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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


martedì 9 Settembre 2008, 11:08

Confronti impietosi

Domenica e lunedì siamo andati in Sud Africa, al Parco Nazionale Kruger: uno dei più noti parchi africani, dove la savana e i suoi abitanti si conservano nel loro ambiente naturale.

Arrivare da Maputo in Sud Africa, in teoria, è una passeggiata: la frontiera dista meno di cento chilometri di “autostrada” – cioè di stradone a due corsie con qualche allargamento e una bella banchina su cui le carrette si spostano per farsi superare. L’hanno costruito i sudafricani e l’unica cosa che funziona è il pedaggio: circa 60 centesimi di euro per il tratto urbano a quattro corsie da Maputo a Matola (5 km) e circa 3 euro per il tratto nel deserto. Il problema è che tra i due tratti c’è un po’ di tutto: è l’unica autostrada che nel mezzo delle quattro corsie a scorrimento veloce presenta un dosso alto mezzo metro, seguito da un semaforo, al quale l’autostrada gira a destra. Se non te ne accorgi e vai dritto (ed è facile, perché agli incroci le segnalazioni sulle direzioni sono normalmente un optional), finisci in Swaziland; e così stavamo facendo noi. Dopo ampi giri, siamo finiti sulla “strada vecchia”, ossia una vecchia rurale portoghese del 1944 che da allora non è mai stata riasfaltata; era la strada precedente all’autostrada, e ci ha preso un’ora e mezza per 40 km.

Bisogna poi metterci anche la terrificante dogana mozambicana, un carnaio di uomini, macchine, camion e animali in cui i non-locali vengono vessati in modi incomprensibili, a seconda di come gira, per far loro pagare il fatto che non esiste alcun paese al mondo, vicino o lontano, che accolga volentieri un mozambicano senza fargli penare i visti.

Però, la sensazione che ho provato passando dal Mozambico al Sud Africa è stata incredibile: credo di non aver mai provato nulla del genere.

Subito prima del confine, c’è Ressano Garcia:

ressanogarcia-1.jpg
ressanogarcia-2.jpg

ossia una landa desolata, bruciata dal sole, inutilizzata per un qualsiasi scopo, occupata soltanto da casupole di cemento quando va benissimo, di mattoni di cemento pressato quando va bene, di paglia quando va male, di fango se piove; in cui migliaia di mozambicani neri (di mozambicani bianchi in sostanza non ne esistono) vivono, anzi muoiono di fame, nell’immondizia e nello sterco, senza acqua ed elettricità. (La foto, per pietà, si riferisce alla parte più bella dell’abitato.)

Appena al di là del confine, invece, c’è Komatipoort:

komatipoort-1.jpg
komatipoort-2.jpg

ossia chilometri e chilometri di terre meravigliose, verdissime, tutte ordinate e pulite, perfettamente coltivate grazie a pozzi, tubi e canali di irrigazione; e una cittadina che è africana, ha ancora le palme e lo sterrato, ma è anche assolutamente dignitosa, dove le case sono mediamente villette con giardino, e anche i neri più poveri magari vivono in casupole di cemento, ma che comunque hanno tutte dei muri, un tetto, la corrente elettrica, l’acqua, le fogne; e comunque, la terra non si sfalda in polvere e deserto, ma dà da mangiare a tutti.

E quindi, a Komatipoort vi accoglie persino un centro commerciale, con un supermercato Spar, un benzinaio Caltex identico ai nostri, un bancomat che prende pure Banca Sella, un fast food Wimpy, dove entri e per terra è pulito, non ci sono blatte ovunque, ai muri ci sono i manifesti degli hamburger invece che buchi e macchie ventennali, il personale (nero) sa leggere e parla tre lingue (inglese, afrikaans e lingua tribale locale), è vestito bene e non muore di fame, e dove ordini e ti portano un doppio cheeseburger con bacon che è fantastico, e non biscotti thailandesi di cartone pressato e gamberi (peraltro ottimi) a cena, pranzo e colazione perché è l’unica cosa che non richieda sforzo di allevamento e costi poca fatica raccogliere.

E’ come se di colpo fossimo atterrati su Marte. Dopo dieci giorni di moderna nègria mozambicana, l’insegna verticale di un benzinaio incombe sulla strada come il monolito nero di Kubrick sulle scimmie: diecimila anni di differenza in termini di evoluzione.

Allora, fatevi delle domande, e datevi delle risposte: la terra è la stessa, il clima è lo stesso, persino la tribù e la lingua madre dei neri del posto è la stessa. L’unica cosa che cambia è che da centocinquant’anni Komatipoort è gestita dai bianchi, mentre Ressano Garcia è gestita dai neri (pur se con qualche contributo degli ineffabili colonizzatori portoghesi, che però, così lontano dalla costa, non mettevano mai piede).

Ma non pensate che a godersi la mecca sudafricana siano solo i bianchi: noi ne abbiamo visti in giro pochi, e tra gli avventori del Wimpy la metà era nera, anzi nel dehors c’era una coppia di fidanzatini poco più che ventenni, lui nero e lei bianca, e si tenevano per mano. Anche nel resto del nostro giro abbiamo visto che, sì, magari il grande capo del ristorante era bianco, ma sotto di lui c’era personale nero che sfoggiava competenza, capacità, gentilezza, persino una buona organizzazione (da sempre il punto debole dei neri), e anche autorevolezza. Per dire, la guida del parco, che ci ha portato in giro facendoci lezioni di etologia, era nera; così come era nero il poliziotto che ci ha fatto un grande e giustificato cazziatone perché violavamo le regole del parco; non certo solo sguatteri e zappatori.

Apparentemente, in Sud Africa è riuscito un evento che nel resto del continente non è accaduto: cambiare almeno un po’ la cultura dei neri. Perché non è che in Mozambico siano più scemi del resto del mondo; semplicemente, non avendo mai fatto il passaggio per noi preistorico dalla pastorizia e dalla pesca verso l’agricoltura (e da lì all’urbanesimo), non sono capaci a trasformare il deserto in campi; se provi a insegnarglielo, quasi sempre non gliene frega niente di impararlo; e se anche lo sapessero fare, comunque non avrebbero voglia di farlo, perché non sarebbe parte della loro cultura e del loro modo di vivere, tutto basato sul minimo risultato con il minimo sforzo e sulla pianificazione zero.

La controprova è che in Zimbabwe, un tempo paese ricco come e più del Sud Africa, non appena hanno cacciato i bianchi l’irrigazione ha smesso di funzionare, la terra non è più stata fertile, i raccolti sono morti; e ora tutto il Paese sta morendo di fame.

