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Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


martedì 16 Settembre 2008, 13:34

Moderazioni accidentali

Stamattina Specchio dei Tempi pubblica uno “speciale via Monte Ortigara”: ben due delle lettere odierne si lamentano del tratto di strada di fronte alla biblioteca civica.

Nella prima, una signora si lamenta di essere stata molestata da due ciclisti che percorrevano il marciapiede e le hanno chiesto di spostarsi; nella seconda, la lamentela è che durante le partite giovanili domenicali sui campi di calcio ci sono numerose auto parcheggiate in doppia fila e bisogna andare sulle tribune a chiedere di spostarle, e nonostante questo un vigile presente non è intervenuto.

E io ho pensato che in entrambi i casi le persone che si lamentano hanno formalmente ragione, ma che la cosa si sarebbe risolta molto più semplicemente con un po’ di cortesia e tolleranza reciproca; in fondo alla signora sarebbe costato poco fare un passo più in là e far passare le bici, invece di piazzarsi in mezzo al marciapiede come una giustiziera, e anche il dover perdere un minuto a farsi spostare una macchina può essere compensato da quando toccherà a noi scendere un attimo per una commissione veloce, e lasciare la macchina in doppia fila sarà magari l’unica alternativa allo spuzzettare in giro per venti minuti cercando un posto che non c’è. Certo questo non giustifica lo sfrecciare in bici sotto i portici o il mollare la macchina in mezzo alla strada per mezz’ora senza curarsene; ma, appunto, est modus in rebus.

Pensavo a queste cose quando, poco fa, stavo guidando su corso Ferrucci per tornare in ufficio. Sono arrivato all’incrocio con via Monginevro, dove volevo girare a sinistra per prendere da mangiare nella piazzetta. Mi sono accodato a una lunga fila di auto in attesa di svoltare; in cima c’era una macchinetta, che poi ho scoperto guidata da un vecchietto, cosa peraltro intuibile perché si era fermata per storto proprio all’inizio dell’incrocio, costringendo il furgone e le auto che la seguivano a restare molto indietro.

Il vecchietto pareva del tutto addormentato: non ha girato anche quando dall’altra parte non è arrivato più nessuno, e non ha accennato a muoversi nemmeno quando il semaforo è diventato giallo. A quel punto ho capito che non ce l’avrei mai fatta a girare; per cui, sfruttando l’assenza di auto in arrivo, mi sono spostato e ho cominciato a superare sulla destra la fila di veicoli fermi, per poi girare più avanti e parallelamente a loro.

Peccato che il furgone che stava un paio di auto davanti a me, spazientito dall’abulia del primo della fila, abbia avuto la stessa idea e abbia cercato di spostarsi sulla destra esattamente mentre io lo sorpassavo. Andavamo entrambi piuttosto piano, io ho suonato il clacson e il furgone ha subito inchiodato; ma ci siamo toccati.

A questo punto abbiamo accostato, siamo scesi, e il signore del furgone si è subito scusato. La situazione era dubbia; tecnicamente io avevo ragione, ma fino a un certo punto, visto che stavo sorpassando a destra la fila di auto in svolta (cosa permessa) ma anche che il semaforo era già diventato rosso e che io comunque volevo poi svoltare a sinistra davanti a loro. Il signore però non ha provato né a scaricare la colpa, né a lamentarsi; abbiamo guardato il danno, che consiste in un rotondo incavo nella carrozzeria all’altezza della ruota, dal lato del guidatore, tra la fine della porta davanti e la ruota stessa. L’incavo è visibile e innegabile, ma non più di questo; se non lo si va a cercare, probabilmente non lo si nota.

Insomma, il signore mi ha detto che se volevo mi dava i dati e facevamo la denuncia. Io ci ho pensato; avendo ragione, avrei potuto rifarmi gratis la parte bassa del davanti, compreso il paraurti che già ha graffi e sbugnature. Però il danno era davvero minimo, e io ho ripensato alle considerazioni della mattina. Una città è un luogo sovraffollato, dove siamo tutti di corsa; di manovre così ne facciamo a bizzeffe; sarebbe potuto succedere anche a me. Quindi mi sono limitato a prendere i dati, in caso di necessità, ma poi ho lasciato perdere.

E’ un periodo in cui c’è una evidente e sempre più folle tendenza a giudicare per categorie e per preconcetti, attribuendo ragione e torto con tanta prontezza quanta approssimazione. Questo vale per episodi clamorosi come il ragazzo nero ucciso a Milano, dove pare che la vittima avesse prima rubato nel negozio degli uccisori e che la rissa sia iniziata per questo, e dove alcune testimonianze suggeriscono persino che sia stato lui il primo a menare le mani, o che sia morto per un singolo colpo sferrato durante la colluttazione, e insomma non si capisce ancora bene chi abbia fatto cosa e perché, ma per mezza Italia è già diventato un episodio di razzismo e di “caccia di gruppo al nero con le spranghe”. Ma vale anche per piccoli casi di cronaca come questo, intitolato “Ventenne travolto da ubriaco”, dove come al solito i parenti della vittima parlano di “giustizia”, e però poi nel testo dell’articolo si scopre che l’“investitore” era sì ubriaco, ma fermo in attesa di girare a sinistra, e il “ventenne travolto” gli è arrivato dentro da dietro ad alta velocità.

Alla fine, persino quando c’è una ragione e c’è un torto, sono pochi i casi in cui chi ha torto ha anche mostrato cattiveria, supponenza, cattiva fede. Eppure, in un clima di frustrazione generale, è più facile per tutti se al torto si associa automaticamente la dannazione assoluta. Purtroppo, però, questo non facilita la convivenza.

