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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


venerdì 15 Gennaio 2010, 16:02

Quando lo Stato si sbriciola

In altri tempi, l’idea che migliaia di marines americani sbarcassero in un paese del Centro America per sostituire la polizia locale e prendere il controllo dell’ordine pubblico avrebbe fatto gridare all’imperialismo e al colpo di stato (e infatti, quando s’aveva da fare, Washington si limitava a mandare la CIA e fornire soldi, addestramento, armi e propaganda; non interveniva certo in prima persona). Oggi ad Haiti, invece, ciò è accaduto ed è stato percepito come la cosa più naturale possibile, tanto che persino Cuba ha collaborato aprendo lo spazio aereo ai trasporti di emergenza.

Più che l’effetto del Nobel per la Pace (ricordiamo, uno dei più ridicoli della storia) e di un mondo dove i confini nazionali vanno davvero svanendo, deve essere una conseguenza dell’entità del disastro, davvero immane. I giornalisti ci ricameranno anche su, ma le cronache della situazione di sbando sono davvero impressionanti.

Per noi che siamo lontani e col sedere al caldo, è un bell’ammonimento: tutta la vostra società può venire sbriciolata in un attimo. Ad Haiti non sono soltanto crollate le case; si è dissolto il governo, non ci sono più i ministri e i parlamentari e nemmeno i ministeri e i relativi archivi di documenti; è morto l’arcivescovo ed è distrutta la cattedrale; è morto il capo tunisino della missione ONU ed è completamente svanito il suo quartier generale. L’unica cosa che ha retto – penso le costruiscano col piombo – è l’ambasciata americana.

Ma, in assenza dei marines, tutte le regole della civiltà non esistono più. La proprietà è un concetto vago, dato che quella immobiliare è distrutta e quella mobiliare è saccheggiata a piacimento. La salute è impossibile da garantire, dato che gli ospedali non esistono più. Della sicurezza non parliamo; chiunque può girare con un’arma e fare abbastanza quello che vuole. La società è resettata; vige semplicemente l’ognuno per sé.

O meglio, un’isola di civiltà pare essere rimasta: Moncalve, il quartiere dei ricchi in cima alla collina (almeno così dice La Stampa e non se ne può sapere di più, visto che una ricerca su Google per “moncalve haiti” restituisce soltanto copie dell’articolo in questione; se questo quartiere esiste, nessuno ne ha mai parlato su Internet e non compare nemmeno sulla mappa). Non sarebbe una cattiva metafora, quella dei ricchi sulla collina che dominano la distruzione. Immagino però che la loro tranquillità, in condizioni del genere, potrebbe durare poco… a meno che non arrivino i marines.

[tags]haiti, terremoto, disastro, la stampa, giornalismo, civiltà, ordine pubblico, marines[/tags]

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domenica 3 Gennaio 2010, 15:01

La vera orgia natalizia

Come avrete notato, io sono un antifestivo; nel periodo natalizio-capodannesco, non mi dedico particolarmente a scambiare auguri o regali. Faccio volentieri un augurio collettivo tramite blog o Facebook, ma non riceverete da me SMS precotti, mail animate o applicazioni festive da social network; questo non perché non ci tenga, ma perché l’affetto per le persone si dimostra nella sostanza e tutto l’anno, non nella forma con una serie di click.

Lo dico perché, come immagino tanti di voi, ho passato i primi giorni dell’anno a mettere a posto; oltre alla tradizionale orgia contabile di fine anno, in cui si classifica e si archivia la corrispondenza in attesa da mesi, c’è da risistemare i più recenti residui delle feste. E, anche avendo limitato al minimo la materialità del festeggiamento, sono rimasto colpito da quanti rifiuti mi si sono palesati in casa.