Il Sud Africa, per ora, è l’unico paese dove regge la cooperazione tra bianchi e neri, pur tra grandi difficoltà e violenze, fornendo una speranza di sviluppo all’intero continente. Purtroppo sono molti a pensare che, non appena Mandela morirà, anche esso finirà come lo Zimbabwe.

[tags]viaggi, africa, mozambico, sud africa, zimbabwe, sviluppo, mandela[/tags]

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sabato 6 Settembre 2008, 09:53

Contrattempi

Ieri era il giorno delle visite: infatti, il progetto per cui sono qui è legato anche allo studio della lotta all’AIDS e dell’accesso ai medicinali, e così ogni tanto mi aggrego al gruppo che va a incontrare chi lavora sul campo.

L’inizio di mattinata, però, va raccontato perché è molto indicativo di come funziona la vita in Africa. Infatti, dovevamo alzarci, prendere la macchina parcheggiata sotto casa, guidarla per due-isolati-due fino all’ufficio, dove l’autista nero doveva prenderla in consegna e portarci tutti alla prima visita.

E invece, ci siamo alzati, siamo scesi (ieri mattina funzionava addirittura l’ascensore), abbiamo preso la macchina, e immettendoci da bordo strada nel caotico traffico di Maputo abbiamo centrato col nostro fuoristrada una vecchia berlina verde che ha stretto di colpo; nulla di grave, data la velocità minima, ma un copricerchione è saltato per aria ed è rimbalzato in giro. Ci siamo fermati, abbiamo contato i copricerchioni delle due auto, e ce n’erano quattro per ognuna: abbiamo concluso che o quello volato via era stato frutto di magia, oppure era lì abbandonato per terra in mezzo alla strada e in realtà non ci eravamo toccati.

Fatti i due isolati, siamo arrivati all’ufficio; lì ci hanno detto che c’era un po’ di casino perché il giorno prima erano andati a rubare in casa a uno degli italiani che lavorano lì; l’inferriata che proteggeva l’ingresso era rotta da settimane e non era mai stata riparata dai padroni di casa, e comunque si sospetta che siano state le guardie del palazzo. Hanno portato via un computer e un proiettore, e l’ultimo backup era di dicembre: costernazione.

Quindi, uno dei due autisti dell’ufficio era stato mandato a riparare la porta di casa del derubato; l’altro doveva essere lì per noi, ma non c’era perché, secondo le segretarie, era andato un attimo a trombare. Non scherzo: l’autista è un gran bel ragazzo, quindi quasi tutti i giorni, stazionando davanti all’ufficio, rimorchia una tipa per strada, si appartano, trombano un po’ (non so dove, onestamente) e poi lui torna in servizio.

Pertanto, con già mezz’ora di ritardo, siamo partiti noi, due donne bianche e il sottoscritto a proteggerle, per andare in uno dei bairro lontani. Per fortuna il posto che cercavamo non era tra le casupole del bairro, ma sulla strada principale che collega Maputo al nord del paese, quindi non era pericoloso arrivarci. Però ci è andata bene, anche perché siamo riusciti ad evitare i posti di blocco della polizia: non avevamo gli specchietti (li hanno rubati tre giorni fa dalla macchina parcheggiata) e ciò, almeno per i bianchi, è causa di multa immediata; dovevano essere sistemati dall’autista di cui sopra, ma avete capito che non è molto affidabile.

Andando via, abbiamo chiesto se serie così di imprevisti accadevano spesso: la risposta di chi vive qui è stata “tutti i giorni, basta farci l’abitudine”.

P.S. Il posto dove siamo andati è un ospedale rionale per malati di AIDS realizzato e gestito dalla Comunità di Sant’Egidio, con fondi donati da alcune ONLUS torinesi. Gli stessi abitanti del posto dicono che, fatta 1 la quantità di aiuto concreto fornita contro l’AIDS dall’apposita agenzia ONU finanziata dai contribuenti mondiali, quella fornita da Medici Senza Frontiere è tipo 5, e quella fornita da Sant’Egidio è tipo 100. Sapevatelo.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, africa, contrattempi, aids[/tags]

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venerdì 5 Settembre 2008, 09:56

La donna che partorì tre tazze

Siamo arrivati in Mozambico proprio al momento giusto: poco tempo fa si è verificata una storia che ha tenuto col fiato sospeso l’intera nazione. A noi ne ha parlato Dominga, la domestica di casa, quando avevamo finito il pranzo e stavamo bevendo il caffé.

Infatti, nella città di Xai-Xai, meno di duecento chilometri a nord di Maputo, si è verificato un avvenimento assolutamente magico: una donna, incinta al settimo mese, ha partorito tre tazze. L’evento ha fatto clamore, perché è un caso evidente di malocchio: e infatti i locali ne parlano scuotendo la testa, e ripetendo “fetiche, fetiche”, pensando alla terribile magia che ha trasformato il feto in tazze, e alla povera donna che ha perso così il suo bambino.

Il fatto è assolutamente vero: la donna ha partorito tre tazze, e almeno delle ultime due pare che ci siano filmati e fotografie. La storia, però, è un po’ diversa: qui, infatti, le donne possono sposarsi solo dopo essere rimaste incinte, per provare di essere fertili. La ragazza in questione voleva sposare il suo uomo, nonostante l’opposizione della famiglia di lui, ma non riusciva a rimanere incinta (alcuni hanno suggerito che già quello fosse un feticcio); allora ha dichiarato di esserlo, fingendo la gravidanza, e ottenendo così l’approvazione per il matrimonio.

Solo che, verso il quinto mese, l’assenza di pancia cominciava ad essere troppo sospetta: e così lei si è inserita le tre tazze nella vagina. Il piano era di tenerle lì per un mesetto e poi simulare un aborto; solo che quando si è recata dal medico (cioè, spero che fosse un medico) per partorire, all’uscita della prima tazza tutti sono rimasti sconvolti, e la notizia si è sparsa. Il futuro marito ha allora prontamente provveduto a vendere l’esclusiva mediatica per il parto delle successive due, che è avvenuto con successo. Alla fine, tutto si è concluso in gloria: con i soldi della televisione, il marito ha potuto pagare il lobolo – qui è il marito a pagare la famiglia della moglie all’atto del matrimonio, come saldo per il valore dei figli che verranno – e i due hanno potuto sposarsi, visto che era chiaro a tutti che lei era rimasta incinta, e soltanto la magia le aveva impedito di avere un bambino.

