Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Dom 7 - 5:23
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione

Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


sabato 6 Gennaio 2007, 16:30

Storie

Oggi Torino offre due storie di cronaca piuttosto interessanti.

La prima è quella del trentenne ex tossico con fidanzata ex tossica (conosciutisi in comunità) che va ad ammazzare la madre di lei su commissione. Lui, che è pure sieropositivo e handicappato mentale, è uscito dalla droga e ha trovato un lavoro, che inizierà tra pochi giorni; lei vive a metadone ed è senza soldi, e in più i suoi genitori hanno ottenuto di portarle via la figlia avuta a ventidue anni da una delle storie precedenti: a questo punto, uccidere i genitori è l’unico modo per avere sia l’eredità che la figlia. Per convincerlo, gli dice di essere incinta, e che senza i soldi dei genitori sarà costretta ad abortire. Lo spedisce a casa dei genitori, indicandogli pure dove trovare un paio di forbici adatte allo scopo. Lui uccide la madre di lei, la chiama, e a quel punto lei riattacca e chiama i carabinieri, dicendo di aver ricevuto una telefonata da sua madre che chiedeva aiuto, e spedendoli sul posto, dove trovano il fidanzato in un lago di sangue: colto sul fatto, incastrato, in galera per omicidio. Lui però racconta tutto, e (pare) l’analisi delle telefonate conferma la sua versione: durante l’omicidio non ci sono state chiamate dalla madre alla figlia, ma solo tra i due fidanzati. Lei, ovviamente, nega; i carabinieri però l’hanno arrestata, propendendo per l’idea che nel piano ci fosse un terzo obiettivo, liberarsi del fidanzato.

La seconda storia è l’altro lato della medaglia: i giornalisti seguono l’assessore a Tossic Park, il giardinetto sulle rive della Stura assurto a notorietà nazionale per lo spaccio di droga, dove il Comune annuncia grandi provvedimenti di risanamento. Nel frattempo, notano un’auto parcheggiata lì davanti, giorno dopo giorno, con un signore anziano dentro. Alla fine vanno a chiedere, e scoprono un sessantacinquenne che fa da cavaliere a una ragazza di ventotto anni; la porta in macchina, lei entra nel parco, compra la droga, si fa, e poi torna indietro. Viene fuori che lui è stato il suo amante molti anni prima; poi la storia è finita, e lei si è persa tra i tossici. Ritrovatisi, lui, solo, vedovo e con figli grandi, ha deciso di prendersi cura di lei, un po’ per amore residuo, un po’ per senso di paternità. E così, non riuscendo a farla uscire dal tunnel, almeno la accompagna, le sta dietro quando va in crisi, si assicura che non la stuprino e non la accoltellino.

E’ difficile definire la grande varietà di sentimenti che possono intercorrere tra un uomo e una donna quando condividono pezzi di strada sul cammino della propria vita; spesso non li si capisce dall’interno, figuriamoci dall’esterno. A seconda del punto di vista, queste possono sembrare storie d’amore romantico, in cui lui farebbe qualsiasi cosa per lei, o storie di sfruttamento cinico, da parte del lato più forte della coppia. Forse, sono entrambe le cose e molto altro.

divider
giovedì 21 Dicembre 2006, 11:51

Auguri a Torino

Si possono fare gli auguri ad una azienda che non si conosce e di cui non si è mai stati clienti? Si può, in qualche caso.

Il festeggiamento in questione in realtà è condiviso tra due nomi diversi, non so se parti della stessa azienda o meno. Il primo nome è Leone, ma non quello delle storiche caramelle; si tratta di una grande azienda di tubi e ferramenta sita all’angolo più remoto della Pellerina, su via Pietro Cossa. E’ un punto di grande passaggio, e sulla sede aziendale campeggia da sempre una enorme insegna al neon, talmente grande che, di notte, la si legge distintamente anche dall’aereo quando si sta scendendo verso Caselle; un vero landmark cittadino.

Vent’anni fa, il business dei tubi doveva essere in calo, e quindi nel palazzo è comparsa una seconda attività: quella degli antifurti Security Cà. Visto che il tetto se lo era già preso l’altro nome, quelli degli antifurti per farsi notare occuparono l’angolo sopra la porta, proprio di fronte agli automobilisti che svoltano; e ci misero un pannello luminoso con l’indicazione, sempre aggiornata, del numero complessivo di clienti della loro azienda.

Quando ho cominciato a guidare, una decina abbondante di anni fa, il numero era di qualche decina di migliaia di unità; l’ho visto crescere negli anni, notando giorno dopo giorno i diversi numeri. Avrò pure l’anima del matematto, ma che emozione quando, per combinazione, il pannello segnava proprio il mio vecchio numero di matricola del Politecnico!

Bene, qualche giorno fa è successo l’impensabile (ma pianificato, visto che sin dal principio il pannello aveva spazio per sei cifre): proprio in vista del Natale, è stato raggiunto il numero centomila. Sarà sicuramente una festa per il titolare e per il suo portafoglio, ma lo è stata un po’ anche per tutti gli abitanti della parte occidentale di Torino; perchè a forza di passarci davanti non possiamo non aver cominciato a fare un po’ il tifo per chi, con una tenacia tutta torinese, porta avanti giorno dopo giorno il proprio lavoro per vent’anni, passo dopo passo, fino a raggiungere il risultato.

E quindi, buone feste anche agli antifurti, e a tutti quei pezzettini di vita grandi e piccoli – persone aziende alberi e case – che compongono l’anima della mia città!

divider
sabato 16 Dicembre 2006, 11:54

Fenomenologia di Monia Lacisaglia

La fine dell’anno si avvicina, si tirano le somme, e io recupero vari argomenti di cui è tanto che volevo parlare, ma non ho mai avuto tempo: parliamo quindi del fenomeno radiofonico dell’anno, almeno da noi a Torino.

Il suddetto fenomeno si chiama Monia Lacisaglia ed emette dalle frequenze di Radio Flash, inizialmente nel corso della trasmissione Senza Filtro, che, con la partecipazione di Vito Miccolis (percussionista, cabarettista e idolo delle ragazzine), Federico Bianco (cantante parademenziale e idolo dei maschi barbuti) e Capitan Freedom (navigatore radiofonico di lungo corso), a colpi di musica, stupidaggini e cabaret ha fatto esplodere gli ascolti della radio nella primavera-estate di quest’anno: si parlava di cinquantamila radioascoltatori, che su un’area da un milione e mezzo di abitanti non è poco.

