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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


domenica 25 Giugno 2006, 16:18

Et voilà

L’albergo in cui stiamo è classificato cinque stelle lusso, e dal sito sembra veramente fantastico. La verità, purtroppo, è che si tratta di una specie di vecchiotto villaggio vacanze per turisti francesi e spagnoli, con una irrimediabile atmosfera di Club Med, musica ad alto volume e allegria forzata.

In più, il tutto si esalta grazie a un servizio che associa la cortesia francese all’efficienza e all’organizzazione tipiche del mondo arabo. Stamattina, ad esempio, sul mio tavolo della colazione c’erano forchetta, coltello e tazza, ma mancavano tovagliolo e cucchiaino. Mentre prendevo il cibo dal buffet, è comparso il tovagliolo, ma non il cucchiaino. Così, quando dopo aver finito di mangiare ho dovuto zuccherare il caffè, ho preso la forchetta, l’ho girata dall’altro lato e col manico ho mescolato il caffè. Peccato che proprio in quel momento si sia materializzato il cameriere, che con impeccabile servizio, invece di darmi un cucchiaino, ha pensato bene di sgomitare un po’ per ritirarmi da sotto il naso il piatto sporco e il coltello.

Lasciandomi così bloccato, a bocca aperta, con una forchetta grondante di caffè in mano.

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sabato 24 Giugno 2006, 21:20

Parigi val bene 90 minuti di treno

Eccomi, comincerò a raccontarvi del viaggio, da Torino a Marrakech via entrambi gli aeroporti di Parigi.

Il primo volo da Torino a Parigi è un teorico Air France; teorico, perchè (visto l’inarrestabile declino dell’appeal europeo di Caselle) è ormai svolto da una compagnia secondaria, con un aereo che dimostra almeno quarant’anni. Difatti, raramente ricordo di aver ballato così; certo, le ondate di calore non aiutano, ma mi faccio un viaggio piuttosto nervoso. In compenso, per una volta non ci sono nubi, e mi vedo in sequenza il Piemonte, le Alpi, il lago di Ginevra, e poi la pianura francese. Arriviamo a Parigi un po’ in ritardo.

Il terminal 2D di Charles de Gaulle è ancora in piedi; l’orgoglio francese è per il momento salvo. Tuttavia, ieri Parigi era tipicamente francese: inefficiente come l’Italia, ma con molta più spocchia. Le scale mobili di CDG sono rotte; alla stazione della RER si va a piedi, e un paio dei tapis roulant sono rotti anch’essi. Delle otto biglietterie automatiche, tre sono rotte, e le altre accettano soltanto monetine o carte di credito francesi, quelle col chip. “FRANCESI” è specificato su un foglio di carta aggiunto e sottolineato con ardore; ma non me la prendo, so che lo fanno essenzialmente per gli americani, che sono carta-di-credito-dipendenti. E quindi, mi tocca la coda alla biglietteria umana, per pagare soli 16,90 euro sola andata per un’oretta di metropolitana più trenino dalla RER a Orly. In compenso, però, almeno uno dei quattro sportellisti parla inglese; pertanto lo lascio al signore americano che cerca invano di capire il sistema di abbonamenti e zone della metro parigina.

Recuperato il biglietto, bisogna passare i tornelli (operazione di fronte alla quale una famigliola portoghese si arrende sconfitta; ma insomma, basta infilare il biglietto lì e riprenderlo là, suvvia…) e poi scegliere il treno giusto; sono tutte RER B, ma solo la metà ferma ad Antony, dove devo scendere per la coincidenza.

Salgo sul treno e comincia una specie di odissea, insieme a una bella ragazza polacca sommersa dalle borse e poi accerchiata dai banlieusards che salgono nelle stazioni intermedie. Il tempo stimato per tutto il percorso è di un’ora, ma dopo mezz’ora passiamo sotto la Gare du Nord, e siamo solo a un terzo. Il treno si riempie, e davanti a me si siede una signora nera con una bambinetta incontenibile, che comincia a rovesciare calci e pugni dappertutto; ma è molto simpatica.

Ad Antony si scende, e si percorre tutta la piattaforma fino in fondo, dove c’è la stazione dell’Orlyval; sì, come dice il nome, è proprio un’altra istanza della metropolitana dei puffi che ora abbiamo anche noi a Torino. Collega la RER ai due terminali di Orly, Ouest e Sud; attimo di panico, ma poi noto una piccola S accanto a Paris Orly sul mio biglietto e capisco dove devo andare. La VAL ha le carrozze piccole, ma tira parecchio; in pochi minuti siamo al vecchio aeroporto di Parigi. Peccato che ci abbia messo quasi due ore in tutto…

Dovete sapere che a Parigi gli aeroporti sono rigidamente suddivisi per razza; al nuovo, luccicante, moderno Charles de Gaulle i voli per l’Europa, l’America e l’Asia, pieni di uomini d’affari e turisti d’alto bordo; al vecchio, fatiscente e semiabbandonato Orly i voli per i negri, gli arabi e gli straccioni del low cost. Scopro così un po’ di nuove compagnie aeree (Air Burkina??) e, facendo lo slalom tra cartongesso cadente e poltroncine anni ’70, mi avvicino al check-in del mio volo, che sarebbe un Corsair (compagnia francese che serve Africa e Caraibi), ma si rivela in realtà un Jet4You.com. Voi vi fidereste a volare con una compagnia di tal nome? Io mi sono fidato.

Attendo il volo al ristorante del terzo piano, desolante nel suo semiabbandono; si distingue per un chiosco di “pasta italiana” dallo sconcertante slogan “Pasta… e tutti!” (ma cosa avranno voluto dire?). Mi redirigo sul cuscus, e perdo dieci minuti di coda dietro a un gruppo di otto africani diretti in Congo (cinque dei quali bambini, come da perfetta statistica del continente); hanno avuto il pasto gratis per ritardi, ma non sanno bene che fare, mentre i bambini giocano a tirarsi tra loro il pane in testa (pane che poi viene prontamente rimesso nel cestino per i clienti successivi). Al tavolo, però, incontro il mio collega di meeting americano, Milton Muller, che sembra più spaesato di me.

Facciamo la fila insieme, ma ci separa il controllo passaporti, dove per gli europei c’è una fila di venti minuti abbondanti. Sono ormai quasi le nove, e improvvisamente tutti diventano scortesi (beh, no: sono scortesi di default, in quanto francesi, ma diventano ancora più scortesi del solito). Ci metto un po’, poi capisco il motivo: stasera gioca la Francia! Il volo parte in ritardo, pare per mancanza di personale a terra per preparare il gate (chissà quanti si sono dati malati stasera…). L’aereo però è più che decente, meglio dell’Air France del primo volo. Ci danno persino una pseudocena mangiabile, per quanto confezionata il giorno prima (insalata di pasta, simil-tofu alle verdure e un dolcetto buonissimo). E poi, la chicca: a un certo punto si apre l’altoparlante e il pilota esclama: “Signori, sono il pilota, sono lieto di annunciare che la Francia è passata in vantaggio!” Ovazione! Ma mai come l’ovazione di quando ha annunciato il raddoppio… penso che su tutto lo spazio aereo franco-mediterraneo le torri di controllo ritrasmettessero la partita invece che le informazioni di volo.

L’atterraggio è stato tranquillo, e Marrakech in notturno dall’alto è molto bella. Naturalmente, recuperare i bagagli è stata un’impresa: ci sono due moli, su cui i bagagli vengono sparpagliati a caso, un po’ sul numero 1 e un po’ sul numero 2, finchè ci stanno; così decine di persone corrono da uno all’altro cercando di trovare le valigie di qua o di là, o più spesso un po’ di qua e un po’ di là.

All’uscita c’è un grande cartello “TAXI – 50 dirhams”, ma i taxi non sono in fila, nè sono distinguibili; ce ne sono di varie fogge e colori, parcheggiati a caso davanti al terminal, e gli autisti si contendono i clienti. Io ho chiesto a tre diversi, ma non ne ho trovato uno che accettasse meno di 200 dirham (20 euro), e così ho detto: va bene, basta che mi dia una ricevuta. Il modo di averla, naturalmente, è stato pagare in anticipo il mio autista, perchè lui pagasse un tassista ufficiale, che facesse la ricevuta, che poi finisse a me. Però alla fine mi ha portato nel posto giusto, intrattenendomi su quant’è bella l’Italia, dove lavorano due suoi fratelli.

Ma di Marrakech vi parlo nella prossima puntata!

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sabato 24 Giugno 2006, 16:53

Il primo impatto

Sono arrivato, e appena posso vi manderò un po’ di racconti del viaggio e del primo impatto con Marrakech.

Per ora solo una nota: prima di andare in un posto, assicuratevi di accertarne il fuso orario prima di partire… altrimenti potrebbe succedere di arrivare a notte tardissima, venire messi in una camera priva di qualsiasi orologio, avere un televisore che mostra solo canali stranieri, tirare a indovinare il fuso, e alzarvi al mattino un’ora prima del dovuto :-)

Una nota di biasimo iniziale per gli organizzatori, per spiegare la mia scarsa assiduità nei post: va bene che i requisiti di ICANN dicono che bisogna assicurare a tutti i partecipanti connettività wireless gratuita “almeno nella lobby dell’albergo”, ma da qui a piazzare un unico e solo access point nel bel mezzo dell’atrio, in un posto scientificamente scelto in modo da non avere posti a sedere, e con la potenza tarata al minimo in modo che già a dieci metri di distanza non prenda più – il tutto per vendere meglio l’ubiquo e costosissimo accesso wi-fi a pagamento dell’albergo stesso – ce ne passa.

D’altra parte, il giro mattutino in centro città mi è costato una settantina di euro in acquisti “raccomandati” con prezzo fai da me e in guide turistiche autoingaggiatesi; diciamo che termini come “commerciante”, “caos”, “bassifondi” e “fregatura per turisti” sono stati completamente ridefiniti in sole tre ore di visita in Marocco; l’asticella è stata spostata di parecchi ordini di grandezza. Ma di questo avrò modo di raccontare più tardi: ora scappo a vedere Germania-Svezia con la pattuglia tedesca.

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martedì 6 Giugno 2006, 20:53

Concorrenza in percorrenza

Quando arrivate a Manchester, c’è una cosa che subito vi colpisce. Non è un monumento e nemmeno una persona; è il trasporto pubblico.

A Manchester, non solo il trasporto pubblico è privato; ma, a differenza di Londra, hanno deciso di applicare fino in fondo il sacro principio di Adam Smith, e di promuovere una vera concorrenza.

La linea 42 – il numero, penso, non è scelto a caso – e le gemelle 43, 44, 45, 46 fanno su e giù lungo uno dei principali assi di scorrimento: la Oxford / Wilmslow Road, una strada nord-sud che collega il centro, la zona universitaria, e una serie di sobborghi dove vivono gli studenti (l’Università, difatti, è diventata la principale industria cittadina, dopo la chiusura delle grandi fabbriche).

E così, questa linea cruciale è servita non da una, non da due, ma da ben quattro compagnie diverse: tutte e quattro mandano i giro i propri autobus 42, tutti di colore diverso, tutti in lotta per caricare passeggeri.

Già, perchè se andate a vedere il sito ufficiale del trasporto mancuniano, troverete meravigliose descrizioni di pass, abbonamenti, orari. La realtà, però, è molto diversa: ciascuna azienda emette i propri biglietti, tra di loro incompatibili (altrimenti che concorrenza sarebbe?). L’utente, quindi, può scegliere quale autobus abbordare e a chi pagare il proprio biglietto.

Da una parte, il sistema ha l’effetto sperato: il servizio è continuo, perchè ciascuna di queste compagnie tenta di mandare per strada il maggior numero possibile di autobus, in modo da catturare più clienti; e le tariffe sono basse, tre sterline per un settimanale (a Londra un singolo viaggio in metro ne costa due).

Vi sono però anche altri effetti. La strada è stretta, a una sola corsia per senso di marcia, e piena di curve, scorre tra case e passaggi pedonali e auto parcheggiate; in tutto questo, questi enormi autobus a due piani fanno a portellate per passare, cercando di superarsi l’uno con l’altro per essere più veloci. Fermano un po’ dove capita, come gli viene comodo. E poi, al posto di un autobus ce ne sono quattro, ciascuno dei quali solitamente semivuoto; la strada si intasa subito, senza parlare del costo ambientale.

E naturalmente, essendo autobus per studenti e dovendo contenere i costi, gli autobus sono luridi, vecchissimi e scassatissimi; si dice che le compagnie del posto acquistino gli autobus che, dopo quarant’anni di servizio, a Londra stanno buttando via.

Infine, è inutile aspettarsi orari prevedibili; i pullman passano quando capita – ma spesso, alle fermate più frequentate, si fermano ed aspettano per parecchi minuti, in modo da riempirsi un po’ e non fare il viaggio a vuoto. D’altra parte, abbiamo dovuto attendere l’autobus per l’aeroporto quasi mezz’ora: in teoria un autobus su due dovrebbe andarci, in pratica quasi tutti accorciano il percorso solo ai sobborghi più popolati, perchè l’aeroporto è lontano lontano.

Insomma, alla fine non ho un giudizio definitivo su questo sistema, ma credo di preferire ancora il buon vecchio trasporto pubblico unificato e gestito dallo Stato…

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domenica 28 Maggio 2006, 12:10

Francoforte

Stasera (ieri sera per chi legge, visto che non c’è il wi-fi in camera e manderò il post in differita) sono a Francoforte, per un meeting domenicale dell’At Large europea, che è stato appositamente convocato in un giorno festivo e in un luogo più o meno centrale, e ben connesso via aerea, del continente.

Sono partito di corsa al pomeriggio, dopo una mattinata in cui dieci persone volevano dieci cose da me tutte allo stesso momento, e un pranzo finalmente piacevole ma devastante per il mio stomaco (perchè se non mi stendo di vino potrò almeno stendermi di cibo?). E poi, una corsa selvaggia a 180 all’ora in tangenziale per essere a Caselle per tempo (13 minuti netti da casa, di cui uno e mezzo perso all’unico semaforo del percorso), solo per scoprire poi che oggi pomeriggio l’aeroporto era insolitamente deserto. E così, eccomi qui.

Certo, è sempre strano essere in un posto di cui non si parla la lingua. Io ho cominciato a imparare il tedesco da bambino, ai tempi del C=64, quando ottenni per vie traverse il mio primo compilatore Pascal, e con orrore scoprii che era completamente e solo in tedesco. Lì scoprii le basi minime per orientarmi, tipo la sottile ma fondamentale differenza tra ein, kein e nein; e col tempo ho imparato a cavarmela almeno con la lettura. Il tedesco non è troppo difficile da interpretare, magari con un po’ di orecchio per la derivazione inglese – e qui va una nota di merito alla semplicità anglosassone, prendendo ad esempio termini come next e nächst che si pronunciano allo stesso modo e vogliono dire la stessa cosa, ma per cui il tedesco richiede una ortografia annurca. Ma capirlo sentendolo parlare è un’altra cosa.

E così, anche stasera sono un po’ dentro il solito effetto Lost in Translation: in cui è come se improvvisamente il mondo fosse cifrato in ROT13, e tutto intorno a te divenisse poco e difficilmente comprensibile, lasciandoti solo e insieme egualmente vicino a tutti quelli che passano. Solo che negli alberghi dove vado io non c’è mai Scarlet Johansson, ma solo gruppi di giapponesi e un pullman di russi, che vorrei diplomaticamente salutare al grido di “Oh Dimitri, ne hai fatta cento litri” ma sono da solo e il coro non verrebbe bene.

L’effetto è comunque raddoppiato nel mio giro alla stazione, dove cerco qualcosa per cena. A dire il vero pensavo di mangiare il piatto tipico tedesco, il döner kebab, ma non ho saputo resistere a un bratwürst + brötchen (il panino con il wurstelone che scappa da ambo i lati). E poi, il supermercato aveva l’ottima birra Köstritzer, la versione tedesca della Guinness, solo più acquosa e più amara, scoperta alle Olimpiadi a casa Turingia. E’ stata comunque intensa la sensazione di attraversare con un wurstel in mano l’umanità varia che popola una grande stazione, in più con una vista da scena finale di film, con il tramonto arancione e lontano in fondo ai binari già illuminati ma quasi interamente vuoti, e con i tabelloni luminosi a sottintendere il ricordo di qualcosa che è partito, o l’attesa per qualcosa che forse prima o poi arriverà.

Non è poi così bello viaggiare all’estero per lavoro, se uno lo fa troppo spesso (e ci sono peraltro molte persone che lo fanno ancora più spesso di me). Ma non è nemmeno così male, dopo una bella doccia, stare disteso sul letto in pigiama a guardare l’amichevole Francia-Messico, con Rudi Völler che parla misteriosamente in tedesco anzichè in romano. Solo, mi manca avere qualcuno a cui raccontarlo, a cui mandare un messaggio per dire come va; e mi manca, in fondo, la persona con cui mi piaceva viaggiare.

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