Ora, so che non ci crederete e che penserete che io stia esagerando, ma qui sono veramente tutti convinti che ci sia stata di mezzo la magia; non solo nelle campagne, ma anche in città, compresi gli impiegati e gli alti dirigenti dello Stato. Sui media ci sono sì stati grandi dibattiti e talk show, ma non per mettere in dubbio l’effettivo svolgimento dei fatti; la discussione verteva invece su “a fare il malocchio sarà stata la suocera, o chi altro?”.

Quello che io trovo però molto affascinante è l’unico elemento di modernità dell’intera storia: la pronta vendita dei diritti TV. Anche se forse è un po’ triste – ma anche molto indicativo delle attitudini umane – che, di tutta la nostra scienza e tecnica, le uniche cose a far breccia nelle tradizioni africane siano state televisione e telefonino.
[tags]viaggi, mozambico, maputo, televisione, modernità, parto[/tags]

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mercoledì 3 Settembre 2008, 11:58

Le strade africane

Le strade africane sono molto diverse da quelle occidentali; e non certo perché sono sterrate invece che asfaltate (anzi, sempre di più sono asfaltate pure quelle africane).

In Occidente, la strada è uno strumento: serve a collegare un posto con un altro secondo il percorso più breve possibile. In Africa, la strada è uno scopo; è per molti il centro della vita. Si esce dalla propria casupola o capanna, e si va sulla strada a far mercato e a stare insieme; le donne e i ragazzi si piazzano sul bordo della strada con una stuoia e qualcosa da vendere. Anche se la vendita è il loro sostentamento primario, non è comunque il motivo principale per stare lì, visto che spesso venderanno sì e no due cose in un giorno. In realtà, stare lì è stare nel mondo: vedere le persone passare.

Le strade africane, quindi, sono sempre piene di gente. Ovviamente fuori dalle città e dai villaggi di gente ce n’è relativamente poca; gruppi di persone che aspettano il bus o che vendono prodotti della campagna. Ma non appena si avvicina un agglomerato, la strada si riempie; talvolta è un fiume di persone in cammino. Del resto, nessuno ha un’auto, quasi nessuno ha una bicicletta, e molti non possono permettersi nemmeno i bus: e così, si va a lavorare, a studiare, a comprare a piedi, camminando per due, cinque, dieci chilometri al giorno.

Anche le strade europee sono piene di gente; ma è tutta gente assente, che ha spento il cervello e sta semplicemente svolgendo una funzione di spostamento, spesso intruppata in movimenti collettivi. In Africa, invece, le strade sono piene di moltitudini attive; ognuno sta facendo una cosa diversa e interagisce con le altre persone che si trova accanto. Trovi la donna che cammina con un sacco in testa, i due uomini che contrattano un lavoro, il gruppetto che guarda la televisione dentro la finestra di una casupola-bar, i bambini che giocano correndo nel fango.

Le strade africane, insomma, emanano energia; anzi, emanano una energia spaventosa, perché sono piene di vita. Per noi, dopo un po’, diventano stancanti ed intimoriscono; non siamo abituati a tutta questa densità di energia. E però, in confronto, è come se le strade europee sembrassero di botto come quelle del paese degli zombi: piene di morti viventi.

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[tags]viaggi, mozambico, africa, strada[/tags]

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lunedì 1 Settembre 2008, 12:05

Economia africana

La principale attività del Mozambico è il non far niente. A tutti gli occidentali che si stupiscono di ciò viene raccontata la storiella ormai famosa in tutta l’Africa e anche nei Caraibi: quella dell’uomo bianco che vede un pescatore nero sulla spiaggia, seduto a guardare il mare senza fare niente. Allora il bianco gli chiede: perché non stai lavorando? E il pescatore risponde: perché dovrei lavorare? Potresti comprarti una nuova rete, risponde il bianco. E il pescatore: e perché? Il bianco gli spiega che con una nuova rete prenderebbe più pesce. E il pescatore: e a cosa mi serve? Beh, dice il bianco, a forza di prendere più pesce e venderlo al mercato, a un certo punto diventeresti abbastanza ricco da poter smettere di lavorare. E il pescatore risponde trionfante che lui ha già smesso di lavorare senza bisogno di tutta questa fatica!

Non fraintendetemi: Maputo è una città e, come tutte le città, ha uffici, negozi, locali, attività pubbliche e private che funzionano ogni giorno grazie alle persone del posto che ci lavorano. E’ solo diverso il concetto di lavoro e, soprattutto, il suo valore percepito, in termini morali prima ancora che economici. L’autista dell’ufficio – che guadagna cento euro al mese, che comunque qui sono abbastanza per mantenere le sue due compagne e i suoi cinque figli – ci ha detto che è contento delle cose che ha realizzato – i figli, la casa, il televisore – ma che la sua vita è durissima perché quasi tutti i giorni deve andare a lavorare. Un altro ragazzo incontrato il giorno prima – neolaureato, ben vestito, ora impiegato di uno dei vari progetti di cooperazione – ci ha detto tranquillamente che ora era contento di lavorare, ma che non aveva voglia di fare 40 minuti di autobus al mattino e altrettanti la sera, per cui andava a lavorare solo quando l’autista del suo progetto (tutti i progetti hanno macchine con autista sempre a disposizione) poteva passarlo a prendere, se no semplicemente non si presentava in ufficio.

Anche l’approccio al lavoro è molto rilassato: si arriva, si chiacchiera un po’, si fa riunione, si mangia… sembra quasi un ministero italiano. Quasi nessuno dei locali è veramente capace – in metriche occidentali – a fare il lavoro che fa. Per esempio, l’altra sera siamo andati a un ristorante e ci siamo seduti; per prima cosa ci hanno detto (in modo molto rilassato, e senza la scortesia tipica di un esercente italiano) che dovevamo fare in fretta perché erano lì lì per chiudere (mancavano tre quarti d’ora). Poi è arrivata la cameriera a prendere le ordinazioni; qualsiasi cosa scegliessimo dal menu non c’era, però ce n’erano delle altre che sul menu non erano scritte. Alla fine la cameriera non era sicura, così è andata a chiedere in cucina se la cosa che volevamo (più o meno l’unica disponibile) c’era davvero. Poi l’abbiamo vista litigare col padrone, poi è sparita e non è più tornata, così dopo un quarto d’ora uno di noi è andato a chiedere. E’ venuto il padrone a dirci che in realtà la disponibilità delle cose era ancora diversa, e ha suggerito che se volevamo “faceva lui”. Abbiamo accettato, e allora dopo una decina di minuti sono arrivate le zuppe, ma ne mancava una, e mancavano anche due cucchiai. Le bibite sono arrivate dopo altri cinque minuti e un paio di altri solleciti; poi ha cominciato ad arrivare il cibo, anche se nessuno, padrone compreso, era completamente sicuro di cosa sarebbe arrivato e in quali quantità. Alla fine era tutto assolutamente ottimo; abbiamo mangiato in abbondanza e ne abbiamo ancora lasciato lì; abbiamo speso circa dieci euro a testa, una cifra normale per qui, ma poco per i nostri standard. Ovviamente, quando abbiamo dato i soldi per pagare il conto, abbiamo dovuto sollecitare due volte per avere il resto; ma non perché volessero tenerselo, semplicemente perché l’incombenza gli passava di mente nel tragitto tra il tavolo e il bancone.

