Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Lun 28 - 15:35
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione
venerdì 7 Novembre 2008, 15:09

Lasciando il Cairo

Sono nella lounge dell’aeroporto del Cairo, e mentre aspetto il mio volo posso finalmente postare qualche spigolatura di questo soggiorno egiziano.

Ieri il mio meeting si è concluso con una cena in crociera sul Nilo offertaci dal collega kuwaitiano Qusai Al-Shatti, che ci ha dimostrato come l’ospitalità, da queste parti, sia una cosa seria e davvero eccezionale. Abbiamo spazzolato il buffet, ignorando la pur procace danzatrice del ventre, e poi ci siamo spostati in coperta, dove l’ambiente era davvero piacevole: il Nilo al Cairo sembra un mare, con tanto di onde increspate e venticello, ma sulle due sponde e nelle isole svettano grattacieli e torri illuminate. E’ veramente uno spettacolo molto particolare, e davvero il paragone più immediato è con Manhattan; di notte, poi, il cemento e le brutture si vedono molto di meno.

La giornata è stata piena di episodi aneddotici che racconterò a parte; comunque, terminata la conferenza nella mattinata (anzi, non terminata, perché erano in ritardo; ma li ho mandati a stendere e ho inviato i miei commenti per iscritto) siamo andati nel pomeriggio al Museo Egizio, e poi a intravedere il Cairo copto. Il museo è davvero affascinante, perché sembra una specie di deposito di vecchi bagagli, solo che nelle teche di vetro ci sono tesori di ogni genere; proprio questo contrasto tra valore degli oggetti e squallore dell’esposizione ne accresce il fascino.

Ci sono reperti meravigliosi, partendo ovviamente dalla maschera di Tutankhamon, ma la maggiore impressione la fanno le mummie, e non solo perché ti chiedono un biglietto extra di quasi 15 euro solo per entrare in quella stanza. E’ incredibile come questi corpi siano contemporaneamente… vivi e morti, cioè chiaramente simili al corpo originale, eppure chiaramente morti, anneriti, con pezzi smozzicati e cadenti. La prima impressione, pertanto, è davvero di paura, come se da un momento all’altro dovessero alzarsi e improvvisare una replica de La notte dei morti viventi; poi subentrano il fascino e la soggezione per qualcosa di tanto antico eppure tanto reale; infine, però, la conclusione a cui si arriva è che restare chiusi per oltre tremila anni per poi venire esposti alle noccioline dei turisti è un destino che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, e che forse la cosa più rispettosa sarebbe lasciare queste persone riposare finalmente in pace.

In opposizione a tutto questo, stamattina ho fatto ancora un veloce giro nel centro commerciale annesso all’albergo. Vi ho detto infatti che il complesso che ospitava il meeting era enorme e centrato attorno a un mall all’americana. Bene, questo centro commerciale era davvero incredibile: stiamo parlando di qualcosa con un numero di piani da quattro a sette, arrangiati attorno a quattro o cinque vertiginose corti centrali; qualcosa come le Gru, ma con una superficie quattro volte maggiore e il triplo dei piani.

Dentro, ci sono circa 600 negozi (seicento!), oltre a un multisala da 21 schermi e a un enorme ipermercato; eppure, la cosa più incredibile è che non c’è anima. Ci sono solo negozi luccicanti che vendono esattamente le stesse identiche cose dei nostri centri commerciali, più una sezione “chincaglieria per turisti” di mezzo piano; sono entrato per cercare un regalo e sono uscito senza niente, perché non c’era assolutamente nulla di interessante, o che fosse diverso da ciò che si può trovare in Italia. In compenso, pensate a un qualsiasi marchio famoso in una qualsiasi parte del mondo, e lì c’è un negozio con quel marchio: che so, Adidas, Virgin, Radio Shack, Dockers, Nike, e ovviamente tutti i fast food del pianeta, con un Burger King di fronte a un McDonald’s.

Insomma, da lì si vede una grande, enorme voglia d’Occidente: e anche se solo una ragazza su dieci non ha i capelli velati, e anzi una su dieci ha il burka, vi è un chiarissimo desiderio di essere uguali ai benestanti del resto del pianeta, di far parte del mondo scintillante del consumismo globale. Ad esempio, tutti i giovani in giro per i corridoi erano vestiti comunque in modo elegante/tamarro, con scritte inglesi per ogni dove; l’unica differenza con noi sta nei centimetri di pelle esibita. I prezzi ovviamente erano obbrobriosi, anche se per la maggior parte non si potevano vedere: siamo pur sempre in Egitto, nessuno ti fa un prezzo senza prima averti valutato e impostato una negoziazione. Persino a Pizza Hut non erano esposti i prezzi!

