori negozi di elettronica del paese; ognuno di essi occupa i sei o sette piani dell’intero palazzo, anzi i più grossi, come Sofmap, hanno più palazzi tra cui la roba è suddivisa per genere – il palazzo dei videogiochi, il palazzo degli apparecchi elettrici, il palazzo dei computer, il palazzo dei CD…

Grazie alle mie precedenti esperienze asiatiche, sapevo che la cosa migliore era girare un po’, per trovare i prezzi migliori; per ciascuna cosa ci possono essere differenze di prezzo anche di tre o quattro volte. Ovviamente i prezzi più bassi erano nelle bancarelle delle strette vie sul retro, e non certo nei mega-negozi sul corso vicino alla stazione; comunque ho portato via 50 DVD-R 16x, bulkissimi, per circa 7 euro (Urbani & discografici, tiè), una mini-SD da 2GB per il mio nuovo cellulare a circa altrettanto, e un adattatore per i controller PS2-USB (->PS3/PC) a una decina di euro. Devo ancora decidere se comprare un’altra compact flash per la macchina fotografica (quelle cinesi base sono a 24 euro per 8 GB) e una SD per la PS3 (ma la mia PS3 schifida da 40GB legge le SD?).

Nel frattempo, girare per i vari palazzi è stato istruttivo. Intanto ho capito che la PS3 qui è stata un fiasco pazzesco: ci sono interi piani di giochi per la PS2, mezzi piani per la PSP, e solo un angolino per la PS3, anche se i giochi costano leggermente di meno; per esempio è appena uscito Soul Calibur IV e si trova in offerta lancio sui 30 euro; sarà solo in giapponese, però pare che i giochi per PS3 siano region-free, quasi quasi…

Poi, è stato interessante vedere il reparto dei giochi per PC: due o tre piani per palazzo, in cui uno scaffale di una corsia ospitava, che so, Age of Empires e Civilization. Tutto il resto ospitava giochi soft-porno, di quelli in cui puoi dialogare con le donnine fino a farle spogliare; corsie e corsie di giochi del genere. Addirittura c’era lo spazio dedicato a prenotare le nuove puntate delle varie serie prima che uscissero, in modo da essere sicuri di non mancarle.

Per fortuna oggi era un giorno feriale, e non c’era così tanta gente in giro; è stato piacevole. Domani gita in giornata; vi racconterò.

[tags]giappone, viaggi, ghibli, nakano, akihabara, computer, videogiochi, playstation[/tags]

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lunedì 4 Agosto 2008, 02:47

Bazooka

Premetto che subito prima di cominciare a prendere questo post ho assunto coca-cola e aspirina insieme: infatti ieri, avendo passeggiato per mezza giornata sul lungomare di Otaru con i capelli completamente bagnati, mi sono preso un bel mal di gola che stanotte non mi ha praticamente fatto dormire. Dopo aver scoperto che nella borsa da bagno avevo praticamente qualsiasi cosa ma nessun analgesico o antipiretico a parte il Moment in dosaggio placebo, raggiunto l’aeroporto di Shin-Chitose-Kuukou (questa l’ho imparata) più o meno in mezzo il delirio, ho comprato l’aspirina perché era l’unico medicinale in un intero scaffale che avesse un nome riconoscibile scritto in caratteri occidentali. Stamattina l’ho assunta nella lounge insieme al té verde; stasera, tornando in albergo a Tokyo, ho preso al distributore una Coca-Cola per la cena senza ricordarmi che volevo prendere l’aspirina. Poi però ho cercato in rete e ho trovato che Attivissimo garantisce che non c’è nessun problema, quindi se stanotte deliro di nuovo picchierò lui.