In effetti, il bianco è molto apprezzato perché arriva qui con competenze che per il posto sono stratosferiche, e per mille o millecinquecento euro al mese è disposto a fare moltissimo lavoro. Ci hanno detto che i locali con competenze comparabili non si sognano nemmeno di farlo: per fare lo stesso lavoro vogliono decisamente di più, altrimenti “non ne vale la pena”.

Ora, questo sarebbe comprensibile se ci fosse un mercato che in qualche modo giustifica questi stipendi; ma non è così. Circa il 60% del PIL del Mozambico è costituito da aiuti umanitari; una quota ulteriore sono rimesse dagli emigrati. L’economia privata è inesistente; siamo a livelli persino peggiori della Calabria (di cui un’amica del posto mi spiegò che il 77% dell’economia è pubblico e parapubblico, e solo il 23% è privato). A parte le piccole attività, esiste qualche fabbrica sudafricana o comunque straniera; il resto è sovvenzione e parastato.

Ci hanno detto che a Maputo c’è il boom economico, e lo vediamo: per le strade circolano moltissime macchine tra cui parecchie nuove (quasi tutti fuoristrada Toyota, Hyundai o comunque giapponesi e coreani) e sono appena stati costruiti due complessi nuovi e scintillanti che sembrano un angolino di Los Angeles trapiantato in Africa: il primo è il Maputo Shopping Center e il secondo è la nuova sede del Ministero della Cooperazione (mentre gli altri ministeri sono ruderi o quasi). Io ingenuamente pensavo che fosse per via della globalizzazione: sta a vedere che qualche briciola della grande delocalizzazione occidentale è finita anche qui. Invece no: c’è il boom semplicemente perché alcuni dei paesi donatori hanno sensibilmente incrementato gli aiuti a fondo perduto.

Il flusso del denaro, qui, è così: dai governi occidentali al governo locale, che ne trattiene l’80-90 per cento in corruzione, oppure a dipendenti locali di istituti e NGO occidentali, sotto forma di lavori artificialmente ben pagati. Dai mozambicani, i soldi finiscono per la maggior parte a una delle due compagnie di cellulari: la Mcel e la Vodacom, che tappezzano di pubblicità il paese, ovunque, in qualunque angolo, dipingendo dei loro colori le case e i negozi. Oppure, in una delle due banche che in centro hanno uno sportello ogni due isolati: la Millennium (portoghese) e la Barclay’s (inglese). Di lì, tornano in buona misura in Occidente, visto che quasi tutto deve essere importato, dai lavandini ai biscotti: di prodotto nazionale, a parte ottima verdura, carne e pesce, e forse i mattoni e il cemento, non c’è niente di niente. Questo spiega come mai il prezzo di tutto sia quasi uguale a quello europeo, anche se i locali non potranno mai permettersi nulla di tutto ciò.

All’Hipermaputo, il maggior supermercato della città, che non ha nulla da invidiare al Carrefour – prezzi compresi – tranne la birra perché è posseduto da arabi e quindi non si vendono alcoolici, il cibo è di provenienza insospettabile: buona parte dei prodotti hanno le etichette innanzi tutto in thailandese. Sono i misteriosi ricircoli del commercio globale, persino qui. L’Italia nemmeno qui è veramente competitiva, ma almeno un po’ si difende: c’è pasta Divella e Spigadoro – in mezzo a un mucchio di imitazioni con improbabili nomi paraitalici – e soprattutto c’è lui, l’oggetto che più di ogni altro pianta la bandiera italiana in ogni angolo del pianeta: l’espositore Ferrero con i Kinder Bueno. Li ho comprati subito: gioverà alla nostra economia.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, africa, economia[/tags]

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sabato 23 Agosto 2008, 11:37

Dalai chi?

Sapete che sulla questione relativa a Cina, Tibet e diritti umani ho il mio punto di vista, che non è particolarmente allineato con il pensiero unico che ha dominato i giornali e i blog italiani negli ultimi mesi. Mi sembra che troppi in Italia – dove, solo in quest’ultima estate, sono stati assolti o quasi i poliziotti che avevano sequestrato e massacrato di botte gli oppositori politici del nostro governo a Bolzaneto, si sono moltiplicate le retate di stranieri e gli attacchi razzisti ed è stata intensificata l’attività di filtraggio di siti Internet – utilizzino la questione dei diritti umani in Cina per sentirsi più buoni, e per evitare di guardare in casa propria; da parte dei politici, poi, cavalcare i sentimenti anticinesi è un buon modo per distrarre l’opinione pubblica, e magari trovare anche un comodo capro espiatorio per il fallimento economico del nostro Paese.

Comunque, ricordate le settimane che hanno preceduto le Olimpiadi? Sembrava che si stesse andando in guerra: non passava giorno senza che i giornali italiani si interrogassero su come dovessero comportarsi i nostri atleti, riportando gli appelli di politici e intellettuali al boicottaggio e alla protesta. Per un po’, il Dalai Lama ha avuto sui nostri media quasi lo stesso spazio del Papa: bastava che ruttasse e finiva in prima pagina. Le previsioni erano apocalittiche: si anticipavano grandi manifestazioni represse nel sangue, censure continue alle riprese televisive, gare continuamente interrotte dalle proteste e atleti squalificati per aver espresso le proprie opinioni. In più, per buona misura, si prevedeva anche che gli impianti sarebbero stati deserti causa mancanza di cultura sportiva dei cinesi, e che atleti e spettatori sarebbero soffocati per l’inquinamento.

La realtà, ovviamente, è stata ben diversa, cominciando dalla cerimonia inaugurale che nessuno ha boicottato – tranne Berlusconi perché non c’aveva voglia – e che tutto è stata meno che la celebrazione di un regime, lasciando con un palmo di naso tutti i critici che erano lì pronti a gridare alla scandalosa autocelebrazione della dittatura (sono comunque riusciti a criticare lo stesso la cerimonia per il motivo opposto, “non c’erano Mao e il comunismo”). Anzi, la cerimonia ha cercato di comunicare tutta la diversità e la profondità della Cina, con l’esibizione dei bambini delle diverse etnie (Tibet compreso) e facendo notare che la cultura cinese è ben più complessa di un mezzo secolo di comunismo.