Però, teniamo presente anche questo aspetto, quando pensiamo al mondo arabo chiuso nelle sue tradizioni e nelle sue prescrizioni religiose: in realtà c’è anche l’altra campana, e spesso – come ci hanno spiegato – chi in pubblico è socialmente limitato, in privato si scatena. Per esempio, le stesse autorità pubbliche la cui carriera politica o diplomatica sarebbe stroncata dall’organizzare un ricevimento governativo in cui venga servito del vino, a casa hanno cantine di centinaia di bottiglie costosissime…

[tags]viaggi, cairo, egitto, islam, nilo[/tags]

divider
martedì 4 Novembre 2008, 13:10

Bloggare in Egitto

È istruttivo notare come Internet cambi le cose in quei paesi ancora persi nel mezzo della Storia, che non sono nè compiutamente democratici nè totalmente dittatoriali. Da una parte è necessario rispettare le usanze e le culture delle varie parti del mondo, anche quando esse prevedono la disapprovazione sociale per chi sfida l’ordine costituito; dall’altra, non si può permettere che questa disapprovazione degeneri in imprigionamento, esilio, morte.

Per questo motivo trovo istruttivo riportarvi questo video sul bloggare in Egitto, sperando che tra qualche anno non se ne debba vedere uno analogo con la nostra faccia dentro.

[tags]egitto, internet, censura, blog, libertà di espressione, diritti umani[/tags]

divider
lunedì 3 Novembre 2008, 21:24

La maledizione del barone Montezuma

Se proprio vi interessa saperlo, in questo momento sono in bagno e festeggio un inatteso crossover tra l’Egitto e Montezuma. Gli è che stasera c’era il ricevimento del lunedì, che si è tenuto in un posto stranissimo nel quartiere elegante e novecentesco di Heliopolis: il Palazzo del Barone, ovvero una affascinante mostruosità costruita per un nobile belga negli anni Venti in “stile orientale”, cioè come un occidentale immaginerebbe un palazzo orientale.

Naturalmente è abbandonato e in decadenza da tempo, e anche piuttosto pericolante; solo che noi eravamo il primo gruppo ad arrivare e non ce l’hanno detto, così varie signore si sono infilate dentro, hanno preso la vecchia scala nel buio più pesto e hanno rischiato di ammazzarsi dal primo piano, prima di scoprire che il ricevimento era in realtà nello spiazzo antistante.

Comunque, a forza di mangiucchiare porcatine di ogni genere e di bere succhi e coca cola, ho avuto un incontro da vicino con i cessi chimici egiziani, trovandomi peraltro nell’insolita situazione in cui la coda era davanti a quelli degli uomini, a dimostrazione di come la governance di Internet sia ancora saldamente in mano al sesso forte (ma debole di stomaco).

Proprio questo mi fa sovvenire del racconto che ci ha fatto durante la cena una coppia del posto, lui italiano e lei egiziana: infatti, lui per poterla sposare ha dovuto non solo convertirsi, ma anche ottenere da un apposito ufficio statale un certificato di conversione all’Islam, a cui è potuto seguire il certificato di matrimonio.

Tale certificato va tenuto da conto: infatti, quando andarono in vacanza a Sharm, l’albergo si rifiutò di dare loro la stanza in quanto non avevano dietro la prova di essere sposati. L’unica via di uscita era quella di dormire in stanze separate, ma (oltre alla mancanza di intimità) si sarebbe dovuto raddoppiare il costo. Alla fine, però, la soluzione si è trovata quando, a forza di escalare la situazione, si è scoperto che il mega-manager dell’albergo era italiano; tra italiani ci si capisce, e quindi il manager dell’albergo ha offerto alla coppia una seconda stanza gratis tra quelle comunque invendute, dando disposizione agli inservienti di chiudere un occhio sulla sua effettiva occupazione…

[tags]viaggi, icann, egitto, cairo, islam, matrimonio[/tags]

divider
domenica 2 Novembre 2008, 16:29

Cairo di notte

Ieri sera mi sono un po’ rappacificato con Il Cairo: infatti, dopo aver trascorso praticamente tutto il giorno in camera a lavorare a varie cose, avevo voglia di uscire e ho combinato la serata con Roberto Gaetano e famiglia. Io e Roberto frequentiamo ICANN insieme ormai da sei anni, e abbiamo una lunga storia di riunioni e ristoranti in giro per il mondo; peraltro la prima volta che ci incontrammo in Italia fu al meeting ICANN di Roma 2004, ma prima di allora ci eravamo già incontrati in mezzo mondo, nell’ordine prendendo un orrido panino pieno di salse in un bar fighetto di Marina del Rey (Los Angeles, 2000), incontrandoci per completo caso all’uscita di un pub ristorante a Dublino (estate 2001) e poi ancora a Montevideo, Bucarest, Amsterdam, Rio de Janeiro, insomma ovunque ma non in Italia.