[tags]torino, incidenti, giustizia[/tags]

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mercoledì 23 Luglio 2008, 09:43

Racconto di via Cuneo

All’imbocco di via Cuneo sembra quasi un quartiere per bene, con un fiume per bene e dei palazzi che lo guardano attraverso gli alberi, cercando di non diventare abbastanza alti da vedere gli spacciatori dall’altra parte del fiume.

All’incrocio di via Cuneo con via Cecchi bisogna schivare le macchine abbandonate ovunque, ferme di fronte a un phone center qualsiasi, cercando di non ostruire troppo il passaggio dell’11.

Poi via Cuneo sfocia in una piazza rotonda in salita che sembrerebbe un angolo remoto di Parigi, se non fosse che il suo solo scopo è coprire una ferrovia che non esiste più, il cui trincerone però resiste cocciuto per testimoniare che, sì, una volta si usavano i treni.

Di lì, prosegui per via Cuneo e ti sembra di esserti sbagliato un attimo, perché improvvisamente compaiono un rialzo nuovo, un vialetto nuovo, un giardino nuovo che sembra preso di peso dalla periferia dell’estrema cintura, teletrasportato fino lì dagli ultimi suburbi di Settimo o di Nichelino; ed è l’unica cosa nuova che sia stata fatta a via Cuneo negli ultimi cento anni.

Poi in via Cuneo inizia una maestosa alberata, una striscia di Champs-Élysées che messa lì in una viuzza qualsiasi non ha veramente alcun senso, se non quello di ricordarci che una volta chi costruiva le fabbriche aveva anche l’orgoglio di metterci una alberata davanti. Le fabbriche sono andate da tempo, e guardando attraverso un cancello arrugginito si vede un enorme cortile di cemento bordato di arbusti fioriti, con un unico prepotente cespuglio che ha spaccato il cemento e svetta solitario proprio al centro; un unico fiore su una gigantesca lapide all’industria che fu. Vorresti fermarti e fargli una foto, ma non puoi, perché seduti tra gli alberi ci sono due messicani stanchi che parlano di gringos e ti guardano storto, o forse sono solo due pusher appartati.

Di lì a poco via Cuneo attraversa corso Vercelli, una specie di Valle della Morte larghissima e fatta solo d’asfalto e macchine che sfrecciano da nulla a nulla, senza neanche un filo d’erba; per un corso torinese è un evento troppo raro per non essere voluto.

E’ solo dopo corso Vercelli che inizia via Cuneo, quella vera: un solo isolato di antiche case basse, in pratica cascine il cui progetto fu a malapena ritoccato per trasformarle in case di ringhiera, uso operai con tanta prole e pochi soldi. Ora sono anonime e silenziose, al momento è giorno e nessuno sta ancora litigando, ma per l’epoca dovevano essere palazzoni traboccanti di vita.

Nell’unico isolato di via Cuneo, fai lo slalom tra i neri; se vedi qualche italiano è lì che corre via, per non farsi pisciare addosso. Tre neri di un paese africano qualsiasi sono addossati a una vecchia Ritmo; schiamazzano, e si vede benissimo che per loro il primo Novecento non è mai esistito. Proprio lì, al numero sei di via Cuneo, è nato Gipo Farassino; dev’essere per quello che, praticamente di fronte, gli resiste un insensato negozietto di chitarre elettriche.

Via Cuneo finisce contro un passaggio pedonale, un modesto tentativo di buco nella corsia muragliata a centro strada che permette al 4 di scorrere per corso Giulio. Anche il 4 scorre piano, non solo perché è il tram più lento della storia della tramvieria, ma perché cerca di non farsi troppo notare dagli extracomunitari della zona, per non essere preso a bottigliate. Prima o poi, come nel terzo mondo, tireranno su delle pareti di cemento e faranno scorrere il tram in un tunnel, per evitare anche solo l’affaccio su via Cuneo, il nuovo Bronx di Torino.

Eppure, vista così, via Cuneo è una meraviglia, un liofilizzato di storia umana 1900-2008, dove i poveri di ogni epoca e di ogni generazione hanno preso il posto dei poveri dell’epoca e della generazione precedente, partendo dal piemontese stretto e arrivando all’igbo e allo yoruba.

Ma è più facile dirlo quando uno non ci deve abitare.

[tags]torino, via cuneo, immigrazione, storia, farassino[/tags]

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sabato 19 Luglio 2008, 10:05

Grom

Il mio esperto personale di gelato comunica che secondo lei anche da Grom hanno ceduto, e hanno cominciato a usare il latte condensato; sarà perché hanno appena aperto il terzo punto vendita in via Garibaldi?

Effettivamente era un po’ di tempo che non ci andavo; ci siamo andati ieri sera ed è stato un po’ deludente. Il gelato è comunque molto buono, per carità; è tutto il contorno che sta diventando un po’ troppo stucchevole.

Tu arrivi lì e ti metti in coda. Intanto, devi essere fortunato, perché c’è spesso una lunga coda; in più, da Grom non è ancora arrivata la magica invenzione del distributore di numerini, che ormai ha pure il panettiere sotto casa. E così, sei costretto a stare in piedi e fermo lì per dieci o venti minuti, a presidiare il tuo posto. Ora, se ci pensate, c’è un solo motivo per cui possono non aver messo i numerini: per costringere la gente a stare in piedi in fila, e fare in modo che ci sia sempre la coda fuori ben visibile, trasmettendo a chiunque passi di lì l’idea che quello sia un negozio molto richiesto e quindi valga la pena di provarlo. Tutto questo al costo di far stare scomodi i propri clienti, con evidente disprezzo nei loro confronti (e non solo nei loro: la coda, quando è lunga, ostacola anche il passaggio nella via, e provate a passare di lì in bici…).