Per il primo paio di giorni qualche protesta c’è stata, da parte di gruppi di due o tre esagitati che si sono pagati il biglietto aereo da Londra o da New York per sventolare uno striscione e finire presi a lazzi, a sputi o a schiaffi – a seconda dell’umore – nemmeno dalla polizia, ma dai passanti cinesi che si trovavano lì in quel momento. Per il resto, le gare sono state belle, l’aria pulita – spesso con tanto di cieli azzurri – e gli stadi quasi sempre pieni e calorosi, con ovvia preferenza per gli sport popolari tra i locali. Nessun atleta si è sognato di protestare in gara, esattamente come dovrebbe essere in un’Olimpiade, dove persino russi e georgiani hanno gareggiato insieme in giorni di vera guerra senza andare mai oltre qualche mala parola; il massimo scandalo, a parte qualche caso marginale di doping, è stato lo svedese che ha gettato via il bronzo alla premiazione per protesta contro l’arbitraggio. Ciò nonostante, nelle interviste gli atleti hanno detto ciò che volevano e nessuno li ha limitati; alcuni hanno ribadito le critiche della vigilia, altri si sono resi conto che, tutto sommato, la Cina non era poi così brutta come la si dipinge.

Il terrorismo c’è stato, ma non è avvenuto in Tibet; sono stati gli uiguri, etnia turcofona dell’estremo ovest della Cina, anch’essa indipendentista ma che, non essendo foraggiata dagli americani ed essendo addirittura musulmana, non trova altrettanto spazio sui nostri media.

All’inizio, il Dalai Lama ha elargito sante parole di pace: ha fatto gli auguri e i complimenti alla Cina, e si è messo ad aspettare. E non è successo niente: dopo tre giorni, i giornali parlavano solo più di gare e di successi sportivi. Dopo la prima settimana, il Tibet era al massimo un asterisco in fondo alla generale ammirazione per la riuscita delle Olimpiadi; niente proteste e niente clamore, anzi quel poco di esposizione da violenza che c’era se l’erano fregato gli uiguri di cui sopra e pure Putin e Bush nel Caucaso (dove, incidentalmente, l’offensiva georgiana contro gli independentisti osseti ha fatto in pochi giorni cento volte le vittime degli scontri etnici di Lhasa a marzo). E’ chiaro che così non andava bene.

Così, nella seconda settimana il Dalai Lama ha cambiato tono, e ha cominciato ad alzare la voce. Nessuno però sembrava più interessato, e così Sua Santità si è ridotta a un vecchio trucco da politico democristiano: l’intervista bomba con smentita. Mercoledì, infatti, è andato a dire a Le Monde che i cinesi avrebbero appena ucciso 140 persone in Tibet sparando sulla folla. I politici, i bloggherz – segnalo in particolare l’ineffabile Adinolfi – e i media allineati gli sono subito andati dietro, montando il caso e indignandosi a comando. I giornalisti veri hanno alzato un sopracciglio: 140 morti? In un momento in cui la Cina è sotto gli occhi del mondo? Con migliaia di giornalisti stranieri in giro per il Paese e in attesa soltanto di un caso clamoroso da riportare?

Infatti, puntuale il giorno dopo è arrivata la smentita: scusate, non ho detto ciò che ho detto – ma intanto ha riconquistato le prime pagine, e ha reinnescato il meccanismo.

Riparte quindi l’italico teatrino: primo La Russa, che dalla sua poltrona romana invita di nuovo gli atleti italiani a protestare. Ma il meglio lo dà Margherita Granbassi, schermitrice italiana appena ritornata da Pechino con una medaglia di bronzo.

La Granbassi, dopo aver passato una settimana a chiedere di non pagare le tasse, cambia argomento e passa al Tibet. Esordisce dicendoci che avrebbe volentieri boicottato le Olimpiadi (però non l’ha fatto). Quindi, dopo essere andata, aver gareggiato, aver preso la medaglia e aver avuto il suo momento di gloria senza minimamente fare nulla per il Tibet, torna in Italia e solo allora si ricorda di dire agli atleti italiani che sono ancora a Pechino che (loro) devono protestare. Aggiunge che le Olimpiadi sono state uno scandalo e che addirittura sono stati utilizzati lavoratori schiavizzati e sfruttati per realizzare le medaglie (tra cui la sua di bronzo che si tiene ben stretta al collo).

Eccezionale, infine, è l’accusa alla televisione cinese (con due settimane di ritardo) di censura dello striscione (nemmeno legato al Tibet) da lei esibito nella cerimonia inaugurale, quando la regia televisiva è internazionale e quando è noto che durante la cerimonia di apertura è vietato esibire qualsiasi cosa che non siano le bandiere nazionali, figuriamoci il classico lenzuolo “ciao mamma” scritto a pennarello, che peraltro solo un italiano potrebbe avere l’idea di sventolare in una simile occasione senza sentirsi ridicolo.

A quel punto, qualcuno deve averle fatto notare che parlare è facile ma forse è anche il caso di agire di conseguenza, e lei ha provveduto: oggi annuncia che donerà al Dalai Lama la sua maschera di gara. Addirittura! Che durissimo gesto di protesta! Di restituire la medaglia, naturalmente, non se ne parla nemmeno.

Ora, di fronte a un simile miracolo di ipocrisia – in buona fede, ma pur sempre ipocrisia – che cosa si può dire? Il problema del Tibet esiste; anzi, è possibile che ci siano stati veramente degli scontri, così come è possibile che in extremis qualche protesta avvenga anche all’Olimpiade. Il problema del Tibet, però, è lo stesso dell’Ossezia, del Kosovo, della Cecenia, dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi, del Kashmir, del Kurdistan, insomma di qualsiasi parte del mondo dove si trovino due etnie diverse che non riescono a vivere insieme (o, più spesso, che includono minoranze estremiste che non vogliono vivere insieme). In questi casi, gli scontri, le provocazioni e le violenze avvengono sempre da entrambe le parti; quando questi problemi si sono risolti senza lo sterminio o la cacciata di una delle due etnie, è perché le due etnie hanno isolato gli estremisti e hanno imparato ad accettarsi e a convivere.