Lui, comunque, aveva lì una voglia di ristorante Falfela in centro al Cairo, rimasta dal meeting ICANN del 2000, e così ci siamo fatti chiamare una macchina dall’albergo e siamo andati lì. Il posto è carino, abbastanza tipico, anche se pieno di turisti; ti guardano comunque male, e persiste quella sensazione di non essere poi così benvenuti da queste parti, però il cibo era buono e abbiamo speso una cifra umana, tipo 13 euro a testa, contro i 40 abbondanti di cui ti pelano i ristoranti dell’albergo. Oggi a pranzo con la stessa cifra ho preso un panino e una coca cola!

Soprattutto, ciò che mi ha riconciliato con questa città è stato il giro a piedi per il centro – o meglio, per la parte mondana del centro, la zona novecentesca costruita in stile europeo-newyorchese – dopo cena, a notte avanzata. Quello stesso centro che visto di giorno è squallido e cadente la sera si trasforma in un magico fiume di luci: ci sono insegne ovunque, in latino e in arabo, di ogni colore.

Capisci così che Cairo è la New York del mondo arabo: l’unica vera metropoli del Medio Oriente (tenendone fuori la Turchia). Non che le abbia viste tutte, ma vi garantisco che Tunisi o Marrakech sono completamente diverse, perché non hanno questa dimensione; qui vivono venticinque milioni di persone, e lo si percepisce. In realtà vi sono molti centri, e mi è anche venuta voglia di scoprire come sono di notte i vicoletti del Cairo islamico e della zona della Cittadella (non temete, non la soddisferò). Ma anche solo il centro basso è affascinante: in mezzo a questo fiume di luce vi sono in giro migliaia di persone, che escono ed entrano da locali e caffé. Ci sono negozi di ogni tipo, e si può trovare in fila, spesso ancora aperti, un forno dove un bimbo guarda estasiato un enorme vassoio di biscotti; un venditore di meraviglioso antiquariato in stile orientale; un buco lurido dove riparano motociclette; l’ingresso di un vicolo misterioso che porta in casa di qualcuno, o forse a uno dei tanti mercatini.

Certo, i marciapiedi sono sconnessi e pieni di auto in ogni dove, e a ciascun attraversamento si rischia il game over: credo di aver già scritto l’altra volta che Cairo è un enorme Frogger dal vivo, dove ordinariamente le auto e persino i camion ti sfrecciano a cinque centimetri dalla faccia mentre attraversi, calcolando dinamicamente la tua e la loro posizione, indipendentemente dal colore del semaforo, dai segnali e dalle precedenze. Esitare è fatale, in senso assolutamente stretto: quando parti, vai e prega.

Però, girando a caso per il centro del Cairo, si scoprono angoli di vero mistero; e si finisce per esempio addentro a una lunga fila di taxi che occupa la strada, in coda per fare benzina (24 eurocent al litro) all’unico distributore; oppure in un mercato notturno pieno di gente che compra, dove una parete è occupata da scatole sbugnate e scrostate di monitor LCD da computer, mentre dall’altra un nuovissimo negozio di lampadari sfoggia delle composizioni vetrarie che sembrerebbero barocche e pesanti persino a uno spagnolo.

Certo, quando ti accorgi che è tardi e devi tornare indietro, ti rendi conto che non sai dove sei e che nessuno ha una cartina; ma non importa. Basta camminare un po’ per il mercato, fino a uno spiazzo dove due dei classici taxi bianchi e neri, tenuti insieme dallo scotch, aspettano clienti; il primo tassista non parla altro che dialetto cairota, ma va ad abbrancare il giovanotto che fa da interprete. Citystars – il nome del nuovissimo, periferico complesso dove stiamo noi; e periferico vuol dire una ventina di chilometri di case ininterrotte – è la parola d’ordine; il tassista non è sicuro di aver capito, ma il giovanotto lo istruisce. E così, per quasi un’ora giriamo a caso nella periferia nord del Cairo, pigiati in cinque in una 127 bianconera, in mezzo a dedali di vie e sopraelevate e svolte obbligate, pregando che lui trovi alfine una strada.

Muoversi per l’immensa periferia del Cairo è complicato; i grumi di case sulle colline e sulle dune sono intercalati da enormi vialoni da sei corsie per senso di marcia, sui quali invece che a Frogger si gioca a Out Run. Si inchioda per arretrare e passare dall’altro lato il camion che sta sterzando a destra costringendo a frenare altre due auto che nel frattempo accostano verso un pedone che deve salire evitando l’albero di palme e il tombino rotto con un palo di ferro arrugginito piantato dentro, nel bel mezzo della carreggiata, a dire “qui non si passa”. Abbiamo anche fatto il livello del tunnel: un buco a due corsie lungo quasi quattro chilometri, dal percorso a serpentina, con auto che si sorpassano da entrambe le parti e moto che sorpassano in mezzo, nessun tipo di ventilazione forzata, e una atmosfera gassosa che implica morte certa per asfissia nel caso in cui ti si fermi la macchina lì sotto.