La coda è artificialmente lunga: infatti ci mettono una vita a servirti, facendo mille mossettine che non ho mai visto fare in altre gelaterie, ma che dubito contribuiscano al gusto del gelato; in più, sempre per fare i fighi, ti chiedono se vuoi il cono di wafer o di biscotto, creando nelle persone dilemmi esistenziali che bloccano tutto per ore, anche se poi i due coni hanno esattamente lo stesso gusto. Ieri avevamo due persone davanti a noi, ma ci abbiamo lo stesso messo un quarto d’ora…

In compenso, è interessante il tipo di frequentazione: buona parte della clientela è infatti costituita da quelli che devono assolutamente andare in un posto carissimo e alla moda (e Grom è entrambe le cose) per sentirsi fighi. Questa parte di mondo è a sua volta divisibile in due sottocategorie: quelli che hanno i soldi e quelli che non hanno i soldi.

Quelli che hanno i soldi si presentano normalmente con un macchinone, che abbandonano in mezzo alla strada proprio davanti al portone, anche se c’è un posto meno problematico tre metri più in là. Spesso il macchinone è un SUV o un monovolume di quelli enormi, anche se sono in due. Tutti i componenti del gruppo sono firmatissimi; in genere cercano di passare davanti, e comunque prendono come un insulto personale il fatto di dover fare la coda come gli altri. Il peggio capita con i bambini: non solo vedi creature di tre o quattro anni con vestiti firmati dalla testa ai piedi, ma in genere tali creature sono prive di qualsiasi educazione e cominciano a correre qua e là, a saltare addosso al bancone e a fare i capricci sul gusto del gelato.

Quelli che non hanno i soldi sarebbero più normali, anche se poi arrivano al bancone in cinque e ordinano due coppette piccole (comunque due euro l’una per un’oncia di gelato); però ogni tanto cominciano a fare i capricci anche loro, per sentirsi più ricchi.

Io ci torno ogni tanto, perché il gusto al cioccolato extra è proprio buono; ma alla fin fine preferisco il caos allegro, popolare, ben organizzato e a prezzi ragionevoli del Siculo di via San Quintino.

[tags]torino, gelaterie, grom, negozi[/tags]

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martedì 15 Luglio 2008, 15:43

La campagna in città

Alle volte sei lì con te stesso e le tue domande senza risposta, tipo “Ma perché io che lavoro con i cellulari e co-possiedo una azienda di applicativi mobili vado in giro con un Nokia del 2002, mentre gente che non arriva a fine mese e non sa distinguere un browser dal solitario di Windows fa la fila di notte per comprarsi un iPhone a 100 euro al mese?”.

Alle volte invece benedici le tue scelte, tipo oggi che ero in giro in bici, sono entrato da Fnac e ho visto almeno cinquanta euro di cose da comprare, tra cui l’intera discografia dei Jethro Tull in offerta a cinque euro a CD: ok, avendoli tutti in plurime copie MP3 è puro feticismo, ma ne vale la pena; allo stesso prezzo ci sono anche i Dire Straits e a poco di più i Led Zeppelin, che a me non sono mai piaciuti più di tanto ma è un’ora che ho in testa il riff di Good Times Bad Times e non se ne vuole andare. E poi per soli ventisette euro e rotti si può comprare il mattone antologico di Cuore; ma in bici, senza zaino, non ci stava, e quindi ho risparmiato i soldi fino alla prossima visita.

Tutto questo era per introdurre il racconto di un bel giro in bici fatto domenica pomeriggio. Se non usate il mezzo, probabilmente penserete che fare un giro da diporto nel raggio di dieci chilometri da piazza Rivoli sia impossibile, trattandosi di zona pesantemente urbanizzata; ma ciò è decisamente falso. Basta un quarto d’ora di pedalata per trovarsi in mezzo all’agricoltura; io mi sono infatti diretto verso Collegno, superando il Campo Volo e il Parco Ian Gillan per infilarmi nella mossa pianura che sta tra la Dora, Collegno e Rivoli.

Ad esempio, dal cavalcavia della tangenziale che marca la fine di Collegno c’è un panorama magnifico sul Musiné, con i campi di grano in mezzo e l’antica cattedrale laica – bella quasi come le giustamente decantate OGR di via Boggio Borsellino – del Cotonificio Valle Susa. Poi si risale leggermente verso Alpignano, si piega dentro il paese e si arriva al cimitero che aggetta sul fiume (sia Collegno che Alpignano hanno il cimitero che aggetta sul fiume, sulla sponda sud, alla fine della salita che risale dal ponte del paese: si saranno messi d’accordo?).

E’ un percorso che conosco bene perché lo facevo già quando abitavo a Rivoli; e vi giuro che non sembra affatto di stare in città. Del resto, il nome Alpignano vuol dire “villaggio delle Alpi”, uno dei tanti toponimi celto-longobardi che finiscono in -gnano sparsi per tutta la bassa Europa, da Perpignano – il cui senso non ho trovato perché mi sono perso in un sito in catalano che protestava contro l’uso del termine “alpinismo” in quanto razzista verso i Pirenei – fino a Lampugnano, che vuol dire “villaggio delle macchine puzzolenti che cercano parcheggio per prendere la metro”. E quindi, sotto le Alpi si sta, con una bell’ariëtta che vien giù dalle montagne e che ogni tanto diviene un certo tifone tra i raggi della ruota.