Monia è a Radio Flash in qualità di stagista, come studente di (credo) Scienze della Comunicazione; è entrata nello studio per osservare, e poi qualcuno dei suddetti genialoidi ha provato a mandarla in onda. Quindi, è come uno qualsiasi di noi spedito all’improvviso in uno studio con un microfono in mano. Non sa la dizione, non sa parlare, non sa cantare, non sa ballare, non conosce la musica, ma nemmeno le notizie. Conduceva una improbabile rubrica denominata Sagra Simultanea, in cui le facevano leggere informazioni sulla sagra del bombolone speziato o del peperone triste, e lei regolarmente sbagliava, s’incartava, non capiva nulla, e poi scoppiava a ridere senza più riuscire a smettere.

Ecco, ridere è l’unica cosa che fa bene. Ride annunciando i programmi, ride presentando gli sponsor, ride nelle pause e ride sopra l’attacco dei brani musicali, senza mai riuscire a infilare più di tre parole di fila o a finire una frase. E quindi, è simpaticissima: un grande successo, come si deduce dalla quantità strabordante di messaggini baccaglioni che il popolo di Radio Flash di sesso maschile, pur senza averla mai nemmeno vista in faccia, riversa in trasmissione.

A un certo punto, comunque, Monia ottenne anche il suo hit personale: Applausi per Monia, quattro minuti di hip hop sulla base di Fabri Fibra dedicati al racconto della sua vita, che divennero il tormentone dell’estate di Flash.

Nel corso dell’anno, poi, Monia è un po’ sparita, visto che Lo Sapio (il personaggio principale di Miccolis) & Bianco sono volati sulle frequenze nazionali della Rai. Ogni tanto però riappare, come ieri, quando le hanno fatto un gioco di parole su certe attività “moniacali” e lei, in diretta, ha passato mezzo minuto buono a farselo ridire per due o tre volte, senza riuscire a capirlo, e poi concludendo: “Ah! Credevo che ci fosse uno spazio, e che si parlasse di una dea indiana, la dea Kàli!”. E poi ha cominciato a ridere.

divider
martedì 12 Dicembre 2006, 23:14

ICT a Torino

Stamattina sono andato a parlare a questo convegno, non come guru della rete (ammesso che io lo possa essere…) ma come responsabile di uno dei progetti. La prima metà della mattinata è stata durissima, essendo andato a dormire tardi; dopo il coffee break però mi sono ripreso, e anche il mio intervento è andato bene.

Ho ascoltato con piacere la presentazione del direttore del CSP, Claudio Inguaggiato, non solo per l’insistenza sui modelli di condivisione libera del software prodotto dalle piccole aziende ICT torinesi, ma per la nota sull’importanza di costruire reti non solo di condivisione ma anche di competizione: in un ambiente dove girano proposte di legge che prevedono di dare soldi pubblici alle università e alle associazioni no profit per scrivere software, non fa mai male ricordare che è almeno da quindici anni che le industrie di servizi nazionalizzate sono (per fortuna) un ricordo del passato.

E’ stato più preoccupante, invece, vedere la slide con le povere aziende in mezzo e una pletora infinita di organismi pubblici e parapubblici che in teoria dovrebbero aiutarle a crescere, ma di cui in pratica, a naso, la gran parte si limita ad autoperpetuarsi (considerato anche che i pagamenti dei finanziamenti per i nostri progetti sono in ritardo di un anno, a differenza di quelli dei dirigenti dei vari enti…). Così come è stato preoccupante sentire aziende di ICT selezionate tra le eccellenze cittadine dichiarare che il progetto è stato bello perchè ha permesso loro di scoprire questo coso di cui avevano sentito parlare ma che non avevano mai usato, “Linux”. E per finire, per l’intero corso del convegno (nonostante avessi già fatto notare la cosa in passato) si è usato il termine “open source” per indicare il software libero, con allegra incoscienza della differenza.

Ad ogni modo, è stata una esperienza piacevole, e vorrei che a Torino si facessero più progetti così; magari meno focalizzati sullo sviluppo di tecnologia – che ormai si reperisce facilmente in rete – e più sullo sviluppo di reti di aziende, e di canali commerciali collettivi per tutti quei servizi informatici che Torino produce, ma che non è attrezzata per vendere in modo sistematico e di massa.

divider
lunedì 13 Novembre 2006, 19:50

Tutto sporc

Per chi non è addentro al cuore del tifo, è probabilmente difficile capire quello che sta succedendo in questi giorni nel mondo sportivo e affaristico torinese, anzi probabilmente non ce ne si accorge nemmeno. Eppure, è un esempio tipico – oltre che della cappa di maneggi che da cinquant’anni sovrasta Torino – dei tanti problemi di convivenza tra carta stampata e Internet, e come tale vorrei descriverlo.

Pochi, per cominciare, si sono accorti del fenomeno Toronews. Si tratta di un sito di supporter del Toro he è cominciato così, alla buona, cinque anni fa, come uno dei tanti forum di tifosi. Negli ultimi 18 mesi, però, si sono sommati vari fattori: alcuni strutturali, come il fatto che la tifoseria del Toro sia grande (la quinta o sesta in Italia) e con code lunghe ma significative sparse per tutto il mondo, e che sia accentrata sulla città tradizionalmente più tecnologica d’Italia; altri contingenti, come il thriller granata dell’estate 2005, che ha richiamato i cuori di mezza Torino, e il successivo entusiasmo per la rinascita con la presidenza Cairo; altri specifici, come il fatto che Toronews abbia alle spalle un gruppo di finanziatori appassionati e del mestiere, che hanno affiancato al forum una vera testata giornalistica, anche se in miniatura.

Tutto questo ha portato Toronews a diventare, pare, il terzo sito sportivo più visto d’Italia e il primo “monosquadra”, con 250.000 utenti unici al giorno e con un forum da 10.000 utenti e cinque milioni di messaggi.

Ora, prendiamo invece in esame un quotidiano sportivo a caso: Tuttosport. Si tratta di un giornale di grandi tradizioni, fondato da quel Casalbore perito nella tragedia di Superga, e che tra i suoi direttori passati annovera gente come Ormezzano, Dardanello e Minà. Sfortunatamente, l’Italia è quella che è e il giornalismo sportivo d’autore non vende; Tuttosport, peraltro, vende ancora meno (un quarto della Gazzetta dello Sport, e la metà del Corriere dello Sport).

Per mantenere vive le proprie sorti, quindi, da qualche anno Tuttosport sceglie di focalizzarsi su un target: la prima tifoseria d’Italia, quella della Juve. Difatti, anche eliminando gli analfabeti dal conto, la tifoseria juventina offre un pubblico potenziale di una decina di milioni di lettori, anche se purtroppo la maggior parte di questi sono tifosi troppo tiepidi per comprare un quotidiano sportivo.