E poi c’è il livello tortuoso: infatti i vialoni non hanno incroci perché sarebbero troppo pericolosi, né semafori perché tanto sarebbero inutili. Se due vie si incrociano e non si può fare un mega-raccordo cementizio, la soluzione è che una delle due vie si scontri con lo spartitraffico dell’altra; quindi chi arriva di lì è costretto a girare a destra, andare avanti per qualche centinaio di metri, poi in mezzo c’è un buco nello spartitraffico che permette una inversione a U, in modo da tornare indietro e poi risvoltare nel proseguimento della via. Insomma, una rotonda schiacciata!

Notevole anche quando la passeggera alla mia sinistra voleva aprire il finestrino: il tassista, mentre con una mano tiene la sigaretta, con l’altra tiene il cellulare e con la terza tiene il volante, con la quarta mano estrae da sopra il parasole la manovella mancante, che infila a forza, girandosi per metà, nel buco del finestrino posteriore sinistro, girando per aprirlo mentre slalomeggia tra le auto per strada e scarica la cenere sull’asfalto.

A un certo punto abbiamo passato senza danno persino il difficilissimo livello “attraversamento dell’autostrada”, in cui due gruppi di pedoni, invisibili nel buio della notte, attraversano le sei corsie del vialone a distanza di esattamente un metro e ottanta l’uno dall’altro, e il tuo tassista lanciato a oltre cento all’ora ci si infila in mezzo, dieci centimetri dal culo dei primi e dieci dalla faccia dei secondi, mentre questi continuano a camminare a velocità regolare, e senza nemmeno rallentare un briciolo la corsa del veicolo. Lì è scoppiato spontaneo l’applauso!

Ma il vero momento magico è stato quando, trovata la strada principale sbarrata, il nostro autista ci ha portati in mezzo a una intera città abbandonata: centinaia di metri di casupole a uno o due piani, eleganti e decorate, apparentemente risalenti a secoli fa, completamente vuote e abbandonate. A un certo punto c’era persino quello che sembrava un caravanserraglio, anch’esso abbandonato; si stagliava contro il cielo illuminato dalla luna e faceva davvero un grande effetto.

E’ stata solo una visione di pochi secondi, presto sottrattaci da un nuovo livello di Out Run; ma è stata sufficiente a farmi pensare che il Cairo abbia dentro di sé molto più di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

[tags]cairo, taxi, traffico, egitto, viaggi, icann[/tags]

divider
sabato 1 Novembre 2008, 11:02

Nuovo cinema Lufthansa (2)

Mi avranno fatto penare con le lounge, ma alla fine sono stato fortunato: visto che c’era un posto libero, ho vinto un upgrade gratuito in business class sul Francoforte-Cairo. (Il posto era libero per via di un americano che ha perso la coincidenza; solo che all’ultimissimo momento l’americano è arrivato, però io ero già spaparanzato e quindi hanno piazzato lui in economy facendogli un rimborso, e me gratis in business! Ho incontrato poi il tizio al Cairo e ha bestemmiato tutti i santi…)

Ho quindi potuto godere del programma di intrattenimento personalizzato, che consiste in una orrida interfaccia simil-web tramite la quale tuttavia è possibile godere in video on demand di qualche decina di film e programmi televisivi.

Scorrendo la lista ho visto qualcosa di vagamente interessante, tipo Hancock (interessante per vedere quanto riesca a rendersi ridicolo Will Smith) o l’ultimo Indiana Jones (interessante per vedere quanto riesca a rendersi ridicolo Harrison Ford). Alla fine, però, c’era The Forbidden Kingdom e così non ho avuto dubbi.

Premetto che anche questo film ha dei problemi: per esempio, una sceneggiatura con più buchi di una forma di Emmental. La trama infatti è la seguente: un bravo ragazzo americano viene coinvolto nella rapina più inspiegabile della storia, visto che gli amici che fa entrare nel negozio cinese improvvisamente e senza alcun motivo tirano fuori una pistola e cominciano a sparare, dopodiché lui scappa per un quartiere dove tutte le porte delle case e dei negozi sono aperte anche di notte. Comunque, alla fine si trova magicamente teletrasportato nell’antica Cina, dove una serie di strani personaggi lo aiuteranno ad attraversare foreste e deserti per raggiungere infine le Tle Cime di Lavaledo, su cui ha sede l’impero cattivo di turno. Naturalmente il bene trionfa, e il ragazzo riesce ad essere infine caricato su un Airbus A340 Lufthansa che lo riporta a Boston sano e salvo; nonostante una lunga coda al controllo passaporti, riuscirà a raggiungere gli amici cattivi e a dargliele finalmente di santa ragione al grido di “Adriana!”.

In tutto questo c’è un altro grosso problema: l’american boy è interpretato da tal Michael Angarano, un ventenne che per faccia ed espressioni riesce ad essere un clone altrettanto brutto, vecchio e antipatico di George W. Bush. Egli spara le sue battute con un pathos degno di un venditore di aspirapolveri, anzi, per essere precisi, di George W. Bush che tenta di vendere aspirapolveri. Per fortuna, nel film ci dà grandi soddisfazioni, visto che si prende mazzate dall’inizio alla fine; tuttavia, risulta costantemente fuori posto, improbabile quanto Mara Carfagna ministro della Repubblica.

Capite che non ci si può aspettare molto dalla trama e dalla parte americana del film, ma non è quello il punto. Per fortuna, infatti, la pellicola si trasforma presto in uno show personale di Jackie Chan, uno dei più grandi attori degli ultimi cinquant’anni: un vero fuoriclasse dei film d’azione. E’ raro trovare uno che contemporaneamente è capace di esibirsi in evoluzioni mozzafiato, coreografarle in modo che siano divertenti invece che noiose, riuscire regolarmente a farti ridere e comunque dipingere un personaggio interessante, con profondità e credibilità.

In più, qui gli affiancano il numero 2 tra i kung-fu master viventi, Jet Li (che spero ricorderete in Arma Letale 4 o nel suo esordio occidentale da protagonista, Romeo deve morire). Avevo il terrore che il film si rivelasse una insana ammucchiata in cui Li e Chan si pestavano i piedi a vicenda, tipo quelle squadre di calcio che comprano ventisette attaccanti di prima fascia e solo dopo si accorgono che possono andarne in campo massimo un paio alla volta. Invece, incredibilmente, c’è chimica: almeno in alcune occasioni, i due mettono insieme scenette alla Ciccio e Franco davvero spassose.

L’altra meraviglia del film sono i paesaggi cinesi, sicuramente aggiustati in digitale, ma davvero bellissimi: vale la pena di vedere il film solo per la fotografia. Aggiungeteci poi un paio di roditrici cinesi di altissimo livello, dedite ad abbondante fan service per tutti i gusti: maso quando una delle due pesta a sangue l’odioso americano; lesbo quando si menano tra loro; sado quando la mena Jackie Chan. Che volete di più?

[tags]cinema, lufthansa, forbidden kingdom, jackie chan, jet li, george w. bush[/tags]

divider
venerdì 31 Ottobre 2008, 17:56

Scampoli di pianeta

A Torino, ieri pomeriggio, c’era un vento gelido che portava via il mondo; man mano che si avvicinava il tramonto, sembrava veramente che la città stesse per svanire in una lattigine indistinta. In bicicletta era difficile tirare diritto, anche perché si era continuamente avvolti da nuvole di polvere di foglie secche frantumate: gli alberi sono ancora carichi di giallo, ma non lo saranno per molto. Il sole era una palla pallida sopra i mattoni rossi dei poveri vecchi, appena nascosti da svergognate affissioni di politici bolliti e di Winx seminude.

Se tutto questo già è straniante, aspettate di vedere l’interno: perché in quel mondo nascosto di mattoni rossi, sospeso tra l’ospedale e il dimenticatoio, sta una realtà improbabile quanto poetica, fatta di anziani, di disabili e persino di anziani disabili. Capita così di trovare dietro un angolo, in una stanza che fu di degenza, una vera balera; un eccezionale ballo a palchetto alle tre di un pomeriggio feriale. L’età minima per varcare la porta è sui settantacinque, eppure, da fuori, si può rubare uno sguardo: ballano bene, e sembrano ancora innamorati.

Francoforte, oggi, è verde scura: le foreste attorno all’aeroporto sono rossicce e bagnate, e ti verrebbe da cercare presto un caminetto. Invece ci scaricano a metà dell’infinito corridoio A, e mi tocca lottare sui tapis roulant e poi intasarmi nell’ascensore; il tunnel lisergente dai colori artificialmente cangianti, per cui questo aeroporto è famoso, oggi è ancora peggio del solito. Rimaniamo intampati dietro a una famigliola con bambini: il genere di passeggero che l’industria definisce VFR, che ufficialmente significa “visiting friends and relatives”, ma che nel gergo taluni interpretano come “very frightened and rambling”. Vallo a spiegare al bambinetto irrequieto e al genitore che non capisce dove andare, che stanno bloccando una fila di almeno una decina di businessmen spazientiti che sanno quel percorso a memoria!