Per questo motivo, quando l’Occidente prende nettamente le parti di una delle due etnie – spesso per via di interessi geopolitici, economici e militari, come in Kosovo e in Ossezia – fa quasi sempre danno; molto più utile è comportarsi con moderazione e tenere aperto il dialogo con entrambe. Ma fallo capire all’italiano medio.

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sabato 16 Agosto 2008, 11:09

La seconda guerra fredda

Nonostante la sua accurata programmazione all’interno della settimana olimpica, la crisi georgiana ha, alla fine, avuto un buon risalto sui nostri mezzi di comunicazione. Comunque, noi italiani siamo sempre un po’ troppo buonisti, per cui i nostri reportage di guerra si concentrano sul far vedere le vecchiette che sfollano e sul gossip politico internazionale; quasi mai, quando c’è una guerra, si riesce a capire perché è scoppiata.

La Georgia è teatro di scontri costanti sin dal collasso dell’impero sovietico; si può dire che, sin dal 1991, non sia mai stata veramente in pace. Naturalmente, i media italiani non ne hanno praticamente mai parlato, se non qualche volta quando, nell’ultimo paio d’anni, i georgiani si sono lamentati del fatto che i russi gli stessero tagliando gli approvvigionamenti alimentari; per il resto, la Georgia è esistita sui nostri schermi solo per qualche sporadica apparizione come squadra materasso nei gironi europei del calcio.

Il Caucaso è una regione complicata quanto i Balcani; esattamente come nei Balcani, vi sono etnie e sotto-etnie che si guardano male da centinaia di anni, complici differenze di lingua, di religione e di provenienza storica. I russi hanno sempre adottato una politica di “divide et impera”, suddividendo il territorio e le sue etnie tra vari Stati indipendenti che però, a loro volta, erano formati da federazioni di repubbliche autonome, di modo che i costanti scontri tra i vari Stati della regione, sommati a quelli interni tra le varie repubbliche dello stesso Stato, rendessero impossibile una rivolta del Caucaso contro Mosca.

Quando l’impero sovietico collassò e la Georgia si rese indipendente, le due repubbliche autonome dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia dichiararono a loro volta l’indipendenza dalla Georgia; la prima per riunirsi all’Ossezia del Nord, che è una repubblica autonoma di pari etnia ma situata all’interno della Russia; la seconda invece era comunque a prevalenza etnica georgiana, ma per un gioco politico i suoi dirigenti cercarono l’autonomia, e negli anni finirono per ribaltare la distribuzione etnica. Di fatto, la situazione di questi due territori è da vent’anni quella che era del Kosovo fino a poco tempo fa: una indipendenza di fatto, protetta da forze armate di interposizione (che nel caso specifico erano un po’ locali, un po’ georgiane e un po’ russe), però non riconosciuta da nessuno e internazionalmente non valida; allo stesso tempo, tenuta in piedi dagli aiuti e dal potere politico di Mosca, che è giunta persino a concedere con larghezza passaporti russi agli osseti del sud in modo da poter giustificare il proprio intervento “a difesa di propri cittadini”.

Quando, qualche mese fa, su pressione degli americani (di cui la Serbia è nemica e il Kosovo è satellite) il mondo decise di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, era facile prevedere che tutte le secessioni del mondo si sarebbero presto messe in coda. Il presidente georgiano Saakashvili, un semi-dittatore amico degli americani, ha deciso così di agire d’anticipo: ha cercato di riconquistare con la forza le due repubbliche secessioniste prima che potessero procedere sulla via dell’indipendenza ufficiale. Mosca ha reagito, e si è arrivati così allo scontro di questa settimana.

All’inizio non si capiva bene cosa stesse succedendo, ma poi la cosa è stata chiara: si tratta del primo episodio caldo di una nuova edizione della guerra fredda tra la Russia e gli Stati Uniti. Qualche sospetto è venuto quando si è scoperto che i militari georgiani si muovevano su jeep americane nuove di pacca, mentre l’esercito osseto rispondeva con aerei russi su cui la bandiera di Mosca era stata cancellata con la gomma cinque minuti prima. Quando, nemmeno tre giorni dopo l’inizio del conflitto, gli americani hanno annunciato che una colonna di marines “umanitari” era già pronta allo sbarco sulle coste del Mar Nero, ecco, è parso chiaro come tutto questo fosse, dal lato georgian-americano, preparato da mesi.

Già, ma perché? Non vi è dubbio che si tratti di una piccola guerra militare, ma di una grande guerra mediatica; mitico quando entrambi i lati hanno proclamato un cessate il fuoco unilaterale davanti alle telecamere, per poi continuare a darsele di santa ragione. Il motivo è che gli Stati Uniti devono legittimare il proprio espansionismo nel Caucaso: continuando a ragionare con la mentalità della guerra fredda, vogliono andare a controllare i russi direttamente in casa loro. Vanno letti in quest’ottica sia gli annunci sparati secondo cui “la Russia si è posta al di fuori della legittimità internazionale” (che detto da gente che negli ultimi vent’anni ha invaso due o tre nazioni sovrane fa letteralmente pisciare dalle risate), sia quelli secondo cui la Georgia e l’Ucraina entreranno presto nella NATO, sia l’ultimo annuncio, quello che prevede l’installazione di missili americani in Polonia, praticamente alle porte di Mosca.

Quest’ultima notizia è passata un po’ sotto silenzio, ma è ancora più preoccupante, per due motivi: il primo è che per Mosca è una chiara provocazione che non passerà ignorata. Il secondo è che rappresenta l’ennesimo schiaffo della Polonia all’Unione Europea, visto che la politica estera dell’Unione andrebbe decisa insieme e che dubito molto che l’Europa abbia alcun interesse a schierarsi così apertamente contro la Russia. Arrivati da poco, i polacchi si sono subito distinti per aver preso l’Unione come un bancomat: ringraziano tanto per gli aiuti economici, ma quando c’è da fare qualsiasi concessione o da ragionare su interessi comuni fanno sempre e soltanto i fatti loro.

Proprio il ruolo dell’Europa in questa vicenda è, al solito, controverso. E’ andata un po’ meglio del solito, visto che Sarkozy ha avuto il buon senso di muoversi subito e accreditarsi fin dal principio come il massimo mediatore; peraltro anche questo potrebbe essere stato uno sviluppo calcolato in anticipo, visto che Sarkozy e Putin si piacciono (tra veri uomini ci si capisce). Dopodiché, però, l’Unione si è dimostrata al solito incapace di pesare davvero; il conflitto alle porte ha causato il solito megaincontro svogliato dei ministri europei, in cui si è distinto alla grande il nostro Frattini non andandoci nemmeno: per lui, la ripartenza della Guerra Fredda non è un motivo sufficiente per interrompere le vacanze alle Maldive.

Una Europa seria avrebbe la capacità, la credibilità e il peso per appendere al muro entrambe le superpotenze, spiegandogli che non è assolutamente il caso che si pestino nel giardino di casa nostra. Purtroppo, l’Europa è ancora un supercondominio dove tutti stanno insieme a parole, ma poi sono troppo impegnati a litigare sul conto della pulizia scale per riuscire a presentarsi seriamente all’esterno.

E ora, cosa succederà? Non so, non sono un esperto, ma Mosca ha il coltello dalla parte del manico; non solo può lasciare al freddo mezza Europa, ma ha mostrato peso militare e ha ricacciato i georgian-americani più indietro di prima. Gli americani, invece, sono un gigante dai piedi d’argilla: continuano a comportarsi come se fossero i padroni del mondo, grazie al loro indubbio dominio militare, ma hanno le pezze al culo, sono pieni di debiti quasi come gli italiani e la loro economia ha un futuro piuttosto dubbio. Se a russi e cinesi girasse di smettere di comprare i loro debiti, gli americani chiuderebbero baracca entro breve.

Per questo motivo, la seconda guerra fredda potrebbe finire molto diversamente dalla prima. La prima guerra fredda è stata vinta dagli americani sul piano economico, sfruttando il limite teorico del comunismo: l’incapacità di un sistema economico a pianificazione centrale ad evolversi a velocità comparabile con uno basato sulla libera iniziativa personale. Ora, però, Russia e Cina hanno capito il trucco; da quando Putin ha preso a mazzate nei denti la mafia che era fiorita tra una ciucca di Eltsin e l’altra, l’economia russa ha cominciato a galoppare; della Cina già sappiamo. Chissà che questi paesi non vincano la seconda guerra fredda sfruttando il limite teorico del capitalismo: l’incapacità di un sistema basato sulla libertà personale di sfruttare la propria manodopera quanto un sistema autoritario e collettivista.

Nessuno sa, in tutto questo, quale sarà il ruolo dell’Europa: per ora essa sta mettendo insieme il peggio dei sistemi capitalisti con il peggio di quelli socialisti, unendo bassa innovazione e bassa produttività e finendo dritta verso la recessione; e non è stata in grado di giocare il ruolo politico che invece le spetterebbe. Forse, tra un’edizione e l’altra di “scriviamo un incomprensibile trattato di duecentocinquanta pagine per poi farcelo bocciare da questo o quel paese membro”, sarebbe il caso di arrivare a una proposta chiara e convincente su questi piccoli particolari.

[tags]georgia, russia, stati uniti, polonia, europa, guerra fredda, politica internazionale[/tags]

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sabato 9 Agosto 2008, 18:52

La buona educazione

Supponete che sia da poco arrivato da voi in ufficio un nuovo collega. Viene da una famiglia umile ed è cresciuto nella miseria, ma ha faticato e ha fatto carriera, e da poco è riuscito ad abbrancare una posizione ben pagata. E’ un po’ spocchioso e primo della classe, però in fin dei conti è capace; ma non vi sta molto simpatico, un po’ perché vi conoscete poco e lui viene da un ambiente diverso dal vostro, e un po’ perché su di lui girano storie inquietanti, come il fatto che ogni tanto picchi la moglie.

A un certo punto il vostro collega annuncia di voler dare entro qualche settimana una grande festa per celebrare il fatto di lavorare ormai da alcuni mesi lì con voi e con un sacco di altra bella gente. E’ consuetudine che, un po’ a turno, qualche collega organizzi un party aziendale; certo, sulle prime alcuni storcono un po’ il naso all’idea che lo faccia questo tizio, e tra questi anche voi, ma alla fine accettate l’invito.

Dopodiché arriva il giorno della festa, e mentre voi mettete piede per la prima volta in casa sua, e lui è tutto orgoglioso di farvi vedere che bell’appartamento si è messo in piedi partendo dal nulla, voi non lo state nemmeno a sentire; mentre arraffate una birra, cominciate a gridare davanti a tutti: “Ehi, stronzo! Lo sappiamo che picchi tua moglie! Ti abbiamo fatto un favore a venire ma sei veramente stronzo!”. Poi, mangiucchiando le sue patatine, continuate a parlar male di lui con tutti gli altri, iniziando dalle foto della sua quinta elementare da cui evincete che, trent’anni fa, picchiava i compagni di classe; anzi, voi e i vostri colleghi più anziani formate un gruppetto in un angolo, isolando il padrone di casa in un angolino con qualcuno dei più giovani, e continuate a sparlarne per tutta la durata della festa, alla fine della quale, afferrando il regalino di benvenuto che lui vi ha porto all’ingresso, ve ne andate senza nemmeno ringraziare.

Ecco, questo non vi sembrerebbe un atteggiamento un po’ maleducato? Eppure è esattamente così che buona parte dell’Occidente si sta comportando con i cinesi in queste Olimpiadi: ha accettato l’invito e l’ospitalità, ma non perde occasione per offendere l’ospite.

I cinesi – tutti, dal primo all’ultimo, non certo solo il governo – vivono questa occasione come il proprio ballo dei debuttanti; il momento in cui possono dimostrare al mondo di avercela fatta, di essere riusciti a ridiventare una nazione grande e importante. Sanno che riceveranno critiche su ciò che ancora non va, ma si aspettano di ricevere con almeno altrettanta enfasi una pacca sulle spalle e un complimento per tutto ciò che sono riusciti a fare – e che è davvero stupefacente – in questi ultimi dieci anni: grattacieli, ferrovie, computer, razzi nello spazio, e centinaia di milioni di persone sottratte all’atavica miseria delle campagne per provare a costruirsi un futuro in nuove città tirate su in un attimo.

I cinesi si sentono in buona misura sotto esame; ma si aspettano che sia un esame oggettivo, non una bocciatura già pregiudicata. Invece, c’è il rischio che, dal loro punto di vista, gli ospiti occidentali si rivelino antipatici e prevenuti, lasciando in loro l’impressione duratura che siano irrimediabilmente stronzi e un po’ barbari proprio come, in Asia, si dice da decenni.

Tanto più che tutto questo accade a fronte dell’amico Putin che durante la cerimonia di apertura manda tank e bombardieri sulla confinante Georgia: e non una autorità occidentale che abbia detto mezza parola, non una bandierina o un girotondo a Piazza di Spagna. Tutti troppo occupati a essere maleducati coi cinesi?

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mercoledì 6 Agosto 2008, 01:19

Prospettive di vita giapponese

Oggi ho fatto proprio bene a mettere in programma due cose che i visitatori di breve periodo a Tokyo normalmente non fanno, perché ho avuto un’illuminazione.

La prima cosa è stata quella di investire un po’ di yen in un tour guidato fuori dalla città, a vedere le pendici del Monte Fuji e la zona termale elegante di Hakone. Il tour in sé non è stato il massimo, perché il tempo era coperto e il Fuji si è visto ben poco, ma alla quinta stazione (quasi 2400 metri di altitudine e 28 gradi di temperatura pur in un giorno senza sole) ho di nuovo assaggiato la strabiliante densità di questo popolo: era come andare ad un qualsiasi rifugio alpino di quell’altitudine in estate, solo che invece di esserci un rifugio c’erano sei palazzi di quattro piani, e invece di esserci qualche decina di persone intente a prendere il sole o a partire per le salite più serie ce n’erano probabilmente oltre un migliaio: erano tutti vestiti tecnicissimi da scalatori provetti, ma il sentiero alpino che porta in cima al Fuji era più o meno come via Garibaldi il sabato pomeriggio.

Uscendo dalla città, ho scoperto che il Giappone ha sì 120 milioni di abitanti in un territorio grande come la Germania, ma questi abitanti sono concentrati nel 25% del territorio costituito da pianure o da fondovalli; il rimanente 75% sono montagne praticamente disabitate. Per questo motivo, finché si sta in pianura non si vedono che case, case, case e case a perdita d’occhio per decine e centinaia di chilometri, al massimo – dopo i primi 30-40 km di allontanamento dal centro – inframmezzati da qualche timido campo di riso (non risaia, che a quanto pare qui non li allagano, ma seminano a giugno e raccolgono a ottobre; tanto c’è abbastanza acqua nell’aria per tutta l’estate, è come se le piante fossero a mollo).

Poi, d’improvviso, si arriva al bordo della montagna; e di botto le cose cambiano. Lì gli insediamenti umani sono piccoli villaggi che si fanno faticosamente strada in mezzo a una vegetazione lussureggiante, densissima, quasi impenetrabile; che siano foreste (come per la maggior parte) o prati di erba alta mezzo metro, la natura crea un intrico misterioso che respinge. In più, l’orografia del territorio è labirintica, perché il Giappone non è stato creato da uno scontro di continenti con successiva erosione delle acque, ma da eruzioni vulcaniche che ogni tanto, anche in tempi geologicamente recenti, creavano una nuova montagna dove prima non c’era, in un luogo più o meno casuale.

Si capisce insomma come i giapponesi da una parte si schiaccino in pianura, e dall’altra abbiano questo rispetto atavico per la natura che ce li schiaccia: vorrebbero allargarsi, ma vulcani, terremoti e foreste glielo impediscono.

La sera, poi, sono andato a cena a casa del mio amico Izumi; è un’opportunità molto rara perché non è facile essere invitati in casa da un giapponese. Io mi ero preparato, mi ero portato il regalo, mi ero anche tenuto da parte un paio di calze nuove, ma ero piuttosto teso all’idea di confrontarmi con tutti i vari tabù dei giapponesi, pur se il mio amico ha girato il mondo e in patria è considerato molto occidentalizzato. Invece è stata una bella serata, soprattutto perché ho scoperto un ulteriore livello della cortesia dell’ospite: se il tuo invitato scatarra nel bicchiere perché non sa che è maleducazione (è solo un esempio, non l’ho fatto…), tu non devi semplicemente fingere che vada tutto bene; devi prendere il tuo bicchiere e scatarrare anche tu giurando che quella è la normalità delle buone maniere locali. In alcuni casi ha usato anche l’inganno, ad esempio insistendo perché ci trovassimo alla stazione di Meguro per andare insieme a casa sua, per poi scoprire che casa sua è a 10 euro di taxi, che lui si è fatto una volta per venire a prendermi e una seconda per riportarmi indietro (la terza l’ho pagata io).

Però ho capito una cosa importante: che quel che si vede dall’esterno, cioè la folla inimmaginabile, i formicai umani, il rumore, le luci, la confusione e l’intruppamento, ha un suo contrappeso non evidente nello spazio privato, che pure esiste, nelle viuzze semideserte e silenziose di periferia, e nelle case piccole ma accoglienti che ci si affacciano sopra. Anche esse stracolme di roba, affastellata in modo incredibile, tanto che alla fine mi sono un po’ preoccupato perchè il mio regalo occuperà una trentina di centimetri di diametro e in quella casa è una percentuale significativa dello spazio disponibile. Però tranquille, ben studiate, piene di vecchi mobili di legno o magari di plastica.

La vita è dura per i giapponesi, e noi bene abituati non sappiamo nemmeno immaginare quanto: io sono andato via alle undici e mezza e la figlia più piccola del mio amico, vent’anni e qualcosa, non era ancora tornata dal lavoro come commessa in palestra; i giapponesi lavorano sei giorni su sette, per tutto il giorno e spesso anche la sera, e per riprendersi hanno una settimana di ferie l’anno. Non è un caso che sui treni del sistema ferroviario più efficiente del mondo, dove nulla si rompe mai e un minuto di ritardo vale le scuse in ginocchio dell’intera azienda, si leggano continuamente nei pannelli informativi, tutti i giorni, uno dietro l’altro, annunci di questa o quella linea bloccata per “incidente”. Dopo dieci minuti, pulito il sangue, i pendolari ricominciano a scorrere.

In origine, dal dopoguerra fino agli anni ’80, tutto questo sacrificio – quello che ti viene richiesto in quanto piccola rotellina senza spazio di manovra, ma con l’orgoglio di contribuire al fatto che la tua comunità primeggi nel mondo – era ripagato da una grande ricchezza collettiva, che faceva essere i giapponesi danarosi quasi quanto gli arabi. Da quindici anni, dopo la crisi e la globalizzazione e l’esplosione degli odiati cugini cinesi, non si vede nemmeno più bene il perché di tutto questo; se non, forse, per godersi per sei o sette ore al giorno – tra vita, pasti e sonno – quei pochi metri quadri di periferia.

[tags]viaggi, giappone, ospitalità, fuji, jinshinjiko[/tags]

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domenica 27 Luglio 2008, 20:37

Riots: 1%

MFP, commentatore saltuario di questo blog e di molte liste di discussione dell’Internet italiana, ha inviato la sua dichiarazione e la sua costituzione al presidente Napolitano: e noi doverosamente riportiamo, affinché ognuno si faccia le proprie considerazioni.

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