Comunque, Tokyo è tutta un’altra cosa rispetto a Sapporo: due civiltà diverse. Sapporo sembra la Svizzera: non c’è un solo brandello di carta in terra, nonostante in Giappone non esistano i cestini della spazzatura – a parte qualcosa per lattine e bottigliette davanti ai supermercati e ai distributori automatici, il resto va portato obbligatoriamente a casa – e pur con la grande abbondanza di imballaggi. Tokyo, invece, è sporchina: sempre poco per i nostri standard, ma si trovano abbastanza di frequente cumuli di sacchetti di immondizia e materiale da cibo abbandonato in giro, anche se quest’ultimo potrebbe derivare dai turisti pigri. In più, ho visto per la prima volta dei barboni: certo, rispetto ai nostri sono un’altra cosa, perché vivono in casette di cartone coperte con un telo blu (credo glielo dia il Comune) perché siano dignitose, sono spesso dotati di pentole e fornelletto, e quando vanno a dormire lasciano le scarpe fuori, sul marciapiede, proprio come in una casa vera.

Soprattutto, Tokyo ha messo i miei nervi a dura prova: sia a Shinjuku che a Shibuya volevo disperatamente procurarmi un bazooka, se non fosse che la Lonely Planet purtroppo non contiene alcuna indicazione sui negozi di armi (mi lamenterò con l’editore). E’ come vivere in un formicaio: ci sono persone ovunque, che sciamano continuamente, spingono o più spesso scorrono silenziosamente in modo totalmente inquietante, senza uno scopo apparente. Quando per caso c’è un passaggio obbligato, ad esempio dentro le stazioni, allora si forma una marmellata umana, che l’istinto dei giapponesi a mettersi in fila cerca invano di spalmare.

Se gli Stati Uniti sono il luogo dove l’ambiente è incredibilmente ingrandito, qui l’ambiente è incredibilmente condensato: le dimensioni certo sono notevoli, ma soprattutto il tasso di pigiamento è aumentato a dismisura. Se ci si mette in quest’ottica, si capisce come mai c’è un treno ogni minuto e mezzo, un McDonald’s ogni cento metri, un supermercato ogni cinquanta, un distributore automatico ogni venti: certo potrebbero anche mettere un distributore automatico ogni cento metri invece che ogni venti, ma data la densità di persone in giro si formerebbe subito una lunga coda.

E’ stato meglio quando sono riuscito ad andare in posti meno frequentati, come il parco del tempio Meiji, dove c’erano solo alcune centinaia di turisti, tra cui alcuni americani che sono arrivati alla fontanella dedicata al rito religioso shintoista di bagnarsi le mani all’ingresso, e hanno cominciato a bere e a versarsi l’acqua sulla testa tra gli sguardi inorriditi di tutti. Va bene che siamo stranieri, ma si può anche evitare di esibirsi; li aspetto a San Pietro a lavarsi nelle acquasantiere.

E poi, al parco di Yoyogi – oltre ad avere fatto un passo avanti nella raccolta del cibo, essendo riuscito a pronunciare alla signorina del chioschetto la fatidica frase “asahi biiru” per farle capire cosa volevo – ho raccolto un altro paio di filmati “oltre”, ma quelli li tengo per i prossimi giorni; adesso vado a dormire per cercare di riprendermi.

[tags]giappone, tokyo, sapporo, viaggi[/tags]

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domenica 3 Agosto 2008, 01:14

Cibo

Oggi – cioè ieri, per voi che leggete (cioè sarebbe oggi, ma io scrivo stasera e metto il post in pubblicazione per domani mattina, che però per voi sarà ancora oggi, ma solo se sarete svegli molto presto, quindi sono quasi sicuro che sarà domani e quindi parliamo di ieri) dicevo, oggi sono andato a Otaru, secondo l’ufficio del turismo “the romantic city of Hokkaido”, nella realtà un magico incontro tra il porto industriale di La Spezia e le periferie di Los Angeles. E’ stato comunque piacevole – la cosa migliore è la linea ferroviaria che corre chiusa per alcuni chilometri tra le montagne e la spiaggia, anche se mi sembra di averne già viste del genere nella mia vita – ma ve lo racconterò poi, perché stasera parliamo di cibo.

Sapevo infatti che, finita la conferenza, avrei rischiato di morire di fame: la mia riluttanza ad andare al ristorante da solo è notevole, per cui quando sono all’estero vivo di fast food, di supermercati o comunque di posti dove posso prendere del cibo e mangiarmelo al volo per i fatti miei. Soffro comunque il complesso del commesso, per cui se la lingua del posto non è l’inglese devo anche vincere la resistenza secondo cui, entrato nel negozio, alla mia incapacità di comunicare nella lingua locale verrà opposta una sonora risata, dopodiché tutti i presenti nel negozio si fermeranno per gridarmi in coro “ah-ha”, e poi spunterà d’improvviso la mia maestra delle elementari per cacciarmi a bacchettate nell’angolo in castigo.