La lounge è pure peggio: non è più il Senator di una volta, ormai c’è più spazio nella metro di Londra che nelle sale Lufthansa di prima classe. Però, oltre a spararmi in vena un intero bretzel, mi godo i telegiornali tedeschi: tra il konjunkturpaket e la chiusura di Tempelhof, spunta un servizio su come fare Halloween da professionisti, con tanto di interviste a vari “profi-monster”. Non c’è niente da fare, i tedeschi sono così: tutto deve essere scientifico, tecnologico e soprattutto professionale. Qui ancora si ricorda quando la nota casa tedesca di pneumatici Continental scelse come slogan pan-europeo “Supremazia tecnologica tedesca”: a un tedesco sembrava la cosa migliore che si potesse dire di un pneumatico, ma al resto d’Europa faceva venire in mente il rumore di militari e carri armati in marcia all’unisono verso la Polonia, così le vendite non andarono benissimo.

Cairo… cosa si può dire del Cairo: veramente uno dei pochissimi posti dove non avrei voluto venire. Nulla voglio togliere alla meraviglia delle piramidi, al centro storico bellissimo e unico al mondo, e anche alla gentile ospitalità di questo popolo. Eppure vivere qui, anche per pochi giorni, è davvero stressante: il concetto di organizzazione non esiste nemmeno. All’aeroporto le persone che devono aspettarti per aiutarti a passare la frontiera e arrivare all’albergo non ci sono, hanno cartelli sbagliati, faticano a leggere i caratteri occidentali, e appena possibile litigano tra loro per contendersi il piacere di chiederti la mancia. Per passare la frontiera, una volta acquistato il visto al costo di 15 dollari americani (niente carte, niente valuta locale e per pagare in euro devi pregare e poi pagare 15 euro), il tizio prende in mano 15 o 20 passaporti del gruppo e va da una guardia che, dopo un po’ di discussione, fa passare tutti senza nemmeno aprire i documenti, contando semplicemente che numero di persone uguale numero di passaporti. Dopodiché la navetta gratuita promessa dall’organizzazione non c’è, o meglio c’è ma è parcheggiata in fondo allo spiazzo, in mezzo a un cantiere abbandonato, e gli autisti non ci sono, e comunque se ci fossero sarebbero stati corrotti da quelli delle limousine in modo da forzarti a prendere quelle.

Quindi attraversi la strada rischiando la vita e ti infili alla bell’e meglio in una macchina, con cui ti portano alla sede del convegno: un albergone a 20 chilometri dal centro, nel bel mezzo di un centro commerciale. E’ come se avessero preso l’Auchan di corso Giulio Cesare e ci avessero messo accanto un albergo, però con attorno palazzi di cemento cadente, niente verde e tutto dieci volte più squallido. E quando finalmente riesci a fare il check-in, dopo dieci minuti che sei in camera, nonostante tu abbia affisso fuori il segnale di non disturbare, entra un addetto senza bussare e ti porta dalla lavanderia un vestito e delle camicie non tue – e non parla mezza parola d’inglese per farglielo capire. Ah, e la rete dell’albergo funziona per dieci minuti, poi si pianta troncando i pacchetti di brutto, ma se stacchi e riattacchi il cavo (niente wi-fi) riprende a funzionare per altri dieci minuti.

Non so, spero di non sembrare snob; il problema, come dicevo, è che già essere in giro è pesante, se di fatto sei prigioniero in un posto del genere diventa poco piacevole. Ma forse è solo la stanchezza del viaggio.

[tags]torino, francoforte, cairo, viaggi, lufthansa, continental, tempelhof, autunno, vecchi[/tags]

divider
giovedì 30 Ottobre 2008, 12:10

Giovani limoni e radici secche

Non pensavo di ritornare subito sul rapporto tra imprenditori e tecnici dell’ICT, nonostante assista regolarmente a perle su perle: l’ultima è una azienda dot com che, pur avendo come unico prodotto un sito web, per scelta non ha un sistemista: infatti il ragionamento è stato “diamo da fare l’installazione dei server in outsourcing, tanto dopo che li abbiamo installati un sistemista non serve più”. Alle richieste di assumere un sistemista, anche solo part time o su chiamata, l’azienda ha risposto sempre di no, perché era una spesa non necessaria. Poi, al primo serio problema con server che si piantano e sito malfunzionante, la reazione del management è stata non di chiamare un sistemista di corsa sperando di trovarne uno, ma di cazziare ancora di più il reparto sviluppo – peraltro composto di un neolaureato e di uno stagista, e che va avanti a forza di serate fino alle 22 e ferie negate per tutta l’estate – perché non era in grado di risolvere il problema sistemistico.

Questo genere di situazione è la punta dell’iceberg costituito da un problema molto più grave: perché, nonostante l’ICT sia uno dei pochissimi settori che possono ancora reggere l’economia di un paese sviluppato, praticamente nessuna azienda italiana dell’ICT ha successo su scala globale, e quelle che reggono lo fanno in buona parte solo su scala nazionale e solo grazie a commesse ricevute per amicizia (quando non per stecche) da pubbliche amministrazioni o manager amici?

La mentalità dell’imprenditore italiano medio è ristretta: se gli date in mano un budget di 100 con cui fare una nuova impresa, lui allocherà 80 a se stesso, al proprio SUV e al telefonino fico, e poi coi 20 rimasti cercherà di assumere (anzi, di non assumere) collaboratori vari, stagisti, consulenti e personale vario, selezionato esclusivamente perché costi poco. Conosco personalmente più d’un piccolo-medio imprenditore che parla dei propri dipendenti con il nomignolo di “carne da macello” o “scimmie ammaestrate”, magari adottando esplicitamente la tattica di prendere una persona in stage promettendo una assunzione, tenerla sottopagata o gratis finché non si stufa, e poi prenderne un’altra.

Purtroppo, nell’ICT questo non funziona: il lavoro dei tecnici è un lavoro ad alta densità di conoscenza, che non può essere programmato come quello di un operaio. Specialmente se ciò che si crea è innovativo, non si può sapere in anticipo quando sarà finito, e nemmeno se lo si riuscirà a fare e come; in questa situazione, l’investire su una persona, il qualificarla, il tenersela – evitando così i costi, che quasi nessun imprenditore considera, di inserire nuove persone e di doverle formare da capo – è vitale per il successo dell’azienda, a tutti i livelli; le persone non sono intercambiabili.

Sperare di competere globalmente nell’ICT con aziende piene di stagisti e giovani-limone, da spremere fin che ce n’é, è pura utopia: è chiaro che l’Italia, con questo approccio imprenditoriale, non andrà mai da nessuna parte. Alla fine, però, nel malato sistema economico nostrano le cose comunque vanno avanti: tanto le commesse arrivano raramente per via della qualità dei prodotti e dei servizi dell’azienda, e arrivano più spesso per capacità commerciali o direttamente per amicizie. Tanto, dall’altra parte c’è spesso un’altra azienda piena di giovani limoni, che per carenza di competenza non è in grado di capire la qualità del prodotto informatico che sta comprando.

Anzi, probabilmente nemmeno gliene frega, dato che esistono molti giovani limoni che provano piacere a farsi spremere per poche lire, ma solo per qualche anno di inizio carriera; poi tutti i giovani italiani imparano che alla fine la via migliore per il successo è lavorare il meno possibile, stare al proprio posto e leccare sederi. E quindi, se il capo vuole quell’applicativo inutile e pieno di bachi perché il commerciale è suo amico, vada per quell’applicativo inutile e pieno di bachi.

Stringi stringi, il punto fondamentale è sempre lo stesso: la mancanza di meritocrazia e di capacità in tutta la nostra società, evolutasi addirittura nel disprezzo per la meritocrazia e per la capacità stessa. Certo che è difficile immaginare un modo con cui questa mentalità possa cambiare… eppure, non dimentico la lezione della mia visita africana: a forza di non irrigare il terreno, prima o poi le radici seccano, e presto i limoni non avranno più nemmeno il succo.

[tags]italia, informatica, lavoro, economia, aziende, imprenditori, meritocrazia, ict[/tags]

divider
mercoledì 29 Ottobre 2008, 14:46

We Train Italy, wellcome from us

Da qualche tempo, nel generale marasma dei lavori di Milano Centrale, sono comparsi dei cartelli per aiutare gli utenti ad uscire: c’è il rischio infatti di non riuscire a trovare il modo di arrivare all’esterno. I cartelli sono bilingui, e si comincia con l’italiano:

“Si informa la gentile clientela che in attesa del completamento dei lavori della Stazione Centrale, per la discesa è possibile utilizzare, oltre alle nuove rampe mobili, gli ascensori posti all’interno della Sala d’Attesa nei modi previsti dalle rispettive norme d’uso.”

Insomma, manca una virgola dopo il che, però alla fine si capisce, anche se ci si chiede come sia possibile utilizzare degli ascensori in modo irrispettoso delle norme: salendo sul tetto? Giocando ad andare su e giù?

Comunque, purtroppo a Trenitalia (anzi, a Grandi Stazioni, o qualsiasi sia la società del gruppo FS che si occupa della cosa) hanno pensato bene di riportare subito dopo il messaggio tradotto in inglese, a vantaggio dei turisti internazionali. Quindi, eccolo qui in tutto il suo splendore:

“Waiting for Stazione Centrale renovation works ending, customers are informed that, to reach ground floor, it is possible only use of lateral stairs, waiting room’s elevators or moving escalator in Ovest side of the station according with respective regulation.”