Proprio dal cimitero d’Alpignano si può imboccare una scorciatoia, senza dover discendere fino al ponte vecchio e poi risalire una versione in sedicesimo del muro di Grammont. Basta prendere a destra e un piccolo passaggio ciclopedonale conduce al ponte del tubo, ovvero una passerella sulla Dora costruita sopra un grosso tubo di qualche acquedotto che doveva proprio attraversare il fiume. Si emerge così nelle frange orientali di Alpignano, e si può presto girare a destra verso Pianezza.

E’ lì che ho scoperto un nuovo, bellissimo percorso ciclabile costruito da pochi anni sulla riva settentrionale della Dora. Esso attraversa tutto il comune di Pianezza, da confine a confine, collegando due dei maggiori landmark del suo territorio: a ovest, la salitina dove durante l’esame di guida ho fatto una partenza col freno a mano che stanno ancora applaudendo adesso; a est, il campo di calcetto con vista tangenziale dove più volte io e l’ex staff di Vitaminic abbiamo dato spettacolo.

In pratica, dall’angolo di Alpignano si diparte una strada ciclabile larga, ben segnalata e piena di ghiaietto minimo, molto ben battuto; si percorrono due tornanti in discesa e ci si trova poi a seguire il fiume, stretti tra le sue acque e quelle di un canale di servizio che rappresenta un’opera idraulica notevole, scavata nella parete della gola, e che risale addirittura al Settecento, quando fu costruito per alimentare il filatoio che stava nella golena.

Si sbuca quindi al porto di Pianezza, proprio sotto l’antico gioiello della Pieve di San Pietro. Si attraversa una zona di antiche fabbriche e di una spettacolare casa di ballatoio costruita proprio a pelo d’acqua, dove – era domenica pomeriggio – tutti gli abitanti dei vari piani si son messi a guardarmi dai balconi; poi, dove la golena si chiude, riparte la strada ciclabile.

Questo è il punto di una delle mie grandi avventure: giunsi qui, in bici, a metà degli anni ’90, e scoprii sul fiume un’antica, instabile passerella di ferro arrugginito. L’incoscienza mi prese, e così decisi di farmela tutta, bici alla mano, sperando che il ferro non si piegasse d’improvviso scaraventandomi svariati metri più sotto in mezzo alla Dora. Non si piegò, e così io potei percorrere con successo la strada in completo abbandono che collegava l’altro lato con Bruere, passando vicino al già citato cotonificio, fino a sbattere contro un cancello chiuso, però dalla parte interna. Dovetti trovare un canonico buco nella rete per uscire, e solo allora potrei leggere qualche decina di cartelli di pericolo messi nel verso opposto; ma fu un’avventura memorabile.

Bene, ora al posto della vecchia passerella ce n’è una nuova, che racconta come quella vecchia (foto: sì era proprio lei) risalisse al 1917, in sostituzione di altre precedenti, e fosse in completo abbandono dal dopoguerra; serviva alle contadine di Bruere che venivano a lavorare nelle fabbriche di Pianezza, e, visto che l’orario di lavoro era lungo e le contadine uscivano a notte inoltrata, fu teatro di svariati stupri, rapine e ammazzamenti.

La nuova passerella è ancora chiusa in attesa della “messa in sicurezza” della strada dall’altro lato che io feci dieci anni fa (ah, che pavidi); spero che la aprano presto, perché è un bel percorso. Ho quindi proseguito sulla sponda nord, dove seguendo le abbondanti indicazioni si infila un buco sotto la tangenziale e si sbuca al ponte di Collegno.

E qui vengono le note dolenti: non mi sono accontentato, e ho tentato il bis. Già, perché anche a Collegno hanno deciso che dovevano avere un parco agricolo della Dora, con i suoi bravi percorsi ciclabili; il parco inizia davanti al cimitero, per la strada del canile da cui proviene il mio gatto. Lì c’è l’unica mappa del parco, che mostra chiaramente un percorso per arrivare a Torino, zona campo rom della Pellerina.

Di lì in poi, sono solo percorsi sterrati, fangosi, tenuti malissimo, senza una freccia che sia una, pieni di inutili cartelli modello sussidiario di quinta elementare (“scheda: che cos’è un fiume”) ma senza alcuna indicazione sulle direzioni da prendere. In pratica, il percorso per Torino finiva nella selva oscura; non volendo tornare indietro per chilometri, ho preso l’ulteriore nuova passerella sulla Dora che dovrebbe portare, a scelta, in frazione Castorama o in frazione Burger King; anche lì, zero frecce e un sacco di tracce agricole che finiscono nel nulla. Ho pedalato avanti e indietro nel fango per un’ora, auspicando malattie fulminanti per tutta l’amministrazione comunale di Collegno; alla fine l’unico modo per uscire è stato tagliare attraverso il cortile di una cascina e poi per un prato, navigando tra l’erba incolta, fino a impattare il guard-rail della statale 24.

Poi, il ritorno per via Pianezza e la Pellerina, dove un gruppo di russi ubriachissimi aveva portato un SUV fin nel cuore del parco e lo usava per sparare musica orrida a volume pazzesco, circondato a debita distanza da decine di italiani che dicevano “lo facessimo noi, i vigili ci sequestrerebbero anche le mutande”. Arrivo a casa stanchissimo, ma contento: dovreste farle più spesso, queste cose.

[tags]torino, collegno, alpignano, pianezza, bici, dora, parco, sindaco-collegno-caghetta-fulminante[/tags]

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venerdì 11 Luglio 2008, 15:45

Troppo Traffic

Probabilmente sono io che sono troppo torinese: non perdo mai una occasione per brontolare. Eppure vorrei dire qualcosa sulla querelle che si trascina da mesi sul futuro di Traffic, nata dalle dichiarazioni del sindaco Chiamparino sulla possibilità di tagliargli i fondi e trasformarlo in un evento a pagamento, e dalle ripetute reazioni scandalizzate del jet-set musicale della città, capitanato dal direttore di TorinoSette Gabriele Ferraris (vedi l’editoriale dell’altra settimana e le frecciatine nel suo articolo di oggi).

Premetto che mi sento un po’ in colpa, perché tra i diretti predecessori di Traffic c’era quel Mac Pi 48 che io e altri abbiamo organizzato per tutta la seconda metà degli anni ’90: un megaconcerto gratuito nel cortile del Castello del Valentino. Lì lo scopo e il giro del fumo erano chiari: il Politecnico ci metteva alcune migliaia di euro per il palco e il cachet degli artisti, decine di studenti ci mettevano lavoro volontario, si invitavano artisti alla portata (comunque avemmo gente di ottimo livello, a partire dal debutto live all’aperto nella storia dei Subsonica) e si faceva una gran festa, senza pretendere chissà quale raffinatezza culturale. Il rapporto coi vigili non era mai facile; oltre a tonnellate di burocrazia, ci veniva imposto un chiaro limite sul volume e il divieto tassativo di andare oltre la mezzanotte – e nonostante questo, una volta ci prendemmo una multa. Ci preoccupavamo comunque del disturbo; si trattava di una sola serata in pieno giugno, ma regolarmente riempivamo le case di volantini di scuse anticipate per il rumore e tarpavamo i mixeristi troppo allegri col volume, perché ci sembrava del tutto normale che a breve distanza abitassero persone che volessero stare il più in pace possibile.

Qualche anno dopo, ai tempi di Vitaminic, approcciammo il Comune per discutere possibili iniziative estive. Fu lì che scoprii il magico mondo dei concerti estivi: quello per cui, improvvisamente, da metà giugno a fine luglio tutte le amministrazioni pubbliche italiane decidono di voler riempire le piazze con la musica (o, in alternativa, il cabaret). Per i cantanti è un periodo d’oro: qualsiasi canaro stonato costa in quel mese e mezzo tre o quattro volte di più rispetto al resto dell’anno. Ma anche per gli organizzatori è un periodo d’oro: dovunque ci siano fondi pubblici, ci sono persone pronte a intascarli con ogni mezzo.

A Torino, in particolare, mi fu spiegato come le attività musicali estive fossero rigorosamente spartite tra tre o quattro organizzatori o “associazioni culturali”, ognuna con sufficienti connessioni politiche. Ogni tanto le connessioni di qualcuna si rivelavano non abbastanza resistenti e i fondi sparivano; fu così, per dire, che l’Associazione Culturale Barrumba al volger del millennio fu esiliata dalla città e costretta ad inventarsi il Chicobum Festival di Borgaro, che tirò avanti per sette anni senza grossi assegnazzi comunal-provincial-regionali, a dimostrare che un altro mondo sarebbe possibile, anche se l’anno scorso dovettero alzare bandiera bianca.

Tra quelli che a Torino continuano a vivere, gran parte del lavoro lo fa l’Associazione Culturale Hiroshima Mon Amour; compreso Traffic, anche se esso si è poi costituito in una sua propria Associazione Culturale Traffic, diversificando un po’ i loghi sulle richieste di assegnazzi. Traffic è un affare quasi milionario; qui, insomma, il giro del fumo comprende sovvenzioni pubbliche da (pare) centinaia di migliaia di euro, sommate a sponsor privati di dimensione simile o superiore, che servono per permettersi artisti di (vero o presunto) spessore internazionale in piena stagione di punta. Comunque, le associazioni culturali non fanno certo Traffic per cultura; per le decine di persone impegnate nell’organizzazione, si tratta di un lavoro, e come ogni lavoro va remunerato; quindi una parte di questo budget (non ho assolutamente idea di quanto) resta sicuramente nelle loro casse.

Il conseguente sospetto che quando Chiamparino e Ferraris discutono di cultura stiano in realtà discutendo di soldi è comunque legittimo; anzi, a me è venuto pure quello che stiano discutendo di politica, visto che Hiroshima, per dirne una, ha ospitato la festa finale della campagna “ribelli DS per Morgando contro Chiamparino e Bresso” dell’anno scorso, e magari il Chiampa s’è legato la cosa al dito; chissà, magari quelli di Hiroshima stanno già facendo le ricognizioni al parco Chico Mendes.

Chiaritovi quindi che quella su Traffic tutto è, meno che un’aulica discettazione sugli strumenti di diffusione della cultura e sulla loro sostenibilità, facciamo finta che lo sia e discutiamone un attimo. Ieri, verso le 22, essendo già in giro in auto, abbiamo provato ad andare al festival; peccato che nel raggio di chilometri a sud della Pellerina – un’area densamente abitata – non ci fosse un parcheggio disponibile, ma solo decine di macchine che gasavano gli abitanti girando in tondo e non sapendo dove fermarsi. Deciso che non avevo voglia di andarci a piedi, sono tornato a casa, dove sono stato poi svegliato dall’evento clou: un concerto di musica da discoteca a un volume mostruosamente alto, tanto che a casa mia, a una decina di isolati dal limite del parco, tremavano le pareti fino a mezzanotte e un quarto, anche con le finestre chiuse. Non oso immaginare chi abita più vicino…

Supponiamo comunque di riuscire ad andarci, come ho fatto varie volte negli scorsi anni. Bene, sgomitate e arrivate sotto il palco; nonostante il volume, non riuscirete a concentrarvi sulla musica. Difatti, tre quarti delle persone attorno a voi sono lì per caso, “tanto è gratis”, e passano la serata a chiacchierare e ridacchiare a voce alta; ogni tre minuti, nel bel mezzo di un brano, passa un carrettino col compressore acceso e un venditore che grida a voce altissima “cocabbirraggelatiiii…”. E’ chiaro che a Traffic, della musica, non frega niente a nessuno, se non a una minoranza di appassionati che avrebbero volentieri pagato cinque euro per godersi gli artisti in santa pace, invece che pigiati in mezzo a tutti i tamarri della città in libera uscita. Aggiungeteci che, quando il concerto finisce, si rischia la vita perché decine di migliaia di persone si accalcano in un vialetto di tre metri di larghezza, intasato di bancarelle promozionali, pur di uscire…

Insomma, Traffic è non solo insostenibile economicamente, ma è insostenibile anche ambientalmente, per chi ci vive accanto e per chi ci va. Sarà anche un elemento fondamentale della cultura torinese, come il Salone del Libro e il Film Festival, ma a questi ultimi eventi l’ingresso si paga! Gli organizzatori continuano a dire che questo è l’unico festival gratuito di grandi dimensioni in Europa; ma se nessun altro lo fa, non sarà che c’è un motivo?

Io spero che Traffic continui, però come tutte le altre rassegne: voglio dire, quelli di Colonia Sonora (aka Associazione Culturale Radar, ovviamente) si prendono qualche soldo pubblico ma non certo su questa scala, fanno pagare i biglietti, portano artisti interessanti invece di vecchi strabolliti (Sex Pistols e Patti Smith) e amici degli amici (Afterhours e Massimo Volume), e non si riempiono tanto la bocca di presunta indignazione se gli chiedono di far quadrare un po’ meglio i conti, mettere due lire di biglietto, spostarsi in un luogo con più parcheggi e meno case ed evitare di intasare e assordare mezza Torino. Suvvia, Casacci & friends: si può fare.

[tags]musica, torino, traffic, festival, soldi pubblici, rumore, hiroshima mon amour, chiamparino[/tags]

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giovedì 10 Luglio 2008, 08:54

[[Soulwax – NY Excuse]]

Non ho bene idea di che spettacolo possano fare dal vivo due belgi amanti dell’elettronica; del resto, se volete vedere gente che dal vivo sicuramente non manca di presa, è meglio incontrarsi piuttosto domenica sera a Collegno per i Deep Purple.

Ciò detto, NY Excuse dei Soulwax, con il suo andamento ipnotico e postmoderno, è uno dei pezzi migliori dell’arte elettronico-concettuale degli ultimi anni: sono quindi curioso di vederli stasera alla Pellerina per Traffic. Nel frattempo, potete mettervi anche voi in piedi e declamare: “This is the excuse that we’re making / Is it good enough for what you’re paying?”

[tags]soulwax, ny excuse, deep purple, musica, traffic, torino[/tags]

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martedì 1 Luglio 2008, 17:26

Contabilità giudiziarie

Ogni tanto mi viene da fare qualche considerazione impopolare; deve esserci da qualche parte nella mia personalità un elemento antisociale.

Alle volte sono osservazioni innocue o semplicemente in contrasto con il segno dei tempi. Per esempio, ieri ho commentato la lettera di un genitore che si lamentava che alla sua figlia di tredici anni avessero dato troppi compiti per le vacanze; naturalmente ho suggerito che il genitore, volendo, era libero di dire alla figlia di non fare i compiti e di passare il tempo in discoteca, ma che poi non si lamentasse se da grande lei si sarebbe dimostrata scarsamente vogliosa di studiare e se come risultato fosse finita nel gorgo del precariato da call center. Come risultato, mi sono beccato una selva unanime di critiche e di lazzi, sia dai genitori di bimbi stressati, scarsamente interessati ad esercitare la faticosa autorità che gli spetta, sia dai lavoratori offesi dei call center che rivendicavano la propria assoluta professionalità e preparazione, sia dai moralisti indignati per l’insinuazione che d’estate una ragazzina di tredici anni possa andare in discoteca e magari farsi pure baccagliare (mi sa che non hanno visto Thirteen).

Tutto questo per dirvi che le recenti evoluzioni finanziario-giudiziarie della vicenda Thyssen-Krupp mi lasciano francamente perplesso. Bisogna ovviamente fare tutte le dovute premesse, cioè che nessuna cifra può restituire una persona cara di trent’anni morta in condizioni simili, e che allo stesso tempo è assolutamente giusto che le vedove e i figli ricevano una compensazione più che adeguata. Trovo quindi giusta non solo la sottoscrizione che, sull’onda dell’emozione pubblica, ha portato (si dice) diverse centinaia di migliaia di euro ad ognuna delle famiglie, ma anche la transazione con cui l’azienda ha appena versato una cifra mediamente di due milioni di euro per famiglia, in cambio della loro volontaria rinuncia a costituirsi parte civile al processo.