Sacchi, sacchetti, sacconi, pacchetti, carta colorata di ogni genere, fiocchetti, scatoloni, vassoi di cartone usa e getta, con la loro brava imbottitura di carta, di plastica, di polistirolo; bottiglie di vino in regalo, impacchettate in un cartone che dentro ha un altro cartone sagomato e ritagliato per tenerle ferme; scatole di panettone con dentro il sacchetto del panettone e la base del panettone; sacchetti di cioccolatini che contengono delle piccole confezioni di plastica le quali dentro hanno una seconda confezione d’alluminio che contiene il cioccolato; e in generale tutte le confezioni dei cibi, anche qui carta, plastica, alluminio, vetro. Un’orgia di rifiuti che è almeno il doppio più voluminosa dei regali (talvolta anch’essi inutili e destinati alla discarica) che ha contenuto; per giungere spesso all’assurdità della carta da regalo o della confezione utilizzata per un tempo netto di mezz’ora – si incarta, si consegna, si scarta e si butta via.

Naturalmente tutto ciò mi è stato dato con la massima buona volontà, anzi l’attenzione nell’estetica del pacco è segno di attenzione per il destinatario del regalo. Ma sarebbe davvero il caso di pensare che il vero regalo può anche non essere impacchettato, infiocchettato, insacchettato, inscatolato, imbellettato, o se lo deve essere lo può essere con parsimonia e con attenzione ad evitare lo spreco e l’inutile. Un regalo così, oltre che fare del bene al destinatario, fa del bene anche al mondo che ci sta attorno. Di questi tempi, mi sembra proprio un bel regalo.

[tags]regali, rifiuti, imballaggi, natale, feste, riciclo[/tags]

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martedì 1 Dicembre 2009, 23:49

Discorso tipico dello schiavo

È tutto il giorno che non mi viene in mente nulla da bloggare… poi ho trovato questo bel discorso di Silvano Agosti: forse sono ovvietà, o forse non ci avevate mai pensato.

P.S. Sempre in tema di verità poco ortodosse, vi ricordo domani (mercoledì) sera la conferenza di Eugenio Benetazzo.

[tags]silvano agosti, libertà, schiavitù, società, lavoro[/tags]

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giovedì 26 Novembre 2009, 17:17

Il resto del pianeta

I bambini di oggi, almeno nelle città, spesso nascono e crescono in maniera iperprotetta. Passano il tempo tra un impegno e l’altro, scarrozzati in auto di qua e di là, tra una scuola, una palestra e un corso di qualche cos’altro. Quando non sono in giro, sono chiusi in casa davanti a un computer o a una console. E se sono in giro, sono sempre sotto controllo tramite il telefonino, tranne quando lo usano per scaricare suonerie o per giocare. Sono, insomma, sempre chiusi e isolati dall’ambiente circostante, che viene considerato come una fonte di pericolo, piena di rischi, di malintenzionati e di brutte avventure.

C’è, però, un momento in cui il bambino esce dal ciclo casa-scuola-playstation: il momento del viaggio. Un viaggio di una certa lunghezza, fuori città, costringe bambini e ragazzi ad accorgersi dell’esterno. In auto, infatti, non c’è molto da fare; e sono ben poche le famiglie in cui un viaggio diventa una occasione per una lunga conversazione. Mentre il papà guida e la mamma ascolta la radio, privi dell’elettronica e dell’abbondanza di ammennicoli che caratterizza molte camerette, sul sedile posteriore i bambini non possono fare altro che guardarsi attorno e scoprire il mondo; vedere la campagna, la montagna, gli animali, il paesaggio, il cielo.

Ma forse è meglio dire “c’era”. Non solo perché cellulare e playstation portatile già da anni colpiscono anche in auto, ma perché in questi giorni ho visto partire le campagne pubblicitarie dell’ultimo ritrovato da ammiraglia familiare: lo schermino sul retro dei sedili anteriori, che permette ai giovani virgulti di rincoglionirsi davanti a un DVD o a un giochino anche durante l’ora di viaggio verso le piste da sci o la casa al mare.

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Suppongo che sia un passo avanti necessario, per crescere generazioni di persone con il terrore di qualsiasi contatto con la terra, la paura delle malattie più fantasiose e l’intima convinzione che la verdura cresca nei sotterranei del supermercato, direttamente in cassetta; certi che l’habitat naturale di un cane sia un appartamento al terzo piano. Persone per cui la parte di pianeta non urbanizzato sia soltanto un fastidioso elemento di ritardo tra Milano, Milano Marittima e Courmayeur, o altri posti che, pur trovandosi fuori dalle metropoli, dispongano di condomini di almeno cinque piani e di una strada principale rigorosamente intasata di auto; un “resto del pianeta” da attraversare sempre più velocemente e sempre più indifferentemente, avendo come massimo momento di interesse l’acquisto di una rustichella all’autogrill.

[tags]terra, campagna, bambini, televisione, educazione, natura[/tags]

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sabato 21 Novembre 2009, 17:06

Giornalismo, retorica, corruzione e Africa

Louis Farrakhan è un personaggio, per usare un eufemismo, molto controverso: è uno dei leader storici della Nation of Islam, il movimento religioso più estremista dei neri d’America, che predica idee come la separazione dei neri dai bianchi in uno stato indipendente, e che racconta che il suo profeta fondatore, incarnazione di Allah, nel 1934 è assurto su un UFO che da allora gira invisibilmente attorno alla Terra. E’ anche considerato il mandante morale dell’omicidio di Malcolm X, considerato troppo moderato.

Tuttavia, anche se un po’ datata, la sua risposta all’intervistatore di 60 Minutes che gli chiede della corruzione in Nigeria e nei paesi africani è uno dei momenti tipicamente alti del giornalismo americano: da una parte un giornalista che non si fa problemi a fare domande dirette e imbarazzanti e ad insistere senza farsi impressionare dalla retorica, e dall’altra una risposta carismatica che, pur arrivando pericolosamente vicina alla legge di Godwin, grida “pwned” da tutte le parti.

Naturalmente, su Facebook il video è pieno di commenti esultanti ed orgogliosi da parte di nigeriani…

Wallace: You go to Nigeria, which is, if not the most corrupt nation in Africa, and it is, it could be the most corrupt nation in the world, Minister Farrakhan…

Farrakhan: Oh, now, Mister Wallace!

Wallace: …it is the most corrupt nation that I have ever covered, I’ve been there 25 years ago and I’ve been there as recently as last year.

Farrakhan: Fine! So what? 35 years old! That’s what that nation is. Now here’s America, 226 years old, you love democracy, but there in Africa, you’re trying to force these people into a system of government that you just have accepted – 30 years ago, black folk got the right to vote. You’re not in any moral position to tell anybody how corrupt they are. You should be quiet, and let those of us who know our people go there and help them to get out of that condition, but America should keep her mouth shut wherever there is a corrupt regime, as much hell as America has raised on the Earth. No, I will not allow America, or you Mr. Wallace, to condemn them as the most corrupt nation on Earth, when you have spilled the blood of human beings. Has Nigeria dropped an atomic bomb, and killed people in Hiroshima and Nagasaki? Have they killed off millions of native Americans? How dare you put yourself in that position as a moral judge? I think you should keep quiet, because with that much blood on America’s hands you have no right to speak. I will speak, because I don’t have that blood on my hands. Yes there is corruption there, yes there is mismanagement of resources, yes there is abuse, there’s abuse in every nation on Earth including this one! So let’s not play holy or moralize on them, let’s help them.

Wallace: I’m not moralizing, I’m asking a question, and I’ve got an answer.

Farrakhan: Why would you put it as the most corrupt regime in the world? That doesn’t make sense.

Wallace: Can you think of one more corrupt?

Farrakhan: Yeah, I’m living in one. I’m living in one, yes! You’ve done a hell of a thing on this Earth, so you should not be the one to talk. You should be quiet, when it comes to moral condemnation.

[tags]intervista, giornalismo, farrakhan, wallace, 60 minutes, america, neri, razzismo, islam, corruzione, africa, nigeria[/tags]

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martedì 17 Novembre 2009, 11:32

Perché in Italia non si fa la rivoluzione

Il filosofo Umberto Garimberti e padre Alex Zanotelli spiegano qual è il vero potere che controlla la società. Al di là delle conclusioni personali inserite nella seconda parte del video da chi lo ha fatto, quelle dei due intervenuti mi sembrano osservazioni interessanti e molto centrate.

Per chi volesse saperne di più, mercoledì 2 dicembre (ore 21 al Teatro Araldo di via Chiomonte 3/a) Torino a 5 Stelle presenta il telepredicatore finanziario Eugenio Benetazzo, che nel suo spettacolo spiega a suo modo le dinamiche dell’economia mondiale. Non ho mai visto lo spettacolo e non so se sarò d’accordo con tutte le sue conclusioni (del resto, non ho nemmeno comprato la biowashball) ma ne ho sentito parlare bene da chi l’ha già visto. Il biglietto costa 7 euro, una parte va a lui (che di questo ci vive) e una parte va a pagare le spese del teatro e, se ci avanza qualcosa, a finanziare l’associazione. Ecco una piccola anteprima:

[tags]economia, rivoluzione, italia, wto, banca mondiale, garimberti, zanotelli, benetazzo[/tags]

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martedì 10 Novembre 2009, 11:28

Novecento (1)

Naturalmente vorrei anch’io, in questi giorni, scrivere qualche pensiero per il ventennale della caduta del Muro, sollecitato dall’attenzione generalizzata di questi giorni. Sono però malato, per cui vi dovrete accontentare di qualche appunto sparso ogni tanto.

La caduta del muro è in realtà la fine della seconda guerra mondiale: la seconda parte del Novecento è davvero una appendice quarantennale di guerra gelida progressivamente disciolta, vinta non con le armi ma parte per fame e parte per darwinismo: nulla batte il mercato come sistema per promuovere l’innovazione, dunque a lungo andare i sistemi ad economia centralizzata sono rimasti sempre più indietro, tecnologicamente e socialmente, fino a crollare.

Qualcosa della seconda guerra mondiale, è vero, tuttora resta, partendo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ma vedrete che più prima che poi cambierà pure quello, anche se sarà l’ultimo mattone. Il resto sono frattaglie, talvolta con effetti che, non fossero seri, tendono all’esilarante: per esempio a tutt’oggi il Liechtenstein si rifiuta di riconoscere la Slovacchia come stato sovrano e viceversa, per via delle proprietà liechtensteinesi in Cecoslovacchia confiscate dal regime comunista subito dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Se gli anni ’70 (su cui magari torneremo nei prossimi giorni) sono stati il periodo della lotta impegnata, gli anni ’80 sono stati quelli del “rush finale” verso il traguardo ormai vicino. Le ideologie, apparentemente più forti che mai, già stavano morendo in mezzo alle “metropoli da bere” e al gigantismo plasticato. Ed è per questo che per capire il clima che portò alla caduta del muro ho ripescato una chicca che apparentemente c’entra poco.

Era il 1985 e per capire che anno fosse vi dico solo due date: marzo 1985, We Are The World; luglio 1985, Live Aid. Dopo due cose così, era chiaro come la musica fosse la nuova propaganda dell’Occidente, e gli artisti friggevano per essere generosi. E dunque, a fine anno, uscì questo:

Artists United Against Apartheid era il progetto di Little Steven – storico chitarrista di Bruce Springsteen – contro il casinò-villaggio vacanze sudafricano di Sun City, una roba che oggi considereremmo mostruosa per l’impatto ambientale, ma che vent’anni fa era mostruosa perché riservata ai vizi dei ricchi bianchi, tra i quali figurava in modo prominente l’ascoltare concerti di Cher.

Godetevi questo video, con Bruce vestito da Fonzie che cammina per la strada, Lou Reed in mezzo a due camionisti che passavano di lì per caso, Bono col pizzetto e una pettinatura improbabile (ma che voce!), Ringo Starr che suona la batteria col figlio ragazzino, i primi rapper di una tristezza indicibile… A tratti sembra una imbarazzante demo di un sistema di videomontaggio, di quelle dove ogni effetto disponibile deve essere sfruttato almeno tre volte per dimostrare la straordinaria potenza della macchina (all’epoca l’impatto doveva essere mozzafiato). Ma tutto faceva brodo, in una ondata di buonismo sincero, in cui il credere di poter cambiare il mondo finì, una volta tanto, per cambiarlo davvero.

Ecco, questo era il clima che portò il muro a cadere. Gli amanti del comunismo si lamentano spesso che quel clima fosse falso, che sotto sotto ci fossero i soldi e gli interessi industriali. E’ vero, ma relativo; perché non c’è alcun dubbio che, con tutti gli enormi limiti dell’attuale situazione politica globale, rispetto a vent’anni fa il nostro sia oggi davvero “un altro pianeta”, dove le guerre sono affari locali anziché planetari, e dove tutti gli uomini di buona volontà possono conoscere e apprezzare tutti gli altri. Dunque, come in tutte le cose umane, ci tocca tollerare il fatto che esse incorporino necessariamente delle belle contraddizioni.

I Queen, per esempio, nel 1985 andarono a Wembley per il Live Aid e, contro la fame nel mondo, diedero quella che è generalmente considerata la più grande performance live di tutti i tempi. Un anno prima, erano andati a suonare a Sun City.

[tags]muro, berlino, novecento, storia, comunismo, musica, concerti benefici, sun city, apartheid, sud africa, little steven, bruce springsteen, lou reed, bono, queen, live aid[/tags]

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domenica 1 Novembre 2009, 23:26

Barri de puta

Stasera si è concluso il Free Culture Forum, anzi non proprio, nel senso che sta andando avanti in queste ore su un wiki il lavoro di stesura della dichiarazione finale; naturalmente tutte le persone di normale approccio alla vita, dopo tre giorni passati a discutere di politica e società per circa 14 ore al giorno, sono già uscite e andate a cena o ripartite per tornare a casa, dunque a scrivere il testo sono rimasti solo quelli che fremono dal desiderio di fare la rivoluzione, stampando parole di fuoco sulle loro tastiere a favore del reddito di cittadinanza e dell’idea che gli artisti debbano essere retribuiti dallo Stato esattamente come i dottori dell’ospedale; confido però che nella fase di discussione online dei prossimi giorni gli entusiasmi ideologici verranno un pelino temperati.

In parte credo che ciò derivi anche dal posto in cui ci troviamo, in pieno Barrio Chino: la parte tradizionalmente più degradata e pericolosa della città. Negli ultimi vent’anni – quelli della rinascita cittadina post-olimpica – la strategia delle autorità per gestirla è stata radicale: in una zona di vicoletti e bassifondi, costituita da palazzi di parecchi piani di metà e fine Ottocento separati solo da un paio di metri scarsi di stradina, sono stati abbattuti interi isolati per trasformarli in enormi piazze, o per sostituirli con un viale o con enormi edifici moderni, che vanno da un parcheggio rotondo foderato d’acciaio al grande complesso del museo d’arte contemporanea.

Il risultato è straniante: un San Salvario all’ennesima potenza, dove ristoranti nuovi ed elegantissimi convivono fianco a fianco con vecchi portoni graffitati e occupati da call center per immigrati, e dove le finestre degli antichi bassifondi non danno più sul vicoletto e sul palazzo di fronte, ma su larghe strade e poi su nuovi edifici di vetro e muratura perfettamente à la page.

Peccato che il collegamento tra il nostro albergo – una residenza universitaria pessimamente gestita – e l’ex negozio di alimentari dove ha sede l’organizzazione, in cui ci troviamo per pasti e riunioni, sia dato dal Carrer d’En Robador, la via del ladro, occupata giorno e notte da una densità abnorme di puttane, con il relativo magnaccia che le osserva appoggiato al muro a qualche metro di distanza. Tra ieri e oggi l’abbiamo percorsa tutta, avanti e indietro, parecchie volte: la prima parte ancora vicoletto buio pieno di piscio, la seconda più larga, moderna e pavimentata di fresco. Questa seconda parte è rimasta accanto a una gigantesca devastazione comunale in futura ricostruzione, per ora costituita solo da un solitario condominio, al cui piano terreno si trova un finto fried chicken che nonostante gli sforzi proprio non riesce a sembrare americano. Bene, ogni volta i nostri tre minuti di passeggiata sono stati uno spettacolo di donne urlanti, borsette che volavano e clienti riluttanti aggrediti al grido di “¡maricón de mierda!”. Ma non preoccupatevi, basta tirare dritto per la propria strada, salvo quando è occupata da persona che corre in direzione opposta senza guardare dove va – in tal caso meglio scansarsi.

[tags]barcellona, free culture forum, barrio chino, degrado, prostituzione[/tags]

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sabato 31 Ottobre 2009, 21:02

Discorsi sulla cultura libera

Il mio lavoro di oggi al Free Culture Forum è stato quello di rapporteur del sottogruppo numero 2 del gruppo di lavoro sulle “logiche organizzative e politiche della cultura libera”. Il gruppo di lavoro comprendeva oltre a me una quindicina di altri invitati di vario tipo e provenienza, come Jamie King, David Bollier, Hilary Wainwright, Marco Berlinguer e tanti altri; a un certo punto ci siamo divisi in sottogruppi e a me e Hilary è toccata la riflessione sulla seguente domanda: “ma esiste veramente un movimento per la cultura libera”? Ossia: c’è un insieme di forze sociali coordinate che promuove l’adozione del software libero, dei Creative Commons, di altre risorse libere e condivise a livello mondiale – oppure ci sono solo tante attività diverse e indipendenti?

Questo è il testo del rapporto che ho scritto, riassumendo la nostra discussione di un’ora: vediamo se vi interessa.

The second sub-working group was tasked with discussing the question: “is there really a Free Culture Movement?â€.

First of all it was noted that the answer to this question also depends on what you mean by the term “movementâ€. To this purpose, the approach that we followed was to examine a number of specific cases and to try and find commonalities among them, to determine whether there could be any universal features that could be used to define a single “movementâ€.

In the end, it became pretty clear that while all participants to the supposed “movement†adopt similar practices in terms of ways to license and distribute content, not all of them do it with the same purpose and for the same reasons. Roughly, two big groups can be identified: people and environments that see the free culture distribution models as a tool, even for professional and business activities, and adopt them in a utilitarian manner – because they work better than others – without questioning the structure of society and without adopting a political agenda, and people and environments that see the free culture distribution models as an end in themselves, and as a way to promote a political agenda and foster a change in society and economy.

This difference can be also traced back to historical reasons, considering for example the cultural differences between the U.S. hacker culture where free software was born, and the European and Southern social centres where free software was embraced and promoted inside a set of broader political actions.

There was some discussion on whether free culture distribution models embody certain values in themselves, so that even the utilitarian adopters might be unwillingly helping to promote the political agenda of the ideological adopters, and on whether an economic co-existence of free culture models and traditional intellectual property-based models is sustainable in the long term, making the utilitarian approach sustainable in the long term as well. While there certainly are values embedded in the models, it is also likely that if the political agenda of the ideological adopters were to be pushed too far, the utilitarian adopters would disassociate themselves from the “movement†– this was evident in recollection of the distance existing between, for example, Creative Commons and the peer-to-peer file sharing movement.

In the end, we made an attempt to identify some commonalities among the several cases of adoption of free culture models that we examined, and among their adopters:

  • they see value in the act of sharing, though the type of value (political, social, economical or all of these) varies case by case;

  • they draw on the horizontal, networked, distributed organization typical of the Internet model, and on the lack of hierarchies and centralized validation and authorization processes;

  • they struggle for acceptance of the new distribution models in their own environments, though acceptance by whom and for which reasons varies case by case;

  • they tend to become self-aware as a reaction to the threats by established players who want to resist such acceptance, though again the type and motivations of these players varies case by case.

Rather than a “movementâ€, free culture looks like a big square which people are entering and leaving in different directions. The fact that we meet in the square and share a part of our path together may give the illusion that we all move in the same way, but it is not enough to define all of us as being part of a single “free culture movementâ€.

[tags]free culture forum, cultura libera, software libero, politica, società, innovazione, movimenti[/tags]

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venerdì 16 Ottobre 2009, 09:10

La strage dei fatti

Di questi tempi, l’Italia è spesso sulle prime pagine dei giornali internazionali – raramente in senso positivo. Quella di ieri, comunque, è una notizia davvero clamorosa: secondo il Times (non proprio l’ultimo dei giornaletti), la strage afgana di Sarobi – in cui dieci soldati francesi furono massacrati – sarebbe stata causata indirettamente dalle furberie degli italiani. Infatti, secondo il Times, gli italiani – a cui inizialmente era assegnato il controllo dell’area – avrebbero mantenuto la pace grazie a un accordo sottobanco: i nostri servizi segreti avrebbero pagato decine di migliaia di euro ai locali capi tribali perché essi non scatenassero attacchi o violenze oltre l’ordinario. Quando per un normale avvicendamento l’area passò ai francesi, ignari di tutto, il flusso di denaro cessò: e come prevedibile il risultato fu un’improvvisa ondata di violenza, scatenata dai locali per convincere i nuovi arrivati a proseguire le “buone pratiche” degli italiani.

Nella nostra mentalità, ci sarà pure qualcuno che dirà “e beh? i nostri son stati bravi ad arrangiarsi”; del resto, questo è il periodo in cui compaiono indizi di un probabile accordo tra lo Stato italiano e la mafia per porre termine all’ondata di stragi dei primi anni ’90, accordo per via del quale sarebbe stato eliminato Paolo Borsellino, che avrebbe rischiato di mandare a monte la cosa. Se siamo scesi a patti con la mafia, cosa volete che sia un accordino con quattro integralisti barbuti? Peccato che all’estero non la pensino così; che una cosa del genere, per uno Stato facente parte di una alleanza militare in un paese straniero e di fatto belligerante, sia molto vicina all’alto tradimento.

Potevano i nostri media non parlare della cosa? Ignorarla del tutto proprio non potevano. E allora come hanno reagito? Ieri sera ho visto per caso il TG2: ha mandato un servizio che parlava brevemente della cosa, riferendo poi soprattutto delle veementi smentite del governo. E poi, ha mandato subito dopo un altro servizio, che cominciava più o meno con “I giornali inglesi sono normalmente considerati un esempio di autorevolezza, ma in realtà sono molti i casi in cui hanno preso clamorose bufale”: e via con tre minuti tre di racconto di tutte le volte in cui il Times e la BBC hanno preso cantonate, peraltro citando per prima l’intervista a David Kelly seguita dal suo “suicidio”, cioè un caso che probabilmente era tutt’altro che una cantonata, anzi forse era un caso di giornalismo investigativo giunto troppo vicino alla verità. Un servizio che d’altri tempi si sarebbe visto forse su un libello di partito, certamente non in un telegiornale pubblico.

Insomma, ormai i nostri media sono oltre il limite della decenza, pronti a dar contro a chiunque a comando e a rendersi ridicoli all’estero pur di soddisfare i padroni locali. Ed è vero che ormai, tra l’Italia che guarda la televisione e quella che usa Internet, lo spazio per dialogare si fa sempre più ristretto: perché non è soltanto più l’interpretazione della realtà a essere diversa, ma lo è la realtà stessa, fabbricata differentemente e dunque destinata a non fornire più alcun punto di incontro tra le parti.

[tags]afghanistan, sarobi, italia, francia, corruzione, mafia, giornalismo, informazione, david kelly, tg2, times, bbc, incomunicabilità[/tags]

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