Che dire? Mi piacerebbe sapere di chi sia parente quello che è stato pagato per scriverlo.

P.S. Nonostante la sfiducia dei lettori milanesi di questo blog, ieri sera sulla 91 sono comparsi due controllori e mi hanno chiesto il biglietto.

[tags]treni, trenitalia, milano, milano centrale, inglese, traduzioni[/tags]

divider
martedì 28 Ottobre 2008, 16:33

Lo sparo

Stamattina non mi ha sorpreso più di tanto leggere sul blog di Flavia Amabile – uno di quei casi di blogger per cui ti chiedi “ma ogni tanto troverà anche il tempo di lavorare?” – che su Facebook è partita una campagna, già con oltre mille adepti, per uccidere Berlusconi. Per carità, posso immaginare che tutto ciò sia soltanto uno scherzo; si sa però che lo scherzo non è altro che una versione depotenziata della realtà, e che nessuno scherzerebbe sull’uccidere Berlusconi se sotto sotto non sperasse che succedesse davvero.

D’altra parte, mentre all’ora di pranzo pedalavo sul cavalcavia di corso Sommeiller, mi ha colpito una grossa scritta rossa, tracciata con lo spray sullo sfondo di uno dei grandi cartelloni pubblicitari che guardano la salita. C’era scritta una serie di cose, seguite da minacce a Sacconi, a Berlusconi e alla Marcegaglia, concludendo con l’ovvia stella a cinque punte. Per carità, una cosa è disegnare stelle a cinque punte e una cosa è pensarle davvero, ma le morti di Biagi e D’Antona non sono poi così lontane.

Persino davanti alla piazzetta del pranzo politecnico, all’incrocio tra via Vigone e via Monginevro, una mano sconosciuta ha versato con uno spray nero un bestemmione, che non riporto per rispetto dei miei lettori cattolici. Una bestemmia scritta non è una bestemmia istintiva, di quelle che vengono fuori a molti nell’incazzatura del momento; una bestemmia scritta in un luogo pubblico è desiderio di colpire, di offendere, insomma è uno sparo a salve.

Gli spari a salve non vengono solo dagli scontenti: basta distillare l’umore di molti commenti alla protesta della scuola e dell’università. Forse voi, bazzicando questi ambienti, avete l’impressione che l’Italia sia avvolta da una protesta ampia e dilagante, ma non è così: o meglio, dilaga la protesta contro la protesta. Se il Rettore dice che non manderà la polizia a sgomberare le aule, sono pronti mille italiani medi a invocare legge e ordine a colpi di manganello. Paradossalmente, non interessa nemmeno valutare le ragioni della protesta, anzi nemmeno conoscerle. Ciò che interessa è che la protesta finisca; spesso addirittura per un senso di disfacimento e rassegnazione, per un “credi che io stia meglio? eppure sto zitto al mio posto” che molti pensano, arrivando a rovesciare le prospettive a considerare arrogante e pretenzioso chi chiede soltanto un mondo migliore in cui vivere.

Sui nostri media controllati e censurati, la rabbia trova sempre meno spazio; trova invece spazio la paura, che è funzionale ad aumentare le schiere di coloro che reclamano repressione indistinta, non solo dove ci vorrebbe – verso i criminali, verso gli spacciatori, e aggiungiamoci magari gli evasori e i corrotti, che non li cita mai nessuno – ma anche verso qualsiasi opinione diversa da quella del potere. I meccanismi bastardi del potere sono molti, ce li ha spiegati Cossiga a chiare lettere soltanto la settimana scorsa; ma quando la protesta diventa impossibile, quando viene repressa senza ascoltarla e senza concederle spazio per canali democratici, a chi dissente resta una sola cosa: lo sparo.

Se le premesse sono queste, mi chiedo anzi come mai lo sparo, in questo duemilaotto senza speranza, non ci sia ancora stato.

[tags]italia, politica, democrazia, terrorismo, protesta[/tags]

divider
lunedì 27 Ottobre 2008, 21:32

L’eterna lotta

Oggi ho sentito un manager e un tecnico che discutevano, e ho assistito a una nuova vetta della conflittualità latente che sempre regna nelle aziende ICT: il manager, infuriato per ritardi e bachi di vario genere, ha detto al tecnico “mi spiace solo che non so programmare, se no nel tempo necessario per spiegarti le cose lo programmavo io il sito!”.

E il tecnico non ha nemmeno risposto “prego, allora fai tu”!

[tags]tecnici, manager, ingegneria, aziende[/tags]

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2025 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike