Credo di non ripostare mai abbastanza spesso questo brano e video degli Eugenio in Via Di Gioia, che dopo quasi cinque anni inopinatamente ha ancora meno di un milione di visualizzazioni. Una piccola odissea di tre minuti scritta e musicata benissimo, il miglior video sul vuoto di senso della società digitale, il miglior video su Torino, il miglior video sul viaggiare, il miglior video sul vuoto di senso del viaggiare a rotta di collo dappertutto, nel mondo reale e in quello virtuale, per non andare mai da nessuna parte.
Sì, ho visto il concertone. Sì, ho un’opinione su Fedez, ma prima parliamo un po’ della musica, dai.
Il pomeriggio (con un paio di eccezioni: gli Zen Circus in mezzo al mare, Toffolo e soci dalle montagne) è stato deprimente, una sfilata di giovanotti griffati in autotune che hanno fatto sembrare persino Bugo un sollievo.
La serata è andata meglio, nonostante Pelù fosse giù di voce, nonostante un Pippo Baudo ottantenne che imita Guzzanti che imita Venditti. Gli intrusi sfiatati sono stati pochissimi; certo, a tratti sembrava semplicemente una radio che manda le hit del momento, ma Gazzè/Silvestri e Bennato, per esempio, hanno fatto bella figura; Bennato è riuscito a suonare un rock di quarant’anni fa e creare più energia di chiunque altro. Gli ospiti internazionali, pur validi, erano chiaramente lì solo per il nome e per il cachet. Bene invece Peyote & friends, che continuano la loro ascesa. Spiace per gli Extraliscio sfumati dopo il primo pezzo, nonostante loro fossero il “complesso tipo Bregovic” di quest’anno, ma è il destino notorio di chi suona per ultimo.
Ora, veniamo all’impegno sociale. C’è stato ieri sera un discorso perfetto, è qui sotto: l’ha fatto Michele Bravi alle ore mezzanotte e zero sette, rispondendo con parole dolcissime a quelli che dicono che “ricchione” è una battuta divertente, e raccontando come sia stato difficile trovare le parole per esprimere il suo amore per un altro ragazzo.
Il discorso di Fedez, invece, meh. Intanto, per favore, non tirate in ballo Elio e le Storie Tese: loro fecero un discorso da completi sconosciuti a inizio carriera in cui denunciarono fatti, corruzioni, scandali, un sistema di potere onnipresente. Fedez è un miliardario sulla cresta dell’onda con il pubblico ai suoi piedi, ed è facile avere coraggio con tre Ferrari sotto il culo; certo, si potrebbe anche non averlo e quindi è apprezzabile lo stesso, ma non è certo un bracciante africano che contesta il suo padrone nei campi.
In più, Fedez non ha denunciato un bel niente, ha fatto un comizio su un argomento, a favore di una posizione e contro un partito. Elio menzionò Andreotti, Gaspari, Ciarrapico al massimo del loro potere; Fedez “rivela” che a Vergate sul Membro c’era un candidato della Lega (non so nemmeno se poi eletto) che ha detto che gli omosessuali sono figli del diavolo. Ma dai? Fedez documenta, datialla mano, che la Lega è contraria alla parità di diritti per gli omosessuali. Incredibile, che coraggio, non lo sapeva nessuno!
Ora, in Italia l’omofobia è un problema, sia nel Paese che nella politica. Che sia l’ennesima “nuova legge” a risolverlo ho dei dubbi (quante battaglie per una “nuova legge” sull’omofobia ha fatto la sinistra in vent’anni? tipo una ogni due anni), ma è meglio che niente. Che sia questo il modo di farlo, ho dubbi ancora più grandi. Dopo questa sparata il tema è diventato talmente importante che la Lega farà ancora più blocco, e non mi vedo Draghi sacrificare il governo per una legge, tanto più una legge su cui, a quanto ho capito, una maggioranza in Parlamento ancora non esiste, al di là della Lega.
Nel frattempo, gli operai e i problemi del lavoro, su cui il concertone doveva richiamare l’attenzione, sono usciti rapidamente dalla scena. Magari sarebbe stato bello parlare di quello, parlare dello sfruttamento dei rider nel mondo delle consegne alimentari (pardon, del “food delivery”) o dei comportamenti ambientali dell’Eni che si pubblicizzava sui maxischermi, solo che avrebbe magari dato fastidio ad alcuni degli sponsor dei Ferragnez su Instagram.
Sparare su Salvini – anzi nemmeno su di lui: su semisconosciuti esponenti di terzo piano della Lega, molto più deboli di Fedez, che non hanno alcuna possibilità di rispondere – fa fine e non impegna; ed è anche un rischio ridotto, visto che non è certo la Rai a far passare Fedez sui media. Insomma, le battaglie sociali sulla propria pelle sono un’altra cosa; non vanno confuse con quel che è successo ieri.
Era l’ottobre 1994, Ligabue aveva già finito le idee e aveva trascorso l’annata a riascoltare tutti i dischi dei REM degli anni ’80 (è noto che, come i Litfiba, anche i REM veri sono quelli degli anni ’80, fino a prima della firma con una major e del grande successo). E così se ne uscì con un disco che era, diciamo così, molto ispirato ad essi, a partire dal singolo di lancio, che era semplicemente una cover di It’s the end of the world as we know it (canzone peraltro molto bella, al punto che i REM stessi ne fecero una quasi cover con un nuovo titolo dieci anni dopo).
Il pezzo di Ligabue invece, come Ligabue stesso, è ancora qui con noi, e non so se sia un bene. Ma se a fare il secondo ci si mette Mauro Pagani, persino in modalità “timbrare il cartellino, due svisate di flauto e via”, lo possiamo tranquillamente passare come disco della domenica mattina per un inizio di 2021 collettivamente depresso come il 1994, anche se per motivi diversi. Speriamo che domenica prossima il clima sia più rosa e meno “giallo rafforzato”, che non ho ben capito che colore sia ma temo assomigli molto al marrone.
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Quello che la famiglia aveva, però, era un giradischi coi dischi degli U2. Quelli venuti dopo di noi degli anni ’70, quelli degli ’80 e dei ’90, mica lo possono sapere veramente cosa erano gli U2, quelli veri, quelli che avrebbero ancora fatto un disco come Achtung Baby, talmente leggendario che uno dopo averlo fatto può anche morire, e difatti morirono subito dopo lasciandoci solo dei sosia sazi, bolsi e insopportabili. Oddio, già Rattle and Hum a ben vedere era un disco rivelatore della pomposità pretenziosa del Bono adulto, ma era comunque un bel disco e lo ascoltavamo a nastro. Ma la simbosi tra Dublino e gli U2 era totale, tanto che in quella vacanza noi ragazzini italiani non potemmo esimerci dal prendere il treno e andare fino a Bray, a vedere quella che si presumeva essere la villa di Bono.
Gloria non è nemmeno la miglior canzone di quel periodo; la miglior canzone di quel periodo è 11 O’Clock Tick Tock, un concentrato di rabbia adolescenziale e disperazione suburbana lanciate a trecento all’ora verso un muro di mattoni. Ma il video di Gloria vi dà l’idea di come fosse Dublino negli anni ’80 (e se volete, se non l’avete mai visto, ovviamente c’è The Commitments, specie la scena in cui cantano Destination Anywhere sulla freccetta).
L’Irlanda di oggi, invece, è tutt’altra cosa. Ci sono tornato spesso, negli anni, per vacanza e per lavoro, per amore e per amici; ho persino il mio immancabile pellegrinaggio rituale, sulla collina di Howth (qualcuno forse ricorderà una delle mie vecchie copertine di Facebook). Mi ci è capitato di tutto, ne ho raccontato più volte sul blog, ad esempio nel notturno Flux; e gli irrici, un popolo fantastico, negli anni mi hanno sfottuto per Houghton e ringraziato per Trapattoni, e cibato a carote bollite e spiegato come in tutta Dublino non ci fosse più un benzinaio, che la bolla immobiliare degli anni zero era tale che erano tutti stati rasi al suolo per farci sopra un palazzo.
Ci tornerò ancora, se riesco già l’anno prossimo. E’ sempre un gran bel posto, ma la rabbia misera di un tempo è stata sostituita dal moderno benessere globale; al posto dei magazzini abbandonati c’è la sede europea di Google e la gente ha disertato i Supermac per nuove creperie e ristoranti fusion. Probabilmente d’estate è meglio così, ma, d’autunno, è bello aver saputo com’era prima.
Nella storia della musica è esistito un momento molto particolare, circa dal 1880 al 1930. E’ il momento in cui la rivoluzione ferroviaria di metà Ottocento e la fine delle guerre di indipendenza nazionale portano a una fase di sviluppo, di benessere e di ricchezza che solo la Prima Guerra Mondiale (e, negli Stati Uniti, nemmeno quella) metterà in crisi. E’ il periodo in cui furono inventate e si diffusero tecnologie che cambiarono il mondo, spesso tramite le comunicazioni: il telefono, la lampadina, la dinamo, la rete elettrica, la rotativa tipografica, la fotografia portatile, e poi la radio e il cinema.
L’unione di queste tecnologie e di una fase di crescente benessere, almeno per la borghesia inurbata, portò la cosiddetta Belle Epoque; un’era di divertimento e di intrattenimenti di massa. Là dove c’è divertimento c’è sempre la musica; e un’altra delle invenzioni di quest’epoca, il fonografo/grammofono o più volgarmente “giradischi”, permise per la prima volta di registrare una performance musicale e di riprodurla più e più volte, anche se con qualità inizialmente pessima e quasi inintelligibile.
Il problema, tuttavia, è che il suono riprodotto dalla puntina che scorre su di un disco è molto molto debole, per cui è necessario amplificarlo; ma l’unico sistema che all’epoca avevano a disposizione era quello dell’amplificazione naturale tramite un grosso corno, proprio come per gli strumenti a fiato. L’anno scorso allo Science Museum di Londra, in una mostra temporanea, ho visto la riproduzione di un corno gigantesco, realizzato nel 1929 – alla fine di quest’epoca – come esperimento del meglio possibile nell’amplificazione naturale; era lungo una decina di metri e occupava un intero salone, permettendo però a un pubblico di qualche decina di persone di riuscire ad ascoltare la fonte di suono. In condizioni normali, comunque, l’amplificazione naturale è sufficiente a malapena per una piccola camera con qualche persona che ascolta in religioso silenzio.
D’altra parte, l’avvento dell’intrattenimento di massa rendeva sempre più difficile utilizzare il metodo tradizionale di generare la musica, cioè suonandola ogni volta dal vivo. Se nelle sale da concerto e in quelle da ballo continuavano ampiamente a spopolare le orchestre, vi erano una serie di situazioni in cui l’orchestra era troppo costosa e troppo poco pratica, mentre il grammofono offriva qualità e livello sonoro insufficienti; in particolare per le fiere viaggianti, per le giostre all’aperto, per le prime forme di pubblicità sonora, e per le proiezioni del cinema muto, che venivano normalmente arricchite da una colonna sonora strumentale eseguita sul posto. Nelle case per bene, poi, in attesa di una maggior diffusione della musica registrata, si usava che qualcuno suonasse il pianoforte per accompagnare la famiglia a cantare gli ultimi successi; ma che fare per avere un po’ di musica in assenza di un buon pianista?
Per tutte queste situazioni, si affermò un’industria sorprendente e oggi quasi completamente dimenticata: l’industria degli strumenti musicali automatici.
I primi strumenti automatici risalgono al Medioevo, mentre già alla fine del Settecento si affermarono piccoli strumenti come i carillon; ma quelli che per noi sono più sorprendenti sono appunto gli strumenti – praticamente piccole orchestre – dell’epoca in questione. Sono strumenti che tipicamente funzionano ad aria compressa generata da soffietti alimentati elettricamente o, prima dell’elettricità , a vapore o per ingranaggi ruotati a forza umana. Leggono lo spartito da un cilindro di carta o di metallo, su cui sono praticati fori o apposti spunzoni per azionare specifici tasti; oppure, da un “libro” di fogli perforati incollati a soffietto, in modo da generare un unico lunghissimo foglio continuo che permette di eseguire brani molto più lunghi rispetto a un cilindro.
Il più noto fabbricante di questi strumenti fu probabilmente lo statunitense immigrato tedesco Rudolph Wurlitzer, la cui azienda è sopravvissuta poi nell’era dei jukebox; un altro grosso centro di produzione fu Parigi, dove si trovava l’azienda della famiglia modenese dei Gavioli, inventori appunto del libro a soffietto. Nel 1897 la Aeolian Company di New York lanciò un innovativo pianoforte automatico denominato Pianola, che riproduceva brani musicali leggendoli da rotoli cartacei; fu un tale successo che la parola ha perso la maiuscola ed è rimasta persino nel dizionario italiano.
Gli strumenti automatici furono prodotti a catena di montaggio, e l’industria dei rotoli cartacei per le pianole diventò come quella discografica di oggi, con un continuo lancio sul mercato di nuovi successi popolari. Improvvisamente, però, negli anni Venti si affermò la tecnologia delle valvole termoioniche, da poco inventate, che permisero di realizzare amplificatori elettrici di grande potenza; e così, il grammofono e la radio poterono emettere suoni a volume molto più alto, dando il via anche al cinema sonoro, e una intera industria diventò improvvisamente obsoleta.
Se capitate a Londra e vi interessa questo mondo, vale la pena di andare fino a Kew Bridge a visitare il Musical Museum (attenzione agli orari di apertura), una raccolta di strumenti automatici molto completa gestita da una piccola associazione privata.
Se no, ormai su Youtube si trovano performance di ogni genere, eseguite su strumenti d’epoca amorevolmente restaurati. Nel video qui sotto, potete sentire Bohemian Rhapsody dei Queen eseguita da un organo automatico Marenghi del 1905; lo spartito non sarà perfetto, ma il risultato è decisamente affascinante.
Il periodo dei nostri quindici anni, dal punto di vista musicale, fu piuttosto particolare. Probabilmente siamo stati fortunati, ma la nostra adolescenza e prima gioventù, il momento del massimo cazzeggio della vita di una persona, coincise con l’esplosione – clamorosa, ma purtroppo breve – del fenomeno del “demenziale”.
Nella storia della musica italiana il demenziale ebbe molti precursori. Fu però il punk, con la sua demolizione dell’arte, a dare il via alla musica demenziale vera e propria; e furono gli Skiantos, da Bologna, negli anni ottanta. All’inizio dei novanta, però, fu Torino a diventarne la capitale, con un fiorire di gruppi di ogni genere, rigorosamente uniti nel culto della stupidaggine. Dal metal delle Trombe di Falloppio (vedasi Freego) alle parodie cantautoriali di Marco Carena, dai Mai Dire Straits ai Karamamma, dai Camaleunti ai Powerillusi. E a Torino nacque il festival di Sanscemo, che per alcuni anni, almeno tra i giovani, superò in popolarità quello di Sanremo, richiamando altri artisti da tutta Italia e ricoprendoli di ortaggi.
Musicalmente parlando, gli unici che da quel periodo presero la via del vero successo furono Elio e le Storie Tese, che però a Sanscemo non ci andarono mai, e che disponevano sin dal principio di una profondità artistica assolutamente unica. Alcuni riuscirono a fare una buona carriera nel mondo dello spettacolo, come Dario Vergassola o Lillo & Greg (ex Latte e i Suoi Derivati). Qualcuno si riconvertì ad un’altra moda, come i Karamamma che in buona parte divennero i Subsonica. E gli altri rimasero a Torino, facendosi la propria vita e suonando ogni tanto; quando qualche mese fa in mezzo a una manifestazione No Tav ho incontrato per la prima volta di persona Marco Carena, di cui da ragazzo ho consumato le cassette, mi sono anche un po’ commosso.
Ieri hanno inaugurato un nuovo tour – saranno alla Fnac di via Roma a inizio aprile e poi al Madison Square Garden di New York, ma quest’ultima data non è ancora confermata – e allora vi lascio con un video, da cui traspare l’essenziale: che sono passati venticinque anni, e per fortuna siamo ancora qui a non prenderci sul serio.
Ieri in piazza Castello è stata una grande serata: Caparezza, suonando davanti a ventimila ragazzi per gli MTV Days, non ha deluso le aspettative e ci ha tenuto a chiarire bene le sue posizioni sul TAV.
Gli MTV Days sono un grande festival commerciale organizzato da MTV in collaborazione con Città di Torino, Regione Piemonte, Esperienza Italia 150, La Stampa e siffatte entità Sì Tav: mi sarebbe piaciuto vedere certe facce ieri notte. Fassino che invita MTV che invita Caparezza che invita ad andare ad assediare la Maddalena non ha prezzo!
Domani sarà un grande giorno, senza alcun dubbio; saremo tantissimi, pacifici e sorridenti e metteremo la politica con le spalle al muro grazie alle parole, come già stiamo facendo con i poliziotti.
Alcune persone mi hanno detto di voler venire, ma di avere paura di possibili incidenti. Io rispondo come rispondo per lo stadio: se non si è incoscienti, la probabilità di finire in uno scontro senza volerlo è sostanzialmente nulla. Nemmeno il peggior questore del pianeta si metterebbe a tirare lacrimogeni su un corteo di decine di migliaia di persone. Ci saranno cortei alternativi che passeranno per i sentieri nei boschi (quelli che avete visto nel mio video degli scontri) o per la mulattiera che arriva da Giaglione, con l’obiettivo di abbracciare simbolicamente il cantiere da ogni lato; lì è possibile che gli attuali occupanti del presidio non gradiscano; se state nel corteo principale non vi succederà assolutamente nulla.
In proposito, aggiungo poi un breve video del discorso che ho tenuto domenica sera alla grande assemblea al presidio, la notte prima dell’attacco: è normale avere un po’ di paura, ma qual è la cosa che dobbiamo temere di più?
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E a lor signori che grazie a noi stanno dentro al caldo, un po’ blindati e un po’ gramellini, buona festa della loro Repubblica.
Noi fuori dalle grandi speranze e dai loro ingranaggi
noi fuori dalle radio dalle spiagge dalle vacche grasse
fuori dai cortei dalla burocrazia
fuori dalle fabbriche e dai musei
è dall’alto che ci dividono
è là in alto che inventano il pericolo
Noi fuori dai campi dell’orgoglio e dall’ansia di medaglie
noi fuori siamo l’acqua sprecata ai confini dei deserti
fuori dai cortei dalla burocrazia
fuori dalle fabbriche e dai musei
è dall’alto che ci sparpagliano
è là in alto che inventano il pericolo
Noi fuori dalle radio dai minuti di silenzio
dai conteggi dal consenso dai sondaggi dalle scuole
di nostro signore dalle aiuole dai cantieri
noi fuori non sappiamo cosa fare
Fuori dai cortei contro la geografia
fuori dalle chiese dentro ai formicai
è dall’alto che ci dividono
è là in alto che inventano il pericolo
Noi fuori dalle liste dai concorsi
dalle carte dalle curve dai discorsi
dalle rotte dalle risse dalle caste
dalle eclissi dai teatri
dalle aste dai contagi dalla peste
dallo sfarzo e dalla miseria
dalle feste con le droghe serie
dai concerti con le sedie
dai solarium dai cortili coi pavoni
dalle danze dai condoni
da Manzoni e da Mameli
dalle condizioni dei finanziamenti
dai cimeli della brava gente
dai congressi dalle marce
dai sondaggi di opinione
dagli asili e dalle pensioni
noi fuori non sappiamo cosa fare
Questa è l’ultima sera in Islanda, prima del ritorno a casa; sono da solo a Reykjavik, in attesa del volo di domani mattina presto.
Ho approfittato delle ultime ore in città per vedere qualche posto che ancora mi mancava; sono andato a visitare la chiesa di cemento in cima alla collina, il simbolo della città , davvero bella; e il giardino di sculture di Einar Jonsson, che sta proprio di fronte, belle pure quelle. Gli islandesi amano molto la scultura da esterno; se ne trovano ovunque, anche nei posti remoti, in mezzo ai giardini, sui ponti, lungo le strade. Ci sono anche molte grandi librerie, che fungono anche da caffè, da Internet point, da negozio di souvenir e di materiale vario: come ci si aspetterebbe da un popolo nordico, colto e progredito.
La situazione però mi pare un po’ diversa… la via principale di Reykjavik, per esempio, è un’infilata di negozi con pretese eleganti ma del tipo un tanto al chilo, come fosse la passeggiata delle Gru. Ovviamente l’eleganza è commisurata all’ambiente; per esempio c’è un negozio tutto fighetto e di marca, dedicato a ferramenta e utensili da giardino… ma solo quelli di moda!
Ho cominciato a sospettare qualcosa in questi giorni di viaggio; nonostante gli autovelox, ho notato che quasi nessuno rispettava alla lettera i limiti di velocità , e ciò a queste latitudini non è per niente normale. Ieri, infine, sono rimasto scioccato: davanti all’albergo c’era un enorme fuoristrada parcheggiato di storto nel posto degli invalidi. Non avevo mai, mai, mai visto da nessuna parte qualcuno parcheggiato abusivamente su un posto per invalidi in tutto il centro e nord Europa… Oggi in città ho persino notato un paio di macchine bruciare il semaforo e girare a sinistra col rosso: assurdo.
Ma è la radio che mi ha detto molto; ci sono solo sei stazioni, di cui soltanto due musicali. Una manda essenzialmente rock’n’roll anni ’60, ma per la maggior parte del tempo chiacchierano in islandese; l’altra manda, a qualsiasi ora e in qualsiasi sperduta landa desolata, On The Floor di Jennifer Lopez. La manda anche due o tre volte di fila, a tutto volume! Quando decide di dare una pausa a J.Lo, la stazione avvia un programma culturale che mi ha fatto conoscere a ripetizione altri grandi capolavori: innanzi tutto la scopiazzatura della canzone di J.Lo fatta da Britney Spears (qui la versione live ballata da un prosciutto travestito da Britney Spears), poi questo tizio che canta Hit The Lights, il singolo tamarro di Nelly Furtado e infine quella piccola gemma di stile ed eleganza che è Tonight I’m F***ing You di Enrique Iglesias. Tutte me le sono subite, tutte: era l’unica musica che c’era alla radio!
Sono così arrivato a una teoria, che peraltro già avevo concepito in Nuova Zelanda: vivere fuori dal mondo, in un posto dove non c’è niente se non meravigliosi paesaggi solitari, rende necessariamente tamarri. Ti viene solo voglia di prendere un quad e rombare in mezzo alle acque cristalline di torrenti primordiali, di comprarti un grosso fuoristrada per il gusto di fare più rumore possibile e di mangiare balena a colazione, pranzo e cena anche solo per spregio; ti viene voglia di lasciare la natura incontaminata a noi nevrotici urbani e di rivendicare in ogni modo la posizione dominante dell’essere umano nell’ecosistema planetario.
Secondo me, se prendi sti pezzi di islandesi alti due metri e li porti a Ibiza o a Rimini vanno completamente fuori di melone, passano trentasei ore di fila in discoteca, si fanno di qualsiasi cosa, guidano a fari spenti nella notte per vedere, si lanciano in un bunga bunga sfrenato e poi li ripeschi a vomitare in spiaggia alle sette del mattino.
Nel frattempo, io ho fatto un esperimento e stasera, fermo al semaforo sulla via principale, ho messo su Radio J.Lo e ho alzato il volume a palla. Ok, l’auto era una Hyundai grigia e non una Golf nera, ma ho fatto lo stesso la mia porca figura: due biondone si sono subito girate a guardarmi. Chissà cosa avranno pensato.
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Solo nell’ultimo mese me l’hanno detto in tre, due vanno in Brasile e uno a Londra. C’è chi va con la famiglia e chi la lascia qua, c’è chi te lo dice con rabbia e chi te lo dice con sollevazione, come la fine di un incubo. Tutti hanno in comune il fatto di essere persone capaci; d’altra parte all’estero i cazzari non trovano spazio facilmente come da noi. Tutti hanno resistito fin che potevano, ma poi sono arrivati al punto: “che ci sto a fare io ancora qui?”
Chi resta qui è spesso, per forza di cose, ultraconservatore; oltre ai più deboli, qui resta soprattutto chi è troppo vecchio per andare, oppure chi ha una qualche forma di protezione (o pensa di averla) e si concentra sul difenderla con le unghie e con i denti. La valanga di voti per Fassino è anche un desiderio di mettere la testa sotto la sabbia, di fare finta che il tempo possa tornare indietro, che possano ritornare gli anni ’80. E poi, restiamo noi che non ci arrendiamo, che non ci vogliamo credere, che ancora vogliamo provare a salvare l’Italia, e però siamo sempre di meno, e ci chiediamo quanto potremo resistere se il resto del Paese non ci darà una mano.
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