Nascono così scelte giornalisticamente sempre più imbarazzanti. Un italiano vince la maratona alle Olimpiadi di Atene, la competizione sportiva più nobile al mondo? Tuttosport titola “Medaglie Juve”. La Juve stacca l’Inter coi gol di Mutu? Ecco un titolo pacato e raffinato: “Mancini, stai Mutu”. Non parliamo di “calciopoli”, dove la posizione di Tuttosport è “Pulita solo la Juve”. E poi, c’è il mercato: qualsiasi giocatore viene prontamente associato alla Juve e ogni tanto anche al Toro, sparando bufale colossali (sentite che ne scriveva Clarence già quattro anni fa).

Ma fossero solo questi i problemi… il vero punto è il coinvolgimento di Tuttosport, allineato e coperto a Mamma Fiat, nelle vicende societarie ed extrasportive del Torino. Quando il Toro era in mano ai “genovesi” di Vidulich, Tuttosport gli diede contro finchè non riuscì a far partire la contestazione, con successiva vendita a Cimminelli, fornitore Fiat, che portò il Toro prima a languire in B e poi al fallimento (a proposito, il giorno che il Toro fallì Tuttosport titolò “Alex strega Cassano”, relegando la notizia a fondo pagina). Dopo l’arrivo di Cimminelli, Tuttosport si vantò di aver salvato il Toro, anche se, a posteriori, Cimminelli si rivelerà essere un sicario sportivo per conto terzi.

Potete quindi immaginare il piacere che fa a Tuttosport (e anche alla Stampa, se è per questo) il fatto che il Toro sia in mano a un altro editore, non torinese e non succube dei circoli buoni della città, in grande ascesa, e con espliciti piani di fondare un quotidiano popolare nei prossimi anni.

Veniamo dunque a quest’anno, quello in cui, per le note vicende, il Toro rischia di rubare la scena cittadina alla Juve. Il Toro parte male, e subito Tuttosport comincia a dare contro a Cairo. Ogni occasione è buona per seminare zizzania, insistere su gelosie nello spogliatoio, sugli errori nella campagna acquisti, sull’inspiegabile cacciata di De Biasi; questioni vere, che però vengono amplificate continuamente. Altre volte sono sonore palle, come le “notizie” sulla presunta intenzione di Cairo di vendere il Toro alla Gazprom, o di assumere Serse Cosmi, o di comprare questo e quell’altro giocatore a gennaio, con prevedibili effetti sul morale già basso della rosa attuale.

Comincia un po’ di nervosismo nei tifosi, e specialmente negli ultras, schierati compatti a difesa di Cairo; e anche sul forum di Toronews, che è lo specchio fedele degli umori della tifoseria. Il complottismo è l’anima di Torino, ma, visti i precedenti, i sospetti sul tentativo di spingere Cairo alla fuga per trovare un acquirente meno scomodo e più malleabile non sono infondati.

A questo punto, Tuttosport comincia a provocare apertamente; per esempio, informa di un interessantissimo dibattito sullo stemma della Juve – se sia meglio la zebra o il toro di Torino – sparando a nove colonne il messaggio “Il toro è juventino”, che per un tifoso granata è più o meno come sentirsi urlare in faccia “Tua mamma è una zoccola”.

Il clima si scalda, allo stadio compaiono striscioni di contestazione al giornale, parte una riuscita campagna di boicottaggio che fa sparire Tuttosport da molte case e da molti bar della città. Purtroppo, però, sul forum compaiono anche i soliti cretini che sparano alcune (ovviamente inqualificabili) minacce al direttore Padovan, tipo “ti spezziamo le gambe”, e ad alcuni suoi giornalisti (come nota a margine, i giornalisti che scrivono di Toro su Tuttosport sono granata veri, alcuni anche protagonisti dell’estate in piazza di due anni fa, e posso solo immaginare quanto debba essere frustrante trovarsi presi in mezzo a questa storia).

Ora, qui le fila della storia si riannodano, perchè cosa fa Tuttosport? In una prima assoluta per l’Internet italiana, diffida. Sguinzaglia gli avvocati addosso a Toronews, con allegato elenco di nickname e frasi incriminate, dicendo: o voi bannate questi utenti immediatamente, o domani mattina il proprietario del sito si becca una denuncia per diffamazione a mezzo stampa, e il sito viene messo sotto sequestro.

Il sequestro dei siti, si sa, è “preventivo” nel senso che, come in questo caso, prima ti chiudono il sito, e poi dopo tre anni e mezzo sei ancora lì in attesa che il tuo caso venga esaminato. Insomma, vorrebbe dire chiudere baracca. E quindi, Toronews non può fare altro che chinare la testa. Una decina di utenti viene sospesa, con promessa di ban in caso di future violazioni; tutti i thread che discutono la questione con toni accesi vengono chiusi, purgati, cancellati del tutto.

Immagino Padovan che si frega le mani: due piccioni con una fava. Già, perchè per il quotidiano sportivo di una città come Torino avere in casa Toronews è un disastro. Spari una palla sul giornale? Dopo tre secondi qualcuno la smaschera, e dopo due ore, tramite forum, lo sa tutta la città sportiva. C’è una conferenza stampa con dichiarazioni clamorose? Tu le pubblichi il mattino dopo, ma tutti le hanno già lette sul sito il giorno prima. (Non a caso i quotidiani sportivi stanno chiedendo sempre più spesso alle società di vietare ai giornalisti dei siti l’accesso alle conferenze stampa.) Vuoi montare una campagna di stampa per questo o quello scopo più o meno pulito? Anche l’ultimo dei lettori ha una tribuna su cui risponderti, e uno strumento per organizzare campagne di controinformazione.

Nel ventesimo secolo i media sono stati il vero potere, spesso più ancora dei politici o delle aziende. Editori e direttori sono abituati ad essere pieni di sè e del proprio ruolo. Eppure, Internet sta velocemente cambiando tutto questo: con i forum, con i blog, con i siti indipendenti. Non c’è da meravigliarsi che a Tuttosport – e, più in grande, a chi controlla l’opinione pubblica a Torino tramite i quotidiani e l’ineffabile TGR Piemonte – questo faccia paura; se c’è un modo di intimidire Toronews e tutti i garibaldini dell’internette, è naturale che esso venga usato il più possibile, insieme a tutti gli altri strumenti a disposizione (ad esempio quello di spingere siti concorrenti e affiliati come Tuttotoro, clone nato un anno fa in modo non chiarissimo da un gruppo di fuorusciti da Toronews, e però accuratamente privo di forum).

E’ però preoccupante che la legge italiana non offra difese sufficienti ad evitare che bastino una decina di scriteriati su un forum a creare un concreto rischio di chiusura per l’intero sito. Si tratta di un’arma impropria a disposizione di chiunque voglia impedire con la forza l’espressione di opinioni non allineate, o semplicemente voglia perseguire i propri interessi economici con mezzi poco ortodossi.