Credo che, se fossi stato nelle stesse terribili condizioni, avrei fatto anch’io la stessa scelta: alla morte non si può comunque rimediare, ma con due milioni di euro si può garantire un futuro agiato ai propri figli, perdipiù per famiglie operaie che non avrebbero di norma alcuna speranza di vedere nella propria vita anche solo un decimo di quella cifra.

Allo stesso tempo, è inevitabile – lo prevede la legge stessa – che la firma di un accordo di conciliazione tra le parti, con congruo risarcimento economico, attenui la posizione processuale dei dirigenti Thyssen, nonostante l’ampia quantità di fatti che parrebbero sostenere la tesi secondo cui loro sapessero perfettamente quali erano i rischi e avessero coscientemente deciso di correrli per risparmiare. E quindi, trovo incoerente accettare un assegno ieri e poi oggi presentarsi in tribunale per invocare l’ergastolo e financo (letteralmente) le fiamme dell’inferno per quelli che l’hanno firmato; ognuno fa legittimamente le proprie scelte, ma un dignitoso silenzio sarebbe stato meglio. Altrettanto triste il messaggio conclusivo del sindacalista, una cosa che suona come “ok, vi abbiamo aiutato a firmare l’accordo, avete incassato, adesso dateci la nostra parte”; triste per la richiesta di soldi, e triste per l’ipotesi sottintesa che le famiglie possano ora scappare con il risarcimento fregandosene di tutto e di tutti.

Ma forse la tristezza è complessiva, e sta in una vicenda dove sin dal principio le vite umane sono state trattate come una voce di bilancio, dove esse sono state poi sfruttate e contese a fini elettorali, e che si conclude con una ulteriore monetizzazione, con conseguenti – garbate ma evidenti – discussioni su dove vada meglio impiegato il ricavato (e non abbiamo nemmeno parlato dei tanti morti di serie B, deceduti in fabbriche meno politicizzate o in angoli meno centrali della penisola, e conseguentemente presto dimenticati dai media e dalla solidarietà). Anzi, è più che triste: è normalmente umano.

[tags]lavoro, morti, solidarietà, thyssen, torino[/tags]

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lunedì 30 Giugno 2008, 17:05

Panorama in città

Dev’essere venuta l’estate, visto che è la prima volta quest’anno che dopo pranzo, a fronte di una giornata caldissima e persa in piccola contabilità di fine anno e altre faccende, cado con la faccia sul letto a metà pomeriggio e non mi sveglio se non dopo un’ora.

Sicuramente i miei orari lavorativi tenderanno a spostarsi verso la sera; nel frattempo, oggi ho fatto le mie commissioni in bici all’ora di pranzo. Mi è un po’ spiaciuto lasciare Parigi, perché è stata una bella settimana, ma ho fatto pranzo in un angolo di Torino bellissimo, che nemmeno i torinesi conoscono.

Si tratta del nuovo parco archeologico delle Porte Palatine; in pratica, subito dopo la porta romana c’è un piccolo cancello dal quale ci si inerpica su per una salita, sopra quella che sembra una collinetta ma in realtà è un ricovero artificiale costruito per ospitare i carretti di Porta Palazzo (ah, come siamo ingegnosi noi torinesi). In cima alla salita, ci si gira verso il centro e lo spettacolo è eccezionale: un grande prato verde corre fino alla porta e al residuo di mura romane, dietro il quale, come in un paesaggio di secoli fa, si vedono spuntare il Duomo, il Palazzo Reale, le case seicentesche di via della Basilica, e sulla destra invece le case di ringhiera sette-ottocentesche che circondano il mercato. Persino il palazzo comunale di piazza San Giovanni e la Torre Littoria – tra l’altro c’è su una grande bandiera italiana, e finalmente direi, visto che all’estero ci sono bandiere nazionali su qualsiasi torre o pennone e da noi mai nulla – hanno un loro senso in questa vista; tutto sembra, meno che di essere in mezzo a una città moderna. E anche la vista verso il fuori non è poi male, anche se oggi c’era una grande colonna di fumo nero che veniva da qualche edificio in fiamme (pensavo fosse finalmente bruciata l’autostazione di via Fiochetto, quello sì un pezzo di Bronx, e invece era qualcosa più in là, zona corso Regio Parco).

Tra l’altro ci sono delle panche di legno e delle sedie pesantissime, a libero servizio sotto gli alberelli finché qualcuno non se le fregherà. Vale la pena di andarci ogni tanto.

[tags]torino, porte palatine, caldo[/tags]

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venerdì 20 Giugno 2008, 14:28

Svolta a destra

Stamattina mi è capitato di far parte di un altro episodio stradale interessante.

Arrivando dal centro, percorrevo il sottopasso di corso Regina Margherita sotto la ferrovia per Milano; per i non torinesi, è un budello risalente agli anni ’30, martoriato dai cantieri, dove un corso principale si stringe in una corsia libera più una corsia preferenziale per senso di marcia, separate solo dalla striscia gialla dipinta.

Percorrevo il passaggio agli inevitabili 40 orari, dietro una lunga fila di auto, ed ero nel punto più basso, quello dove il passaggio si stringe per via dei pilastri centrali; conseguentemente ho accostato un po’ verso destra e ho sentito strombazzare. Dietro di me, a circa 80 all’ora, stava arrivando un’auto dei vigili; mi stava segnalando che non accostassi troppo, perché mi stavano per superare a destra sfruttando la preferenziale.

Compiuto il sorpasso, i vigili hanno proseguito sulla corsia preferenziale, mentre davanti a me, dove la corsia agibile si allarga quel tanto da permettere il passaggio di due auto affiancate a dieci centimetri di distanza, sulla parte destra, al fondo della salita, si è formata la solita corsia di auto in attesa di svoltare a destra in via Macerata.

Si tratta di una svolta a destra vietata; tuttavia è una manovra comunissima, che ad ogni ciclo semaforico fanno almeno una decina di auto, perché è l’unico modo che permetta di accedere dal centro alla zona di via Livorno, all’Ipercoop, al multisala Medusa, all’Environment Park e insomma a un intero quartiere di decine di migliaia di abitanti. Le svolte a destra e a sinistra sono infatti vietate anche in tutti gli incroci successivi per 1500 metri; il percorso legale per quel quartiere in sostanza non esiste, richiederebbe di non imboccare il sottopasso e passare da piazza Statuto (almeno 4-5 minuti in più, a seconda delle code) o di andare avanti fino a corso Svizzera per poi ritornare indietro da corso Umbria (allungando di oltre due chilometri). E quindi, la cittadinanza che frequenta la zona – me compreso – ha deciso da anni che, nonostante il cartello, la svolta a destra in via Macerata è legale.

Per svoltare, però, bisogna attraversare la preferenziale; e infatti, proprio mentre l’auto davanti a me stava per farlo, sono sopraggiunti i vigili. L’auto si è fermata per farli passare; i vigili però hanno inchiodato, hanno tirato giù il finestrino e si sono messi a redarguire il conducente. Il conducente aveva un passeggero che ha tirato fuori la testa e ha cominciato temerariamente a discutere; al che pure io ho spento la radio, abbassato i finestrini e carpito brani della discussione. Mentre l’incrocio si intasava, il passeggero ha spiegato ai vigili quello che vi ho spiegato io sopra, cioè che se tutte le svolte a destra e a sinistra sono vietate per chilometri la gente non può che infilarsi dove la violazione disturba di meno.

Alla fine, ognuno è rimasto della sua opinione: dopo quasi un minuto di discussione, con il sottopasso ormai abbastanza intasato, i vigili sono ripartiti senza fare la multa, e l’auto davanti a me ha effettuato la svolta vietata, con me dietro. Non so dare ragione a nessuno dei due; certo mi stupisce che ci si scanni sul sintomo – cioè se sia giusto o meno che tutti in quel punto svoltino in divieto – invece che discutere del problema, cioè di come ordinare nel modo migliore possibile l’esigenza di migliaia di persone di andare da A a B; insomma come non si colga la differenza tra vietare una svolta a destra ogni tanto, e vietare tutte le svolte per chilometri. Che poi è come la differenza tra un moderatore che una volta ti toglie la parola perché sei andato oltre il tempo stabilito, e un sistema in cui non puoi parlare mai.

[tags]torino, viabilità, vigili, segnaletica, multe[/tags]

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giovedì 19 Giugno 2008, 12:26

Altro cemento

Ieri, girando per il quartiere, sono ripassato dopo anni in via Pacchiotti, davanti a un vecchio campo da calcio – niente più che un prato con due porte in mezzo alle case – dove andavo ogni tanto a giocare il sabato negli anni dell’università. E così ho scoperto che il campo non esiste più: nel frattempo, ci è spuntato sopra un cantiere per la costruzione di un enorme edificio rivestito in tonalità di grigio, lungo un centinaio di metri e alto tre piani, che però sembra semiabbandonato tra le lamiere che delimitano i lavori.

Il cartello, con l’immancabile logo “Torino on the move”, spiega che si tratta di una costruzione iniziata nel 2006 e con fine lavori nel febbraio 2008 (e qui già qualcosa non torna), per un costo di due milioni trecentomila euro e rotti; lo scopo è la realizzazione di una “palestra per la ginnastica artistica”.

Ora, sono sicuro che a Torino ci sia estremo bisogno di palestre per la ginnastica artistica; evidentemente queste palestre devono avere qualcosa di specifico per cui quelle normali non vanno bene, visto che il nuovo edificio è esattamente di fronte a una scuola media che dispone già della sua brava palestra agibile tutti i pomeriggi. In compenso, quello era l’unico prato verde (sterrato davanti alle porte) di un quartiere urbano che, per carità, è vicino a numerosi parchi, ma è comunque interamente costruito.

Sono quindi un po’ dubbioso sul senso logico, per un Comune che dichiara di essere in bolletta e di dover tagliare le manifestazioni culturali e persino l’assistenza sociale, di spendere oltre due milioni di euro per costruire una nuova palestra, in una zona piena di scuole anni ’70 con le relative palestre, oltre a due complessi comunali con piscina coperta e campi sportivi e tutta una serie di altre infrastrutture; viste le tante altre storie di cui abbiamo già parlato, dagli stadi all’Arena Rock, il nostro Comune dimostra sempre un inspiegabile desiderio di spargere cemento, che spero non vada spiegato con le relazioni amicali e financo parentali intercorrenti tra i leader politici locali e alcuni grandi aziende edili.

Stavolta, però, non è tanto questione di indignarsi, che il limite di indignazione l’abbiamo superato da tempo; è più che altro la sorpresa nel rendersi conto di come pezzi interi di città che tu hai vissuto per anni, e che tendi quindi a dare per scontati, possano sparire nel nulla da un momento all’altro.

[tags]torino, ginnastica artistica, palestre, edilizia, città[/tags]

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