Immaginate quindi come sia per me l’idea di andare a chiedere del cibo in un posto dove non solo non capisco una parola della lingua (beh, tre o quattro le capisco, ma non di più), ma dove non so nemmeno pronunciare i nomi dei piatti, anzi nemmeno i numeri (cioè quelli li saprei, ma poi ho paura di sbagliare e allora non li dico).

Ieri sera, per dire, volevo provare il ramen: Sapporo è famosa per avere una “via del ramen” piena dei classici negozietti, quelli che si vedono in manga come Ranma 1/2 o Naruto, dove il protagonista si siede su uno sgabello al bancone e ordina ramen in quantità (per i non esperti: il ramen è spaghetti + brodo + eventuale altro materiale edibile sparso nel brodo). Così sono arrivato alla via, e mi sono reso conto che è proprio come nei fumetti: anzi, ci deve essere una legge che vieta di vendere ramen se la superficie del locale è superiore a tre metri quadri. In pratica, bisogna ordinatamente mettersi in fila – qui c’è una fila per tutto, altro che Londra – e attendere il turno, poi negoziare il posto al bancone o in un microtavolino, poi ordinare – e non c’era mezza riga di menu in inglese. Così, già intontito dalla folla, ho lasciato perdere: ho risolto comprandomi un sacchetto di patatine al 7-Eleven.

(La folla è un altro problema: io non ho mai avuto paura della folla, ma qui si esagera; in una serata qualsiasi di un giorno feriale, il marciapiede era rigonfio di centinaia di giovani, alcuni punk, alcuni in kimono, tutti in giro per la città. Qui tutti si muovono istintivamente in maniera ordinata, alla stessa velocità, procedendo esattamente diritto, il che permette di evitare scontri; per noi, abituati a sbracciarci e cambiare direzione di botto, è un delirio. Peraltro ho detto a un amico “che folla, qui!” e lui, mentre sincronizzava perfettamente il passo con la persona davanti e quella dietro per evitare l’urto, ha risposto “ma no, qui non c’è nessuno, non hai visto Shibuya!” Domani vedo Shibuya e vi dico.)

Comunque, anche il supermercato è un problema: perché c’è un intero supermercato pieno di roba da mangiare e da bere che sembra la nostra, ma non lo è. Qui ogni assaggio è una sorpresa: le normali convenzioni di associazione tra colore, forma, consistenza e gusto sono tutte definitivamente sospese. Insomma, ci sono scaffali e scaffali di cose, ma quasi nessuna ha un equivalente in occidente; ho trovato giusto in un angolino delle patatine simil-Pringles; come snack dolci, ci sono gli Snickers e un po’ di cioccolato, ma nulla d’altro; ci sono brioche e simili, però spesso hanno i ripieni più strani; gli snack salati sono un delirio, tipo crackers che sanno di fumo, bastoncini che sanno di pesce, palline che sembrano caramelle ma sanno di qualcosa tipo maiale in agrodolce, o chissà cosa. Anche tra le bevande, la Coca Cola sta dimenticata in un angolino (mai vista una cosa del genere); gli scaffali sono pieni di decine di tipi di té e succhi di frutta, oppure di caffé e caffelatte in lattina (non ho ancora osato).

Alla fine, oggi mi sono vergognato di me stesso e ho deciso: basta, oggi compro del cibo serio. Ho passato la mattinata sotto la pioggia, con in più un vento di direzione casuale che tirava l’ombrello dove voleva lui. Poi, all’ora di pranzo, volevo andare a prendere il treno per Otaru: ho quindi pensato di mangiare alla stazione. Sapevo che nel sotterraneo di uno dei tre enormi centri commerciali che costituiscono la stazione (dieci piani l’uno) c’era una food court; però era già tardi, e non volevo perdere tempo, per cui ho deciso di mangiare dai chioschetti davanti all’ingresso dei binari. La scelta era quindi limitata: c’era un bar che faceva curry bianco e altra roba troppo raffinata, una panetteria/pasticceria e un caffé con roba fritta.

Ho girato in tondo per dieci minuti, poi ho detto: basta, adesso proviamo. Il caffé-fritto aveva i fritti in vetrina vicino alla cassa: ho pensato che, mal che andasse, avrei indicato.

Effettivamente la cassiera, molto gentile, non parlava nemmeno mezza parola d’inglese, nemmeno “thank you”. Però, con la forza del dito indice, sono riuscito a ottenere un pezzo di pesce fritto e uno spiedino di palle di puré, o almeno sembravano delle palle di puré di media grandezza immerse nella pastella, poi infilzate nello spiedino e fritte, però c’era un retrogusto di qualcosa che sembrava tipo acetone o carcassa di animale, comunque quasi buono; il pesce era eccellente. Sicuramente ho commesso svariate scortesie, anche se non ho contato il resto; per esempio credo di aver portato dentro l’ombrello, e mi sa che non si fa; sono riuscito a non soffiarmi il naso, ma una volta ho starnutito e un’altra mi sono grattato la testa, e quelli vicino a me si sono allontanati. E poi ovviamente io ho usato la salviettina per pulirmi le mani dopo aver mangiato e non prima.

Comunque, galvanizzato dal successo, sono entrato nella pasticceria self service. In pratica è un self service – questo era piccolo, ma poi ne ho visto un altro enorme al piano di sotto, proprio come fosse il Brek – dove tu ti addentri con vassoio e pinzette, e lo carichi di dolci di ogni genere: brioche, pezzi di torta, cioccolato, palline ripiene… Questo aveva anche (sempre da prendere con le pinzette) pezzi di pizza e patatine: a saperlo prima… Poi arrivi alla cassa, porgi il vassoio, e qui…

…ecco, ho scoperto un’altra cosa che noi occidentali ignoriamo: questa è la civiltà dell’imballaggio. Qualsiasi cosa è imballata singolarmente, poi messa in un contenitore che viene imballato, chiuso e messo in un sacchetto – anche se stai comprando degli stuzzicadenti. Due giorni fa ho comprato dei biscottini, tipo quelli americani ma più piccoli: mi è stato dato il sacchetto, con dentro la scatola di alluminio stampato, che dentro aveva il vassoietto di plastica, che dentro aveva venti piccoli imballaggi di alluminio stampato con un biscotto ciascuno. Oppure, ho preso caffelatte e muffin a uno Starbucks: mi hanno dato un sacchetto di carta, dentro il quale hanno messo una base di cartone rigido con un buco tondo, in cui hanno infilato il contenitore di cartone spesso del caffelatte, tappato con una palettina di plastica che permette anche di girare la schiuma; a fianco, c’era un buco quadrato in cui hanno infilato il muffin, avvolto in un sacchettino di carta, e poi hanno ancora aggiunto un pacchettino di plastica contenente la salviettina umidificata. Fanno otto pezzi diversi di materiale, per caffelatte e muffin; l’Amazzonia ringrazia, ma loro sono ossessionati dall’igiene.

Anche nella pasticceria mi hanno avvolto ciascun pezzo in un sacchettino, poi mettendo il tutto in un sacchetto; così sono uscito, ho preso anche da bere alla macchinetta, e poi mi sono seduto su una panchina a mangiare, e solo lì ho realizzato che ero l’unico in tutta la stazione a mangiare sulla panchina. Ho il forte sospetto che non si faccia, anzi, a dire il vero non ho mai visto nessuno mangiare o bere alcunché per strada, nonostante sia pieno di negozi che vendono roba da portar via. Indagherò.

Stasera, quindi, ho tentato il gran colpo: ho provato il mercato del cibo del supermercato Esta, sotto la stazione. E’ come fosse un piano di Rinascente occupato da banchetti che vendono cibo fatto sul momento, di ogni genere; la cosa interessante però è che, siccome erano già le otto e un quarto e alle nove chiudevano, come in un vero mercato la roba era in svendita. Così per circa tre euro ho portato a casa il classico contenitore a scomparti chiuso, contenente riso e bistecca da una parte, e riso e bistecca di altro tipo dall’altra. Per meno di un euro ho preso uno spiedino di pollo; per un altro euro ho preso un dolce dal gusto imprevisto (qualcosa tipo cannella) ma buono, in un’altra pasticceria self service; poi alla macchinetta ho preso il mio té al limone; e, avendo capito le usanze, mi sono portato tutto buono buono nella mia camera d’albergo, dove ho spazzolato ogni cosa: tutto ancora tiepido, quindi fatto da non troppo tempo, e molto buono.

Sono quindi piuttosto contento: ho dimostrato a me stesso di poter provvedere alla necessità più basilare, quella di procacciarmi del cibo, anche in condizioni estreme come queste: io, cinquemila yen in mano, e qualche centinaio di bar, ristoranti, supermercati e distributori automatici nel raggio di cinquecento metri. Però mi son tenuto le bacchette: se trovo un altro posto del genere a Tokyo, sono tranquillo.

[tags]giappone, sapporo, cibo, viaggi, mangiare[/tags]

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sabato 2 Agosto 2008, 02:44

Oltre (2)

Ieri, come conclusione della conferenza, ci hanno portato nel parco Moerenuma e ci hanno salutato con questa esibizione di yosakoi, che all’inizio è abbastanza normale, poi… ecco… è oltre anche questa.

[tags]giappone, sapporo, yosakoi, danza[/tags]

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venerdì 1 Agosto 2008, 05:23

Oltre

Mentre all’iSummit ascolto il discorso del signor Kadokawa presidente della Kadokawa Shoten – per i meno esperti, vuol dire Cowboy Bebop, Tenchi Muyo, Evangelion e tonnellate di altri manga tra cui il mitico Chrono Crusade, la storia di una suora diciottenne in giarrettiere che combatte i demoni a pistolettate – mi riviene in mente la sensazione che ho provato quando, sul modulo per l’immigrazione ovviamente copiato da quello degli americani, ti chiedono (risposta obbligatoria “no”) se stai importando materiale pedopornografico; un po’ come se alla frontiera italiana ti guardassero storto e ti chiedessero con grande rigore “non starai mica pensando di importare mozzarella?”.

Ieri, per esempio, uno dei video premiati nel concorso nazionale di video liberi – una competizione di alto livello, con Ryuichi Sakamoto in giuria, per dire – era una animazione di una bambina sui 10-12 anni che girava per la strada completamente nuda, a parte un filo di mutanda bianca. Ok, il disegno è completamente fumettoso, molto kawaii e assolutamente privo di realismo, ma le varie parti del corpo sono chiaramente disegnate. Soprattutto, il brano è una fiaba per bambini dove cade una stella dal cielo e bisogna ritrovare chi l’ha perduta, e il fatto che la bambina sia nuda o vestita non fa alcuna differenza: segno che per loro disegnare bambine nude è completamente normale. Avessero mostrato un video del genere da noi, papa Ratzinger avrebbe fatto irruzione in sala con le armi in pugno, portato in spalla da Chuck Norris con tutta la Papamobile.

(Comunque il Giappone mi ha aperto nuovi mondi di tamarraggine; per esempio, nonostante ci fossero dei video molto belli, il concorso è stato vinto da un inguardabile remix di un brano techno con un testo in inglese delirante – questo è il video scelto dall’autore.)

Nell’atrio, poi, c’è una demo di Hatsune Miku (se riesco faccio un filmato). Hatsune Miku è… ecco… insomma, c’è un software pazzesco chiamato Vocaloid che sintetizza un cantato partendo dal testo, dalla melodia e da alcuni campioni vocali, producendo un risultato indistinguibile dal vero. Poi c’è un modello 3-D di una bella ragazza in stile manga, disegnata con grande accuratezza – tra i video proiettati nella dimostrazione c’è “cinque minuti di modellazione 3-D del culo e della minigonna di Hatsune Miku” – e associata a tutta una serie di particolari di vita fittizi; cioè, siccome i giapponesi sono precisi, ti dicono esattamente quanto pesa, quanto è alta, quando è nata e così via, anche se si tratta di un personaggio immaginario. E poi, ci sono i video in cui questa bella ragazza – che però si capisce che è un robot musicale, perché le hanno disegnato la manopola del volume sulla minigonna e un equalizzatore sul braccio – canta canzoncine di vario genere.

Io sono certamente aperto alle nuove tecnologie, però questa è… oltre. Non so nemmeno oltre cosa, però è sicuramente oltre.

[tags]giappone, video, tecnologia, icommons[/tags]

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giovedì 31 Luglio 2008, 04:55

Sopraffatto

Sono stato qui solo per mezza giornata e sono già stato sopraffatto dal Giappone – in senso positivo.

Certo, resistere è inutile. Sul volo da Osaka a Sapporo ero l’unico occidentale. All’aeroporto di Sapporo ero l’unico occidentale. Sul treno dall’aeroporto al centro ero l’unico occidentale. Camminando per le vie del centro con i bagagli ero l’unico occidentale. Sulla metro per il centro conferenze ero l’unico occidentale. Insomma, almeno qui a Sapporo (immagino che a Tokyo sarà diverso) non c’è comunque scampo: sei obbligato a fare un bel respiro ed immergerti, e anche a beccarti ogni tanto qualche sguardo di sorpresa, come se d’improvviso nella via fosse apparso un orso polare.

Immergersi non è poi così difficile; per esempio, le terribili macchinette elettroniche vendibiglietti hanno in realtà anche il menu in inglese, e sono efficientissime: ho infilato dentro una di esse una banconota da 10.000 yen – circa 60 euro – e senza fare una piega mi ha stampato il biglietto e mi ha dato il resto ordinatamente diviso in una banconota da 5.000, tre da 1.000, e la moneta.

I giapponesi sono molto gentili; quelli che incontri normalmente – ovviamente alla conferenza è diverso – non parlano mai più di quattro parole di engrish, nemmeno quelli che lavorano all’aeroporto, ma sorridono e abbassano gli occhi. Ho il sospetto che il giapponese medio, più che disprezzare lo straniero, sia dannatamente timido, e con una notevole paura di “buttarsi” per evitare di fare brutta figura agli occhi del mondo, e quindi farla fare al suo paese. Per ora, rispondere al sorriso mi ha aperto tutte le porte, persino al temuto controllo immigrazione dove mi avevano detto che avrebbero fatto tante storie e che invece si è risolto in trenta secondi, naturalmente previa prelievo di foto e delle impronte digitali di entrambi gli indici.

Io sono un po’ nervoso a mia volta, avendo paura di mancare a chissà quale convenzione; ok, le mie calze sono quasi perfettamente intere e mi ripeto continuamente di non soffiarmi il naso, ma stavo per dimenticarmi di porgere il biglietto da visita con entrambe le mani!

Ieri ho completato il percorso aeroporto -> treno -> stazione -> piedi -> albergo -> check-in -> metro -> centro conferenze appena in tempo per aggregarmi al ricevimento serale, offerto dal sindaco di Sapporo. E’ stato un evento molto giappo, perché ad esso era associata la premiazione di un concorso per il miglior ristorante di sushi della città, con tanto di concorrenti, elegantissimi in vestito e cravatta oppure vestiti come i cuochi dei fumetti, che vengono chiamati sul palco a ricevere l’applauso e talora – a seconda della loro posizione gerarchica – a tenere un breve discorso, come il “presidente dei ristoranti taldeitali”; nemmeno i ristoranti possono scampare alla gerarchia con un presidente in cima.

L’assaggio finale di sushi c’era ma limitato, e in più non avevo voglia di andare all’assalto: mi sono quindi dedicato al resto del buffet, una serie di originali ricette che mescolavano cucina giapponese e internazionale, partendo da pesce e frutti di mare di ogni genere: una più buona dell’altra. Alla fine, in un angolo, ho trovato un roast-beef che si scioglieva in bocca e in più era condito con una salsa che ne rovescia l’essenza: è come se il roast-beef fosse fatto di rafano, e nonostante questo – e la conseguente urticazione della bocca – il risultato è ottimo! Idem per il calamaro scottato alla piastra, che all’esterno è carbonizzato e coperto di soia, ma solo per un millimetro – il resto è tiepido e cotto appena appena, davvero eccellente.

Ci siamo poi spostati in un vicino locale alla moda, una specie di discoteca-concerti, per il concerto: ed è stata un’altra immersione culturale. Avete presenti i film di Kitano? Ecco, noi siamo risaliti su per la via fino ad entrare in un elegante grattacielo con il pavimento di legno e i marmi alle pareti, nell’atrio del quale c’erano tre ascensori dalle pareti d’acciaio e di specchi, guardati a vista da due signori. Entrando, si sale fino all’ultimo piano, dove si esce direttamente nell’ingresso del locale: che è come fosse una media discoteca da noi, con il palco in fondo e l’angolo bar, un po’ come la sala sinistra dell’Hiroshima per capirci, ma sempre con marmi alle pareti e pavimento di legno lucido. In più, in un angolo, c’è la scala dalla quale si sale fino alla sala privata, una zona chiusa situata al piano di sopra rispetto al locale, ma con un’ampia vetrata che dà di sotto verso il palco: la classica stanza riservata con vista su tutto, dove il capo yakuza si incontra e viene poi sorpreso da Kitano o da qualche sicario nemico. Solo che Takeshi non si è fatto vedere; solo una tremenda performance di arte concettuale da San Francisco (40 minuti di luci e rumore che hanno messo a dura prova la resistenza di tutti) e poi un gruppo “ainu dub”, ovvero reggae suonato con costumi e strumenti tradizionali del posto.

E così, verso le dieci mi sono ancora fatto una passeggiata di un quarto d’ora attraverso il centro, per tornare all’albergo; anche questa mi ha colpito. Venivo dalle serate dublinesi, e così ho subito notato una serie di cose che sembravano strane:
1. Non piove e non fa freddo, anzi la temperatura è ideale, 18-20 gradi.
2. Ad ogni isolato c’è un piccolo supermercato aperto 24 ore su 24 – talvolta anche due per isolato, ma tutti delle stesse due o tre catene.
3. Il supermercato, in mezzo a interi armadi refrigerati di lattine di liquidi che non ho la più pallida idea di cosa siano e non lo voglio sapere, vende tranquillamente anche la birra.
4. Nonostante questo, per strada c’è folla ma non c’è neanche un ubriaco.

Così mi son preso coraggio: sono entrato nel supermercato, mi sono preso la mia bibita, ho aspettato che un cassiere mi gridasse “dos!” – che non è un sistema operativo ma “doozo” ovvero “prego” -, ho porto due monete da 100 yen, ho preso il resto stando ben attento a non guardarlo e ancora meno a contarlo – è grave maleducazione, è come dire che il cassiere è un ladro – e me ne sono uscito, a godermi delle insegne al neon così enormi che il ronzio si sentiva dalla strada, e delle luminarie così fantascientifiche che Times Square sta ad esse come gli addobbi natalizi della famiglia Simpson stanno a quelli della famiglia Flanders.

Insomma, pur avendo visto mezzo mondo, devo dire che il Giappone è forse il posto che mi è immediatamente sembrato più distintivamente diverso; pur essendo per molti versi una copia estremizzata degli Stati Uniti, così come per secoli lo fu della Cina, ci sono però elementi culturali totalmente alieni che ti sorprendono nei momenti più impensati. Il rapporto tra “noi” e “gli altri” diventa per i giapponesi quasi schizofrenico, perché da una parte si sentono un popolo superiore e baciato dagli dei, sin da quando la flotta di Kublai Khan, che li avrebbe schiacciati, fu spazzata via da un tifone; dall’altra però copiano ossessivamente i dettagli delle culture forti che incontrano, non solo cercando di rifarle ancora meglio, ma come desiderando di non essere se stessi: e quindi costruendo alberghi che sembrano castelli europei o grattacieli della Manhattan anni ’30, e supermercati con un brand da villaggio del Far West.

Spero di avere tempo di fotografare e pubblicare alcune di queste cose: sono spesso minuzie, ma ti danno il segno di un altro pianeta.

[tags]giappone, sapporo, viaggi[/tags]

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mercoledì 30 Luglio 2008, 09:06

Integrazione

Capisci che hai delle ottime speranze di integrarti passabilmente nella cultura locale – almeno da visitatore – quando, essendo entrato in Giappone da non più di cinque minuti e avendo in quel momento completato con successo la procedura per ritirare contanti dal bancomat, fai istintivamente un inchino alla macchinetta!

[tags]bancomat, procedure, integrazione[/tags]

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martedì 29 Luglio 2008, 01:49

Nouvelle cuisine

Irrici! Che caso d’ubriachezza molesta
mi féste diventare per la cena,
e già io vi arrivai in ritardo
per via del compleanno di Salvofan, e non importa
e poi anche perché su Google Maps
lo stesso sito del ristorante Le Chiuse
la bandierina segnaposto segna nel posto sbagliato.

E poi è un ristorante lento lento,
lento, lento lento, leeeeeeento
leeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeento
leeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeento
anche se il cibo era buono.

Finisce così all’una di notte
quando il taxi del mattino è prenotato alle cinque e quindici
(i locali volevano le cinque e dieci, ma i tedeschi si sono imposti)
(avevano sonno e li capisco)
insomma dormirò quattro ore
ché ora devo ancora fare la valigia.
Però, che pieghe dritte alla camicia!

Saluti di qui all’amico Lauri
l’uomo che inventò il Nokia Padellone
(quella roba grigia che si usava a fine anni ’90)
e poi inventò anche il Nokia Forum
che noi usammo in abbondanza per chiedere dettagli delle midlet
perché Java in pratica è un pacco e non funziona mai.

Chiedete a chiunque se funziona Java: non funziona!

Ho visto però in atto un Nokia nuovo
che fa da computer con Linux sopra
e insomma, il mio HTC fa anche le foto
ma non è la stessa cosa
affatto.

Devo piegare la cravatta? E che succede
se la cravatta poi è spiegazzata
già oggi sono stato zitto tutto il tempo
e non avrò certo impressionato
e bon, però la sorpresa di festa c’è stata
anche se ero due ore e mezza in ritardo. Càpita!

C’è solo più una cosa da ridire
mentre estraggo il nastro da pacchi per chiuder la valigia:

basta nouvelle cuisine, e che cavolo!

[tags]dublino, viaggi, ristoranti, quell’espressione un po’ così[/tags]

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domenica 27 Luglio 2008, 12:36

Una giornata per immagini

dublino-sequenza.jpg

P.S. Il fish & chips viene da Burdock’s, che sta al fondo di Temple Bar, dove la strada principale piega attorno alla chiesa gotica in cima alla salita; proprio lì, sulla sinistra, c’è una viuzza dove, praticamente all’inizio, si trova il posto con il miglior merluzzo & patatine del pianeta: è fatto con pesce fresco (niente surgelati) e, pur essendo unto a dovere, una volta addentato sa di pesce esattamente come se aveste preso il merluzzo e l’aveste fatto al forno. Di fronte, tra la chiesa e gli uffici comunali, c’è pure il giardinetto per mangiarlo a morsi (il posto infatti è un buco e fa solo asporto).

P.P.S.: Linate = Terzo Mondo.

[tags]viaggi, dublino, howth, fish & chips[/tags]

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venerdì 25 Luglio 2008, 19:21

Qui mancano gli standard

Sto partendo per un viaggio di 12 giorni (più due di viaggio): quattro giorni in ognuna di tre diverse città.

L’intervallo di temperature previsto nelle tre città è:

  • Dublino: minima 12 gradi, massima 18 gradi;
  • Sapporo: minima 19 gradi, massima 26 gradi;
  • Tokyo: minima 26 gradi, massima 33 gradi.

E in più devo anche calcolare una escursione sulle pendici del monte Fuji, a oltre duemila metri di altezza. A Dublino farò una riunione d’affari, ma anche una escursione collinare con probabile fango; a Sapporo devo tenere un discorso; a Tokyo farò il turista, ma forse riceverò anche un invito a cena.

Ora… ma come faccio io a far entrare in una sola valigia il guardaroba adatto per tutto ciò? Posso fare qualche compromesso, ma insomma, cari stranieri, mettetevi d’accordo: sarebbe il caso di adottare finalmente una temperatura standard uguale per tutto il mondo.

[tags]viaggi, temperature, valigie[/tags]

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