Nessuno vuole che Internet diventi un territorio franco per calunnie e diffamazioni di ogni genere, ma l’impressione è che il problema non sia quello; che si tratti invece, come troppe cose in Italia, di una triste questione di controllo e di potere.

Per questo, io non leggo Tuttosport, ma ne parlo apertamente: perchè è ora che ciascuno di noi smetta di credere supinamente a quello che ci propinano giornali e televisioni, e impari a scoprire da sè, usando gli strumenti della rete, le verità alternative sulle cose.

divider
venerdì 10 Novembre 2006, 14:25

Giorni di gloria

Sono giorni di gloria, questi, perché è da molto tempo, forse da sempre, che le mie giornate non erano così luminose.

Oggi a pranzo, per esempio, ero in giro con la mia bicicletta per le vie del centro di Torino, allagate di una luce fredda e abbagliante, riflessa giù dalle montagne lontane. In teoria dovevo soltanto mangiare e poi andare in ufficio, ma è stato bello scegliere di perdersi per qualche minuto nel giallo divino che colorava le strade e i palazzi, e nella folla che, come formiche uscite al sole per un prematuro disgelo, si spandeva disordinatamente per le piazze.

E’ una di quelle giornate in cui più che mai il centro di Torino è enigmatico e metafisico, con le sue prospettive infinite come un gioco di Escher, e la sua uniformità barocca che agisce da specchio. Arricchito da provocazioni postmoderne, che vanno dalle installazioni fintamente commerciali in via Buozzi fino alle linee d’acqua fumante di piazza Carlo Alberto, passando per le finestre fotografiche sull’umanità esposte in piazza San Carlo, il centro di Torino abbracciato dalle Alpi diventa una sfera sezionata da un reticolo, il simbolo stesso dell’umanità distesa al sole e in rapporto con il divino che illumina dall’alto.

E’ per questo che io e la mia bicicletta oggi eravamo come un punto che si sposta su un piano cartesiano, l’essenza nuda del moto della vita; proiezione strettamente purificata del significato dell’esistere, in un rapporto concettuale ma concreto con tutte le altre esistenze contemporanee, e con tutte le esistenze possibili. E’ uno di quei casi in cui si prova tristezza (tristezza, non pietà, perchè non vi è superiorità in questa sensazione) per quei troppi esseri umani persi nel freddo scientismo delle cose, nell’assenza di valori, progetti e significati superiori, e nel conseguente pessimismo cosmico che deriva dalla perdita collettiva del concetto di Dio.

Non è cambiato nulla, nella mia vita, per rendermi improvvisamente felice; nulla se non la constatazione che se gli oggetti e gli eventi sono sempre gli stessi, ciò che fa la differenza sono gli occhi con cui li guardiamo. Nella continua lotta tra il bene ed il male che tutti noi portiamo dentro, sono lieto della scoperta e della rivelazione di questa luce, che d’improvviso significa tutti i Corani e le Bibbie e le filosofie e le religioni del mondo, tutte in fondo equivalenti, tutte infine comprensibili persino quando non condivisibili. C’è ancora molto da scoprire in noi stessi, ma è più facile farlo dopo aver trovato la forza, quella che fa cadere ogni arma e ogni paura, quella di sorridere sempre e riconoscere in ogni altro un simile a sè, quindi degno di dare e ricevere amore, se soltanto liberato dalle catene del dolore e dell’insicurezza.

Spero che la forza non mi abbandoni più, anche se so che, talvolta, potrà succedere; ma ho fiducia nel fatto che saranno cedimenti occasionali. In fondo, credo che questi giorni di gloria derivino dalla Scelta infine raggiunta, quella di avere il coraggio di agire per essere nè meglio nè peggio, ma semplicemente e finalmente se stessi.

divider
sabato 14 Ottobre 2006, 12:49

Ruspe

Questo post è in memoria di una entità che non c’è più. E non si tratta dell’immensa e ben visibile trasformazione dello storico Stievani di largo Giachino, il primo supermercato di elettronica di consumo della storia del Piemonte nonchè promotore di alcuni leggendari spot della nostra infanzia, nel nuovo gigantesco punto vendita di un altro e recentemente rinato marchio storico degli anni ’80, il mobilificio Aiazzone (c’è certamente una morale in tutto questo, ma al momento mi sfugge).

Si tratta invece della più modesta e marginale sparizione di un luogo davanti al quale, se abitate a Torino, sarete probabilmente passati molte volte, magari senza nemmeno notarlo: il giardinetto della curva di via Stradella.

Chiuso tra la curva in salita più intasata di Torino, la ferrovia per Milano, e la stazione Dora, si trattava di un quarto di cerchio semiabbandonato, dotato di qualche albero, qualche aiuola, qualche panchina, e tanta immondizia abbandonata qui e là. Non serviva a molto, non era nemmeno attraversabile per andare da qualche parte, era proprio un angolino di verde in una zona che non ne ha molto, ma che sta per ricevere in dono il nuovo parco sulla Dora, o meglio quello che ne resterà dopo la realizzazione di bonifiche, palazzi, ferrovie e strade di scorrimento.

Per me, comunque, era anche il luogo di alcuni ricordi specifici, legati alle mie pause pranzo nel periodo in cui lavoravo a Vitaminic in via Cervino. Non è l’unico luogo in cui ho ricordi specifici a sparire, anche se ultimamente stanno diventando parecchi. Ma arrivare lì in bicicletta e scoprire che un intero giardinetto, certo piccolo, ma comunque dotato di tutte le caratteristiche di un giardinetto, è stato sostituito da una spianata di terra gialla…

L’hanno raso al suolo, letteralmente, e ora non è nemmeno più un luogo, è uno spazio non significativo perchè trasparente allo sguardo, una intercapedine urbana al bordo della via. Visto così è microscopico, e non diresti mai che prima lì potesse starci qualche cosa; proprio come quando prendi la vecchia e grigia casa della nonna e la ristrutturi in modo moderno, unendo l’ingresso, il tinello e il salone, e poi ti chiedi come facessero a starci tre camere in quell’area lì.

L’hanno raso al suolo per allargare la strada, perchè dopo aver abbattuto la sopraelevata di corso Mortara le macchine strabordano ovunque, e la città è tagliata in due da un serpentone di auto in coda e bestemmianti. E così, allargheranno il ponte di via Stradella, taglieranno i binari della Torino-Ceres per tornare in giù, e passando davanti alla vecchia fabbrica si ricongiungeranno a corso Mortara davanti alle nuove “torri del parco”, un mostro urbanistico dei palazzinari che ha sfigurato un quartiere di vecchie casette.

Le auto, finalmente, potranno sciamare un po’ meglio. Basteranno pochi anni perchè del giardino si perda la memoria, nella storia anonima della periferia di una grande città, che respira, cresce e cambia proprio come le sue persone. Ma mi piaceva, nel mio piccolo, lasciarne una traccia.

divider
mercoledì 20 Settembre 2006, 02:29

Pearl Jam, lo spettacolo del rock!

Questa sera a Torino, nel nuovo Palaisozaki (ma trovargli un nome no? casa mia mica la chiamo col nome dell’architetto), suonava uno dei gruppi storici della mia adolescenza, i Pearl Jam; una band che per qualche anno, diciamo la prima metà dei ’90, fu sul tetto del mondo del rock, e che poi sprofondò in una serie di dischi sempre più anonimi, finchè la persi quasi di vista.

Avevo sentito i due singoli del nuovo disco in radio, e mi erano piaciuti molto; eppure, fino a pochi giorni fa non sapevo nemmeno se andare. Mi ero appuntato la data, e mio zio mi aveva incuriosito offrendomi un biglietto per il parterre. Alla fine, mi sono messo d’accordo con un amico, ma avendo deciso che siamo troppo vecchi abbiamo optato per i posti a sedere, comprati via Internet, sperando che fossero decenti (non c’era nemmeno una piantina).

La serata non inizia affatto bene; arrivo verso le 20,15 e tutto intorno alla zona olimpica è il caos. Mi reco a colpo sicuro a parcheggiare nel piazzale sterrato appena costruito come parcheggio dello stadio, e scopro che è incredibilmente sbarrato! Così mi tocca la banchina del controviale di corso Galileo Ferraris, e un discreto pezzo a piedi. Intorno ci sono le auto più varie: un discreto numero con targa francese, e altre ancora meno spiegabili (un taxi di Aulla?!?).

All’ingresso, ci sono tonnellate di bancarelle di magliette, ma solo due paninari, ovviamente presi d’assalto (il Comune sta cercando di sterminarli, e non si capisce perchè). E poi, c’è una sola biglietteria per tutto, residui, ritiro biglietti Internet, accrediti stampa… ovviamente c’è una fila enorme, che però si rivela piuttosto veloce.

Entriamo, e dentro è il caos; ci sarà una decina di migliaia di persone che ha il posto numerato, e non c’è praticamente alcun cartello per indicare i settori, se non delle decalcomanie appese nei posti meno visibili che si potessero immaginare. L’unico modo è chiedere agli steward, alcuni gentili, altri che non gliene può fregare di meno.

Arriviamo al nostro posto (secondo anello, settore 303) alle 21 in punto, e, orrore, è una vera piccionaia! Sembra il terzo anello del Delle Alpi, con il palco piccino picciò, e perdipiù coperto in parte da una barriera di plexiglass trasparente, ma solo in teoria. E’ la moda olimpica torinese: posti tutti a sedere ma da cui non si vede niente, perchè le barriere di plexiglass, i montanti di alluminio, i parapetti azzurrati, ai fini del calcolo delle visibilità vengono equiparati al vuoto, come se non ci fossero. Che il tutto funzioni lo crede solo Chiamparino.

Del resto, la scarsa visibilità comincia a esserci impedita da quelli che, ovviamente, si alzano e vanno ad affacciarsi al parapetto. Dovrebbero stare seduti, ma d’altra parte, signori, s’è mai visto un concerto rock dove la gente sta zitta e seduta, perdipiù in un posto dove si vede pochino? Ma chi le pensa queste strutture, un vecchio sessantenne che va a vedere solo Orietta Berti? Davanti a noi una famigliola insiste nello stare seduta ai propri posti e nel prendere a urlacci tutte le coppie di fighetti che gli si piazzano davanti, scambiando con loro risate di scherno, vaffanculi e insulti vari. Non scatta la rissa solo perchè la più accesa è una signora; il raro steward passa e fa finta di non vedere, direi che anche a lui frega solo di vedere il concerto.

Il quale concerto inizia puntualissimo, alle 21,05, cogliendo tutti di sorpresa; e la situazione peggiora. I Pearl Jam attaccano con qualche pezzo classico, tra cui Animal e Elderly Woman Behind The Counter…, ma è un disastro: sembra di sentire una radiolina messa di fronte a un muro di cemento, con un riverbero infinito. L’acustica, insomma, è orrenda, la visibilità è ridicola e sto per metterci una croce sopra: Palaisozaki mai; come l’Olimpico, tanto bello ma totalmente inadatto per quello per cui sarebbe stato costruito, un vero spreco di soldi pubblici.

Io e Andrea pensiamo già a come far causa per farci ridare i soldi, quando, tentare per tentare, decidiamo di provare ad andare in un altro settore. Basta già andare nella metà inferiore del secondo anello – quella in cui i numeri di settore iniziano per 2 – perchè le cose cambino nettamente. Lì, intanto, si è tutti in piedi (nonostante la teoria dei posti a sedere) e non ci sono scazzi; in questo modo, si può almeno cantare e ballare. Poi la gente è rada, perchè molti si sono spostati in basso, e si trova posto senza sgomitare. E comunque, la visibilità è buona, e anche l’acustica, probabilmente grazie anche a qualche aggiustamento dal mixer, migliora notevolmente.

E così, comincia il vero concerto; proprio durante il trasloco Eddie Vedder legge un testo in pseudoitaliano, per spiegare che “in tempi di guerra, cantiamo parole di pace”. Attaccano quindi con i due singoli del nuovo disco, prima Life Wasted e poi World Wide Suicide; questo secondo, con mia sorpresa, mi esce fuori a memoria e lo canto tutto – ma sono le melodie vocali di Eddie ad essere straordinarie e a scolpirsi da sole in testa, con quella voce che ti riempirebbe di brividi anche se cantasse il bugiardino del Maalox.

Il gran tiro mi esalta e finisco già la voce, ma per fortuna i PJ vanno avanti e fanno quello che, direi, è l’ultimo disco (che non ho mai sentito) per intero o quasi. Temo la noia e invece queste canzoni, pur al primo ascolto, sembrano una più bella dell’altra. Certo, la gente non le sa, e solo un paio di manipoli di scatenati le cantano, in cima al parterre; ma l’atmosfera è bella, raccolta, con delle belle luci di coreografia, e si fa molto apprezzare. Passa un’oretta, e ne esco – oltre che rappacificato con l’Isozaki, che anzi sfoggia un bel colpo d’occhio e una ottima acustica nei pezzi meno rumorosi – voglioso di comprare il nuovo disco.

Poi, però, ci fanno capire di avere un po’ scherzato, e attaccano i pezzi vecchi; e il concerto si trasforma. Fanno Do The Evolution per scaldarsi, ma la vera svolta è quando attaccano Rearviewmirror, uno dei superclassici della mia adolescenza, che ho cantato e suonato da solo e in gruppo in tutti i modi e tutte le versioni possibili. Lo attaccano alla velocità della luce, quasi hardcore, con una chitarra anfetaminica costretta nevroticamente in un reticolo di pennate, che costruisce il riff ossessivo sotto la voce di Eddie.

In platea la cantano quasi tutti, ma il primo miracolo della serata deve ancora venire. La canzone ha una parte centrale – una manciatina di battute, sul disco – in cui rallenta di colpo, e diventa quasi una pila; dove l’energia si accumula in una sacca di sospensione per poi esplodere nel finale. Bene, qui tutto il palazzo è l’accumulatore, ed è l’energia dei nostri movimenti, contorti sotto una luce blu, ad impilarsi. Ma poi, invece di esplodere, loro rallentano, scemano, e vanno avanti per diversi minuti a guardarsi, improvvisare, fare assoli in questo ritmo che è foriero di attesa e di tensione insieme, come una delle infinite “scene prima del duello” che citavo giorni fa parlando di Sergio Leone. E quindi respiro, stacco la spina, resto sorpreso e un po’ sperso, e mi chiedo dove vogliono andare a parare, se attaccheranno qualcos’altro, se finirà così; e nel frattempo, piano piano, impercettibilmente, loro ricominciano ad accumulare e poi di botto attaccano, in un tripudio che scuote il palazzo, la parte finale, a velocità ancora più supersonica, “saw things, saw things, clearer, clearer, once you were in my rearviewmirror”, con quella scivolata subito dopo che sembra uno scordamento improvviso della tonalità, e un finale devastante, in cui loro pestano, tutti urlano e fanno i cori, e sembra un sacrificio umano e una rivolta di piazza contro la condizione esistenziale degli esseri umani, e bisognerebbe spaccare le chitarre per poterci stare dietro. Dopo un’altalena di emozioni io non ne ho più, e quando la canzone si sblocca di botto mi risalgono su dallo stomaco quindici anni di vita, i flash uno dopo l’altro, chiari e ben visibili, di tutto quello che è rimasto indietro nello specchietto; rischio seriamente il collasso psicoemotivo per improvviso vomito mentale. E difatti, dopo l’accordo finale, loro scappano esausti dietro le quinte per l’intervallo, e io quasi mi accascio sulle poltroncine.

Cinque minuti e la band è di nuovo sul palco; ora si fa sul serio. Questa musica mi riporta dritto ai miei terribili sedici anni, alla prima volta che sentii i Pearl Jam, presentati da Radio Rai come “una delle maggiori promesse dell’anno, segnalati come sicuro successo dalla Sony; era una sera in macchina all’inizio di corso Allamano, sul postale guidato da mio padre con cui io e mio fratello subivamo, quali pacchi, l’ordinaria riconsegna settimanale da un genitore all’altro. Non sono mai bei ricordi, l’adolescenza è tormentata di suo e la mia lo è stata probabilmente più della media; questo forse spiega come il trasporto emotivo di stasera sia prevalentemente sofferente.

Il concerto ricomincia con Jeremy, e anche qui è tutto un flashback. Quel video che durò un anno su tutti gli schermi fece il successo della band, con la sua storia violenta e malata che viene ricantata ora a memoria da quasi tutto il pubblico. Dopo il breve intermezzo di Lukin si torna ai classici, stavolta Better Man, una canzone struggente e anche l’unico singolo orecchiabile di Vitalogy, un disco per il resto duro e alienato, da veri nerd sospesi tra il tentato suicidio e la follia definitiva (resta tuttora il mio preferito). Ma Better Man è facile, inizia piano e poi si lancia a tutto vapore, e Eddie fa cantare due strofe al pubblico, che risponde subito, “she dreams in color she dreams in red, can’t find a better man”.

Penso che non si possa andare oltre, e invece, a sorpresa, arriva anche di meglio: attaccano Black, una canzone che sta nelle mie radici; quando suonavo in un gruppo, difatti, la facevamo sempre, ed era uno dei nostri pezzi più forti. E anche se all’epoca non potevo ancora capire fino in fondo la disperazione di cui parla (“All the love gone bad / turned my world to black”), la conosco ancora nota per nota, le svisate di basso, i legati di voce e poi ancora il finale lunghissimo e arroccato su quel motivo in falsetto che cantavo io, proprio io, e che ora cantano in ventimila all’unisono. Anche a noi succedeva che il pubblico si unisse al falsetto ed andasse avanti a cantarlo da solo, ma qui, quando loro infine smettono di suonare, noi non vogliamo lasciar scappare questa emozione; per parecchi secondi il pubblico continua a cantare e battere le mani a ritmo mentre loro stessi guardano stupiti ed Eddie si inchina sul palco.

Tremor Christ è un altro pezzo del quadro di Vitalogy, e uno di quelli piuttosto oscuri; anche qui la conosco nota per nota, ma si vede che non è una favorita del pubblico. A questo punto quindi loro giocano l’asso e attaccano Alive, forse la loro canzone più famosa, il cui ritornello viene cantato in coro da tutti i presenti, non uno in meno, ed è un muro di voci che non ho mai sentito, nemmeno allo stadio quando si fa “La gente”; una sensazione davvero impressionante.

Anche questo è un gran finale, e difatti escono; ma poi tornano di nuovo e attaccano Blood, di cui viene esaltata l’anima funky, mentre l’urlato di Eddie parte a un volume pazzesco (mixeriiistaaaa!). Tutto il palazzo si fa rosso sangue, mentre a un certo punto, su una delle varie riesplosioni della canzone, Eddie fa un salto con spaccata altissimo, davvero incredibile; se qualcuno fosse riuscito a fermare in una foto proprio quell’attimo, sarebbe la foto del rock al suo massimo.

Segue Even Flow, anche questa attaccata a una velocità incredibile, quasi speedcore; e non è la fretta di finire, e nemmeno l’abitudine che porta sicuramente a velocizzare i pezzi suonati e risuonati, ma veramente una carica energetica che deve scaricarsi, e che esce in un ritmo frenetico, negli assoli, nelle pose e nelle corse avanti e indietro per il palco. Nel lungo pezzo centrale un platinato Mike McCready si spara un assolo pazzesco scendendo addirittura giù dal palco, e per risalire suona una nota lunga e gonfiata che tiene con una mano mentre con l’altra si arrampica, per poi riprendere il resto dell’assolo come niente fosse. E subito dopo, Matt Cameron si produce in un assolo di batteria, signori un assolo di batteria nel 2006, ed è straordinario, mica una palla unica come buona parte di quelli di quando l’assolo di batteria era obbligatorio per legge.

Finisce che loro sono visibilmente contenti, e il pubblico è in delirio; potremmo andare avanti tutta la sera, a catarsi adolescenziali e cori generali, con grande soddisfazione. Eddie promette che non passeranno altri sei anni prima del prossimo tour europeo, e io penso che sono talmente preso da questo concerto che se domani non giocasse il Toro potrei andare fino a Pistoia per risentirli.

Nel frattempo, però, attaccano Baba O’Riley degli Who, e io immagino mio zio, grande fan dei mezzi morti e mezzi quasi, in delirio là in basso nel parterre. Ok, è un bel pezzo, grazie, Eddie salta e si dimena in tutti i modi possibili, e nel frattempo accendono le luci e ci accingiamo ad andare… quando d’improvviso sul palco compare un contrabbasso elettrico e, a sorpresa, ci regalano ancora Indifference. Detto tra noi, la suonano maluccio, ma non importa; che emozione risentire il pezzo simbolo della depressione adolescenziale e post-adolescenziale, la canzone che ha inculcato in milioni di giovani di tutto il mondo un progetto di vita come questo:

Oh, I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam
Oh, I will make my way through one more day in hell…
I will hold the candle till it burns up my arm
Oh, I’ll keep takin punches until their will grows tired
Oh, I will stare the sun down until my eyes go blind…
I’ll swallow poison until I grow immune
I will scream my lungs out till it fills this room
How much difference
How much difference
How much difference does it make
How much difference does it make

Negli anni l’ho ascoltata in vasche da bagno di acqua ormai gelida, nella mia stanza con le luci rigorosamente spente, persino da ubriaco: ah, quanta depressione gratuita! In effetti dovrei fargli causa, ma stavolta la fanno con tutte le luci del palazzo accese, e la canzone diventa innocua, più un “come eravamo quando tu avevi la metà dei tuoi anni” che una vera minaccia.

Infine, il concerto si chiude davvero, con loro che si stringono e si abbracciano sul palco davanti a un meritatissimo, lunghissimo applauso.

Ho la sensazione che i Pearl Jam siano finalmente usciti dal tunnel, e siano diventati un gruppo maturo; che, anche come persone, abbiano superato le proprie disavventure e infelicità per diventare quarantenni solidi e adulti. E che quindi, come altri gruppi di spessore, siano pronti per regalarci altri dieci o vent’anni di buona musica, magari non più geniale, ma sempre di gran classe.

Se poi dal vivo continueranno a regalare serate come questa… che concerto, ragazzi! Onestamente non ne ho visti molti con questa energia e questa emozione, anzi forse non ne ho visto nessun altro! Dopo un concerto ROCK come questo, con la R la O la C e la K maiuscole, sarebbe da andare a scolarsi una bottiglia di Jack Daniel’s dal manico della chitarra, e che diavolo! In onore dei bei vecchi tempi in cui si è giovani e, con l’anima disperata e utopica del rock, si pensa di poter cambiare il mondo o in alternativa autodistruggersi prima di dovercisi adeguare, e poi invece non succede nè l’una nè l’altra cosa e ci si ritrova un po’ più delusi e cinici di prima, ma in fondo più sereni, e sempre pronti a roccheggiare quando ce n’è l’occasione. Sono carichissimo, ma mi bastano un paio di sorpassi alla GT4 in mezzo al traffico (che cazzo ti fai i fari, vecchio amante del liscio, con quella Panda di merda piantata a due all’ora in mezzo al corso!) per liberare l’energia senza danno alcuno. Lunga vita al rock’n’roll!

divider
martedì 19 Settembre 2006, 18:10

La Stampa libera

Stamattina ho assistito alla maggior parte di questo convegno, organizzato da La Stampa per annunciare la decisione di rilasciare sotto licenza Creative Commons i supplementi Tuttolibri e Tuttoscienze.

Innanzi tutto, la decisione è ottima; per i pochi che non li conoscono, si tratta di due supplementi che da una quindicina d’anni parlano rispettivamente di libri, musica, teatro e cultura in genere, e di scienza e tecnologia, ospitando interventi e articoli veramente di livello. Come confermato informalmente sul luogo, pare che la decisione riguardi non solo il futuro, ma anche tutti gli arretrati, che fino ad oggi La Stampa vendeva su appositi CD. Si tratta del primo caso in Europa, tra i quotidiani, e segna certamente una pietra miliare nella diffusione di questo tipo di modelli distributivi all’interno della carta stampata; complimenti quindi sia al team di Creative Commons Italia, che immagino abbia spinto l’idea, sia ai vari responsabili della Stampa.

Per quanto riguarda l’evento, io sono ovviamente arrivato in ritardo – volevo andare in bici, ma mi sono alzato troppo tardi, e poi parcheggiare in zona Castello del Valentino è stato comunque difficile. La sala del Castello è veramente eccezionale, merita andarci soltanto per l’atmosfera, con gli affreschi restaurati da poco e le finestre che danno sul Po!

Quando arrivo, sta parlando l’editore, John Elkann, persona di cui le conoscenze dirette mi dicono un gran bene, ma che ha un disperato bisogno di un corso di public speaking: in questo caso, vabbe’ che sono le nove e mezza, ma sta leggendo con aria assonnata un discorso prestampato, da un foglio tenuto a mano, alto e dritto in verticale, in modo quasi da coprire la faccia, con un mono-tono che, in termini culinari, equivarrebbe ad un bollito misto senza salse.

E’ decisamente più a proprio agio il direttore, Giulio Anselmi, che espone alcune considerazioni interessanti sull’intenzione della Stampa di costruire un ciclo di feedback tra il giornale stampato e il sito, chiedendo ai lettori di commentare sul sito articoli e notizie e riportandone poi sul giornale del giorno dopo un riassunto; pare che abbiano finalmente capito che non è affatto detto che Internet cannibalizzi i quotidiani, se i quotidiani non dormono.

Sul palco ci sono anche Carlo Olmo (preside di Architettura di cui ho buoni ricordi dai tempi in cui facevo il rappresentante al Poli), presumo in rappresentanza del Rettore Profumo, e Marco Ajmone Marsan, nientepopodimenoche il mio relatore della tesi di laurea, anche se presumo che fosse sul palco non a tale titolo ma in quanto Direttore dell’Istituto di Ingegneria dell’Informazione e altra roba (ci siamo capiti) del CNR, e al posto di Chiamparino. Ma quando arrivo hanno già parlato, mi spiace; ad ogni modo, tutto l’evento è filmato e distribuito liberamente qui.

Subito dopo, la moderatrice Anna Masera (con cui ho appena litigato in pubblico un paio di settimane fa, con gran rispetto s’intende) introduce il panel successivo. Il primo è Juan Carlos De Martin, professore del Poli e anima di Creative Commons in Italia, che fa una spiegazione eccellente, concisa ma chiara anche ai non addetti ai lavori, di cosa siano le licenze CC; la cosa lo appassiona e si vede. Segue Domenico Ioppolo, della Stampa; poi arriva il pezzo forte, cioè l’intervento di Stefano Rodotà.

La mia stima per il professore è nota, ma oggi sono assolutamente stupefatto: credo di essere una persona piuttosto addentro a questi temi e piuttosto avvezza alla riflessione innovativa per conto proprio, ma lui, in un intervento a braccio di mezz’oretta, riesce a darmi almeno una decina di spunti di riflessione e di connessioni interessanti. Ad esempio, è chiaro a tutti il problema del diritto all’oblio, ma il suo collegamento con l’importanza della facilità di pubblicazione libera creata da Internet, per cui invece di far cancellare o far rettificare si possono pubblicare in proprio informazioni aggiornate, è meno ovvio. Ed è davvero importante, come lui fa, far notare a questa platea di manager ed editori che il tema non è una contrapposizione ideologica tra chi vuole il diritto di condividere e chi vuole proteggere una proprietà, ma una discussione anche pratica su quale sia il modello distributivo che massimizza la creazione e la remunerazione dell’ingegno, in uno scenario di creazione di massa e immateriale. (Mi sono spiegato?)

Dopo Rodotà parte il coffee break, e quindi il momento delle chiacchiere; il break è lungo e quindi aggancio un po’ tutti, cominciando da Rodotà stesso (con cui devo organizzarmi per il nostro “comitato Nicolais, e già che ci sono gli dò la buona notizia: ad Atene si farà il workshop sulla Costituzione di Internet), e poi il giro dei libertari torinesi di Hipatia, fino a Pistoletto. Incrocio Andrea Glorioso con cui pianifichiamo un po’ di attività, e alla fine faccio anche a tempo a salutare i ragazzi dello streaming e pure Vittorio Pasteris. E riesco anche ad abboffarmi di paste secche! (La coda del caffè però risulta indomabile.)

Ho ancora mezz’oretta, che mi permette di ascoltare innanzi tutto Piero Bianucci, il direttore di Tuttoscienze e giornalista molto apprezzato, nonchè il promotore del primo sito della Stampa e, via via, di questa svolta di oggi. Prende la parola Pistoletto e ricorda una serie di punti importanti, fino a giungere alla sua concezione (che merita accurata riflessione) del “terzo paradiso”.

Poi tocca ad Angelo Raffaele Meo, che tira fuori le slide; saranno le stesse che ho già visto varie volte? Invece no, ce ne sono di nuove – memorabile quella con tre gigantesche morti nere con tanto di falce, con scritto sotto “liberalizzazione”, “privatizzazione” e “globalizzazione”, e con la conclusione “Questo mercato fa più morti della guerra” – e il discorso è ancora più convincente del solito; per quanto Meo sia un pelo troppo vetero-ideologico dal mio punto di vista, non solo non ho dubbi sulla sua conclusione – il sistema della proprietà intellettuale va ripensato – ma apprezzo la chiarezza con cui anticipa e vede certi fenomeni. Ottima la citazione del “fabbricatore personale”, un oggetto che potrebbe cambiare il mondo: mi fa venir voglia di lavorarci. L’intervento, insomma, è un successone, concluso da un lunghissimo applauso.

Sta per prendere la parola Marco Ricolfi, ma purtroppo devo fuggire per un appuntamento. Scappo e rinuncio al resto del convegno, anche se avrei volentieri preso la parola e dato il mio contributo con il mio classico intervento sul ruolo degli utenti (De Martin ha comunque già ricordato come dal 40 al 60 per cento degli utenti Internet, circa mezzo miliardo di persone, la usino anche per condividere propri contenuti).

Spero che prima o poi ci sarà una occasione di dibattere di questi temi in grande stile anche a Torino, ad esempio sul modello del WOS che si è svolto a Berlino in questo weekend; noto però con piacere che, anche grazie al tanto vituperato giornale cittadino, non siamo affatto così indietro come ci piace pensare. Anzi, chissà che, sull’onda di queste scelte, non sia proprio La Stampa a spingere la nascita di un altro evento di cartello a Torino.

divider
giovedì 14 Settembre 2006, 19:27

Lascito olimpico

Non sto (ancora) parlando dello stadio Olimpico, del cui scempio peraltro l’intera città si è finalmente accorta.

Invece, di fronte a casa mia, sull’angolo di piazza Massaua, in uno dei punti più strategici di Torino, a un semaforo dalla tangenziale e con la fermata della metro proprio davanti, hanno aperto per le Olimpiadi un Holiday Inn. Oddio, tre mesi prima dei Giochi era ancora uno scheletro di cemento armato, tanto che nessuno pensava fosse possibile finirlo in tempo; e invece, con uno sprint incredibile, sono riusciti ad aprire tutto proprio il giorno della cerimonia inaugurale.

E’ un bell’albergo, per quanto il colore verzolino faccia storcere il naso a molti; non ho mai visto le camere, ma sulla strada ci sono delle enormi vetrate da cui si poteva osservare la sala colazione, una serie di salottini, di sale riunioni… il tipico arredo da albergo internazionale d’affari e da turismo, comunque carino ed elegante.

Eppure, nonostante veda relativamente spesso dei taxi che fermano davanti alla porta, da qualche giorno sulle vetrate sono comparsi due cartelli: “Affittasi garage interrato da 150 posti con licenza di uso pubblico” e “Affittasi locali commerciali da 50 a 600 mq“. Nel contempo, con lo scopo di preparare i suddetti locali, la sala colazione e le sale riunioni sono già state sbaraccate.

Forse che tutti i discorsi che ci sono stati ammanniti per anni, sul lascito turistico delle Olimpiadi, si sono rivelati una favola? Peraltro spero davvero che quest’agosto non siano venuti a Torino troppi turisti: si sarebbero trovati di fronte a una città niente affatto deserta, ma con praticamente tutti i locali e i negozi del centro chiusi, e avrebbero avuto serie difficoltà a mangiare un panino, figuriamoci a fare shopping.

Infatti, la maggior parte dei negozianti torinesi, tra una lamentela sulla crisi e un incontro col sindaco contro la pedonalizzazione del centro, quest’anno ha fatto quattro o cinque settimane di ferie, tutte rigorosamente attorno ad agosto. Probabilmente avevano fatto troppi soldi durante le Olimpiadi.

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2024 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike