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lunedì 10 Gennaio 2011, 17:14

Marchionne, il sindacato e l’assenza di futuro

Sabato pomeriggio sono andato al presidio che la FIOM ha organizzato in piazza Castello per spiegare le ragioni del no all’accordo di Mirafiori. Abbiamo voluto esserci per dimostrare la solidarietà ai lavoratori (non tanto al sindacato in sé, istituzione la cui versione italica io non amo proprio), e nel frattempo io ho girato qualche immagine che vi lascio qui sotto.

Personalmente trovo l’accordo di Mirafiori scandaloso innanzi tutto nel modo in cui è maturato; è un ricatto con cui Marchionne dice “o lavorate a condizioni sempre peggiori o io chiudo le fabbriche italiane” (e non è detto che tra le due strade speri nella prima). Scandaloso, più ancora il fatto che Marchionne “ci provi”, è il fatto che il Paese si chini a novanta; che non ci sia una controparte seria in grado di giocare non in difesa, ma in attacco.

Già, perché il famoso progetto Fabbrica Italia, almeno per quanto riguarda Mirafiori, non mi convince proprio: che futuro può avere uno stabilimento che dovrebbe produrre SUV americani su licenza? E’ questo, secondo Marchionne, il veicolo del futuro, o è un modo per trascinare Mirafiori ancora per qualche anno in condizioni sempre peggiori, stile ThyssenKrupp, in attesa di poterlo chiudere per sfinimento?

Una delle cose più interessanti che ho fatto sabato è stata chiacchierare un po’ con un operaio dello stampaggio di Mirafiori. Mi ha detto più o meno “qui ci limano turni e pause perché saremmo troppo poco produttivi, eppure nel mio reparto il macchinario più recente ha almeno vent’anni e molti ne hanno quaranta; per cui, se in Volkswagen cambiano stampo in dieci minuti, noi ci mettiamo tre ore, periodo in cui la produzione resta ferma. Visto che ora la produzione è sempre più just in time e a piccoli lotti, questo vuol dire che per molto tempo la linea è improduttiva; ma non dipende dai lavoratori, ma dal fatto che la Fiat non ha mai investito per aggiornare tecnologicamente lo stabilimento”.

Ovvero, condizioni cinesi: io quest’estate ho visitato lo stabilimento Volkswagen di Shanghai e lì non ci sono robot o macchinari moderni, solo miriadi di operai con saldatori e persino cacciaviti in mano, come negli anni ’50. Evidentemente questo è il futuro che Marchionne ha in testa per le fabbriche italiane.

E qui, come dicevo, arrivano le magagne del sindacato: perché il sindacato ha passato gli ultimi trent’anni con la testa nella sabbia, confondendo la difesa dei lavoratori con la conservazione dello status quo, grazie a cui i sindacalisti hanno goduto di privilegi personali; e arrivando a difendere anche le inefficienze, come se il problema della competitività internazionale non si ponesse mai, come se non fosse inevitabile che in una fabbrica di auto arretrata e con prodotti poco competitivi presto non ci sarebbero stati più soldi per tutti, e che i tagli sarebbero stati scaricati sui lavoratori.

Io avrei voluto che fosse il sindacato a chiedere alla Fiat un piano industriale adeguato alla mobilità del “post petrolio”, basata su veicoli energeticamente efficienti e non inquinanti (e su una diversificazione verso settori attigui, come la cogenerazione) e su uno spostamento verso il trasporto pubblico e collettivo. La Fiat che idee ha per affrontare questa prospettiva? Apparentemente, nessuna. E la FIOM? Beh, temo, anche. E’ questo – non i dieci minuti di pausa di operai che peraltro lavorano già 40 ore settimanali contro le 35 dei tedeschi – che fa la differenza sulla competitività futura della nostra industria automobilistica.

A tutto questo si aggiunge però un altro scandalo, quello dell’ingiustizia sociale. Se l’Italia deve accettare sacrifici per recuperare competitività, li devono fare tutti. Non è accettabile che si peggiorino le condizioni di vita e di salute degli operai mentre Marchionne guadagna 120 milioni di euro con le sue stock option, tassate perdipiù al 12,5%. A me piacerebbe fare il conto di quanti soldi ha dato alla Fiat la collettività con la cassa integrazione, con gli incentivi alla rottamazione, con le regalie tipo l’acquisto delle aree TNE (60 milioni di euro) o la svendita dello Stadio delle Alpi a scopo di centro commerciale. Facendo i conti, potremmo scoprire che Mirafiori in realtà dovrebbe già essere nostra.

[tags]fiat, fiom, auto, mirafiori, marchionne, industria, lavoro, operai, trasporti[/tags]

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domenica 9 Gennaio 2011, 15:40

Chi li ha costruiti rubando

Scandalizzò i benpensanti, quel famoso brano in cui De Gregori, in piena era Tangentopoli, chiedeva “stai dalla parte di chi ruba nei supermercati / o di chi li ha costruiti rubando?” (il testo ufficiale è zeppo di punti interrogativi per confondere gli avvocati del Pam). Ancora oggi viene definito “populista” e “facilone”; e per quanto sia ovvio che la risposta è “con nessuno dei due”, quei commenti per me ribadiscono soltanto la tendenza tutta italiana ad accettare con gioia i furti e i soprusi purché vengono dal potere (alle volte sembra proprio che l’italiano medio sogni solo un ombrello nel culo).

Comunque, in queste feste è scattato l’allarme sulla nuova moda del furto al supermercato con scassiera: la “scassiera” è una cassiera parente che cerca di far passare il carrello dei propri congiunti battendo sì e no un articolo su tre. Ora, è evidente che un furto del genere viene facilmente beccato, soprattutto se il carrello è pieno fino all’inverosimile di giochi della playstation e di un televisore piatto 22 pollici (e no, la scusa “me l’ha messo il bambino nel carrello di nascosto”, pur proferita, con un televisore proprio non regge). Ma a me interessa il fenomeno sociologico.

Perché di gente che fa fatica a mangiare a Torino ce n’è tanta, ed è un problema di cui si parla troppo poco; ma, dalle cronache, non pare che le famiglie di cui si parla rubassero per sopravvivere. Rubavano, invece, per “sopravvivere”: per avere anche loro il televisore piatto e i giochi della playstation o anche solo un cenone con salmone e caviale invece che pasta e pollo. Rubavano, dunque, per non sentirsi inferiori agli altri, identificando “gli altri” con il modello forzatamente sorridente che domina la comunicazione natalizia, ancora di più in un momento di crisi, in cui ai media è stato dato ordine di “diffondere positività e benessere” per non deprimere i consumi.

E’ questo che spesso fa la differenza tra felicità e infelicità: è provato che la felicità, sopra la soglia di sopravvivenza materiale, non dipende da ciò che si ha, ma dalla proporzione tra ciò che si ha e ciò che hanno gli altri: di qui gli “status symbol”. Chi si sente escluso dalla grande festa, chi ritiene di avere meno, lotta per accumulare oggetti e dunque status come può: a costo di distruggere il pianeta e sfruttare gli altri, o anche solo di rubare in un supermercato; oppure investendo il buttafuori che gli ha impedito l’ingresso in discoteca e lo ha sminuito davanti a tutti.

E’ questa dinamica negativa, indotta artificialmente nell’interesse di pochi, che va combattuta; e la sua penetrazione è davvero ubiqua, se viene presentato come un grande gesto di beneficenza il regalare a un bambino rom non un’istruzione, non un’assistenza, non il riscaldamento o una casa decente, ma una playstation (e sarebbe strano se il bambino non si lamentasse perché è il modello vecchio).

Allo stesso tempo, va poi detto che le “scassiere” erano tutte precarie stagionali, persone che probabilmente non trovano lavoro e che l’avrebbero comunque perso a breve. Insomma, per certi versi questa faccenda è anche una vendetta proletaria: tu mi sfrutti da precaria sottopagata? E io allora ti derubo. Non è una giustificazione valida, ma allo stesso tempo, a questi supermercatari, gli sta bene: perché in una società dove il lavoratore fosse considerato (come è) un valore fondamentale per l’azienda, invece che un costo secco da minimizzare, certi trattamenti di lavoro non sarebbero consentiti e prima ancora non sarebbero nemmeno concepiti. Quando gli “imprenditori” e i “manager” italiani arriveranno a capirlo davvero – non solo a parole, nelle melense e ipocrite letterine motivazionali di fine anno – sarà sempre troppo tardi.

[tags]lavoro, supermercati, cassiere, furti, consumismo, status sociale, benessere, povertà[/tags]

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venerdì 7 Gennaio 2011, 18:49

Meno 18

Ero bambino e il mio tram era il 6, quando i biglietti da dieci erano una striscia colorata lunga lunga a cui la macchinetta tagliava via ogni volta dal lato un pezzettino in più (di qui il nome “obliteratrice”). C’era l’inflazione a due cifre e dunque il colore dei biglietti e il relativo prezzo variava ogni anno o giù di lì.

Poi un giorno decisero che non c’era più il 6 ma l’1, e nemmeno andava più in piazza Castello, però era sempre lo stesso tram vecchiotto, non come quei nuovi mostri che giravano come “metropolitana leggera” (dall’accelerazione direi più “scassoni pesanti”) in corso Regina. Con la nuova “griglia” avevano promesso chilometri di binari nuovi, ma intanto quelli vecchi sparivano alla velocità della luce; e negli anni seguenti, con la sola eccezione del nuovo 9, non fu altro che un susseguirsi di linee teoricamente tramviarie gestite con gli autobus per anni.

Il tram, eppure, non è un residuo del passato; in tutto il mondo sta ottenendo un nuovo successo, essendo una sana via di mezzo tra il piccolo e inquinante autobus e la costosissima metropolitana. Certo i tram moderni non sono più le vetturette agili del Novecento, ma dei barconi simili a una portacontainer su rotaie; ma sono imbattibili per le “linee di forza” del trasporto di una media città come Torino. Ciò nonostante, godono di una immagine particolarmente negativa, che porta alla tranquilla esposizione in pubblico di idee che a una analisi più attenta sollevano perlomeno qualche dubbio, come quella per cui scavare un buco enorme a fianco della Gran Madre per farci un parcheggio sotterraneo non danneggia il monumento, ma il fatto che ci giri attorno il tram sì (in fondo sono solo centoventi anni che ci gira attorno).

Attualmente, la storia simbolo del disprezzo con cui vengono visti i tram è quella del 18, la linea che dal 1982 unisce la zona di piazza Sofia a Mirafiori passando per via Bologna, via Rossini, via Accademia Albertina, via Madama Cristina, via Nizza, via Passo Buole e corso Settembrini. Si chiama così perché è la somma delle vecchie linee 1 e 8 ante riforma, e in questi ultimi anni, per via dei lavori del sottopasso di corso Spezia e poi della metropolitana verso il Lingotto, è stata prima troncata in piazza Carducci, con una navetta bus da lì a Mirafiori, e poi sostituita completamente con il bus.

Adesso, il progetto del Comune è quello di accorciarla definitivamente, fermandola per sempre in piazza Carducci. La scusa ufficiale è che essendoci la metropolitana da piazza Carducci al Lingotto, e in futuro fino a piazza Bengasi, non ha senso che in quel tratto di via Nizza passi anche un tram. Peccato che il tratto sia in tutto di tre fermate, e che rappresenti solo un pezzetto della linea 18.

I veri problemi per cui si vuol tagliare il 18 sono altri: i lavori della metropolitana sono stati fatti senza un briciolo di buon senso, spostando le fogne e i relativi tombini proprio dove c’erano i binari, e dunque ora il tram non ci passerebbe più. A monte di questo, sta la decisione di mandare in pensione qualche anno fa alcune decine di tram della serie 3100 (i classici tram arancioni di Torino), che ora giacciono a marcire in un deposito, ufficialmente accantonati. E allora, adesso che varie linee di tram (13, 16) smettono di essere gestite con i bus per la fine dei lavori di metropolitana e passante ferroviario, si scopre che non ci sono più abbastanza tram per gestire un percorso così lungo (più lungo è il percorso e più tram servono per coprirlo a parità di frequenza).

Quelle motrici sarebbero ancora recuperabili a costi senz’altro inferiori rispetto all’acquisto di altrettanti bus; e allora non si capisce perché si voglia a tutti i costi spendere dei soldi per comprare i bus, per poi costringere i passeggeri a cambiare da un tram a un bus in piazza Carducci. Visto che i binari ci sono già, perché non usarli? E’ quello che chiede una petizione di tecnici e appassionati, che io ho già firmato.

Ma gli sprechi inspiegabili non sono finiti: nel 2005 (a metropolitana già in costruzione) si sono spesi molti soldi per rifare l’impianto in tutto il tratto di via Passo Buole (già di suo un impianto relativamente recente, visto che fino agli anni ’60 la linea passava nel sottopasso del Lingotto): chilometri di binari che ora il Comune vorrebbe buttare per sempre.

Del resto, nel 2004 sono stati rifatti i binari del 18 anche in via Accademia Albertina; e anche quello rischia di restare uno spreco. Infatti, l’onnipresente lobby dei commercianti ha colto la palla al balzo per chiedere che il 18 diventi completamente bus su tutto il percorso. Perché? Perché così nel tratto iniziale di via Bologna le rotaie del tram, situate accanto al marciapiede davanti ai negozi, possono essere adibite a parcheggio, come già è in questo periodo di gestione bus provvisoria. E chi se ne frega dell’ecologia e dell’efficienza del trasporto pubblico.

[tags]tram, torino, 18, trasporto pubblico, sprechi[/tags]

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mercoledì 5 Gennaio 2011, 19:47

Ancora sulla montagna

A valle (è il caso di dirlo) del post montano di ieri, su Facebook è iniziata una discussione su cosa sia la montagna, su come venga maltrattata e mal considerata dalla società di oggi. E allora, c’è un’altra cosa che vorrei farvi vedere.

Sono stato a Cervinia una volta sola, due estati fa; e anche lì ero stato sconvolto dall’urbanizzazione degradata, compreso il degrado dei vecchi impianti funiviari del dopoguerra. Tra questi impianti c’era quello del Furggen: una delle funivie più ardite della storia alpina, con un’unica immensa campata di tre chilometri che saliva infine quasi verticalmente fino a una stazioncina di arrivo aggrappata alla roccia (progettata sulla carta da Carlo Mollino, ma realizzata ben più al risparmio). Inaugurato nel 1952, chiuse nel 1993 quando, dopo soli quarant’anni di esercizio (le funivie sono programmate per durarne sessanta), una delle funi una notte rimase incastrata per il ghiaccio e si ruppe all’avvio, fortunatamente senza vittime. Risistemarlo costava troppo e l’impianto fu abbandonato.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che in cima a una montagna, proprio di fronte al Cervino, c’è un edificio di cemento lasciato bellamente lì a morire. La morte dei manufatti umani in alta montagna è dolorosa e cruenta, ma anche meritata; è una giusta vendetta della natura. Questa funivia aveva un’appendice particolarmente invasiva al tempo, e particolarmente horror oggi: dopo i primi anni di esercizio, in cui numerosi sciatori scivolavano nel primo tratto in cresta cadendo in qualche centinaio di metri di strapiombo sul lato svizzero, fu realizzato un orrido tunnel di cemento appoggiato sul fianco della montagna, pieno di gradini in discesa che gli sciatori percorrevano con gli attrezzi in spalla. I mitici esploratori crucchi di Retrofutur ci sono saliti, e hanno realizzato una serie di impressionanti video di ciò che resta del tutto.

Ma non è questa la cosa più impressionante; la cosa più impressionante sta invece in un paio di altre foto. Questa, infatti, è l’uscita del tunnel suddetto, fotografata nell’estate del 2008. Ovviamente l’immagine vi lascerà perplessi: ma come, finisce su uno strapiombo di rocce? Come facevano gli sciatori a lanciarsi giù? Sarà crollata la montagna?

La risposta sta in questa immagine qui sotto: la foto della pista con gli sciatori sopra nel 1993, e la stessa foto nel 2008. Le due righe rosse corrispondono allo stesso profilo; nel cerchietto giallo a destra (a sinistra è subito sopra la pista a metà crinale) l’uscita del tunnel.

furrgenTunnelPisteVergleich_med.jpg

In quindici anni, sono spariti circa quindici metri di ghiacciaio, a causa del riscaldamento globale: e dunque il “piano pista” si è corrispondentemente abbassato. Anche volessero, oggi non potrebbero più rifare quell’impianto così com’era. Ma ho il sospetto che, a fronte di questa ecatombe gelata, la perdita di una pista da sci non sia il problema principale.

[tags]cervinia, furggen, funivie, sci, montagna, ghiacciaio, riscaldamento globale[/tags]

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martedì 4 Gennaio 2011, 19:25

Primo dell’anno

Il primo dell’anno, di pomeriggio, siamo andati a Courmayeur, a trovare un’amica di Elena. Arrivati là, ci si è presentata una scena da incubo: già l’ultimo tratto della statale era bloccato dalle auto in attesa di riuscire a svoltare a destra ed entrare in paese. Le frecce dirigevano verso parcheggi sotterranei a pagamento completamente pieni e bloccati da auto in attesa che si liberasse un posto. Tutte le vie, nonostante l’abbondanza di segnali di divieto di sosta con rimozione forzata, erano semibloccate dalle auto parcheggiate in ogni modo, e ridotte a budelli dove continuamente ci si trovava di fronte il muso di un SUV targato Milano, Varese o giù di lì che cercava di procedere in direzione opposta. Ho impiegato mezz’ora, girando a caso, per trovare un parcheggio che fosse non dico regolare, ma tale da non intralciare il passaggio di nessuno; di meglio proprio non c’era.

La scena mi ha dato una sensazione di assurdità; è assurdo che sia impossibile muoversi con i mezzi pubblici, per una regione ricca e fatta di una valle grande e poche valli piccole che vi afferiscono (con una ferrovia e dieci corriere la copri tutta…); ed è assurdo che un villaggio montano si trasformi in una riedizione innevata delle vie del centro di Milano, completamente bloccate in ogni direzione da una fila interminabile di automobili spuzzettanti. La compagnia comunque è stata piacevole, la via pedonale piena di sciatori e maniaci dello shopping, il banchetto delle ostriche in mezzo alla piazzetta davvero fighetto, il panorama dei monti maestoso e così via; ma quella, checché ne pensino i milanesi, non è montagna.

(Del resto, anche da noi, semi-isolati vicino al bosco a 1600 metri d’altezza, la notte di Capodanno qualche intelligentone ha pensato di andare avanti fino all’una e mezza a sparare botti; e a cinquanta metri dalle case c’è una riserva naturale popolata di stambecchi. E’ come se le persone fossero rincoglionite in se stesse, incapaci di accorgersi che esiste un mondo meraviglioso attorno a loro; nel buio della propria testa, intente ai propri giochini e a nient’altro.)

Comunque, non era questo che volevo dire; ma che, tornando indietro nella sera ormai scura, abbiamo preso la statale e ammirato la successione di paesini, castelli e vallate. A un certo punto, solo per un attimo, alto nel cielo un fascio luminoso; una stella cometa in ritardo di una settimana. E’ stato quell’attimo, lo ammetto, che mi ha reso felice.

[tags]capodanno, val d’aosta, courmayeur, montagna, traffico, botti, automobili, natura, stelle[/tags]

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martedì 28 Dicembre 2010, 17:44

Sì, viaggiare

Questo è quasi certamente l’ultimo post dell’anno: sto infatti per staccare qualche giorno in montagna, e (grazie a Vodafone, di cui a tempo debito scriverò per bene peste e corna) non avrò la connessione a Internet. Certo, c’è sempre la biblioteca di Brusson, ma vedrò di non andarci se non in caso di necessità…

Oggi era una bella giornata e fuori dalla mia finestra si vedeva tutto l’imbocco della Valsusa, col Musiné da un lato e la Sacra dall’altro. Era una di quelle giornate dal panorama magnifico e infinito che ti invogliano proprio ad andare, e dunque me lo sono chiesto: ma perché, oggi, sono a Torino e non in uno dei tanti altri posti che ho visitato? In questi ultimi anni ho un po’ ridotto il ritmo dei miei giri per il mondo; comunque nel 2010 sono stato due volte a Londra, ho fatto un giro tra Belgio e Germania, sono stato una settimana a Vilnius e un mese in Cina (sempre con qualche forma di sovvenzione da organizzazioni varie).

Negli ultimi dieci anni ho avuto la fortuna di venire spedito o invitato in mezzo mondo. Viaggiare spesso, specialmente quando non lo si fa per turismo, cambia la forma mentis; ti abitua a modi di vivere diversi dal tuo, ti fa scoprire il meglio e il peggio degli altri, ti dà idee e progetti. Ti spinge, anche, a ritrovare la tua cultura: non mi sarei mai interessato davvero al piemontese se non mi fossi trovato qua e là per mezzo mondo, perché è proprio quando ti trovi a confronto con l’altro che impari quanto sia importante essere se stessi.

Allo stesso tempo, impari che a Londra o a Shanghai (o in un villaggio della campagna lituana) si può vivere altrettanto bene che a Torino, con dei pro e dei contro diversi, e dunque che non c’è alcun vero motivo per stare in un posto preciso. Capisci, insomma, la bellezza del nomadismo; il sogno di viaggiare senza fermarsi mai, di scoprire sempre un posto nuovo, o di ritrovare, uguale e diverso, un posto dove sei già stato tanto tempo fa.

Capisci, anche, che la nostra società non incoraggia il viaggiare che non sia fuggevole consumo; che, specialmente in Italia (ma non solo), siamo ancora un branco di animali dove il fatto di essere fisso lì da tanto tempo è premiante, perché in una società piramidale il ruolo sociale è importante, e si acquista solo con una lunga interazione con gli abitanti del posto. Il nomade, dunque, ha il privilegio di saperne di più; e la condanna di essere sempre marginale ovunque si fermi.

Accanto al nomadismo tradizionale ed evidente, quello degli zingari, c’è ormai in gran misura un nomadismo sottile e poco notato, quello di chi gira il mondo da un lavoro all’altro, da una università all’altra, da una multinazionale all’altra. E’ questa, se c’è, la base di una possibile nazione mondiale, una classe di persone che non rinnegano le proprie origini, ma per cui il passaporto è essenzialmente una fidelity card e i confini degli Stati sono soltanto una coda in più all’aeroporto. Sono persone spesso viste con sospetto, anche perché sono in parte l’ossatura del potere globalizzato; eppure, sono di solito quelle che immaginano meglio il futuro.

[tags]viaggiare, nazionalità, nomadi, globalizzazione, patria, società[/tags]

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lunedì 27 Dicembre 2010, 11:26

Il lavoro del futuro

Nik il Nero è un ragazzo bolognese (ha 41 anni dunque in Italia lo si definisce “ragazzo”). E’ diventato piuttosto noto in questi anni: è l’autore di molti dei video del Movimento 5 Stelle emiliano, spesso ripresi anche sul blog di Grillo. I suoi video sono intelligenti, divertenti, ben girati, passano di bacheca in bacheca; Nik non è un regista famoso, ma è comunque conosciuto da Aosta a Palermo.

Eppure, con l’attività di videomaker, Nik non riesce a campare. Tra qualche giorno, avrà un nuovo lavoro: farà il camionista. E’ un lavoro che gli piace, che ha già fatto in passato; come scrive lui stesso su Facebook, avrei fatto volentieri video per vivere, ma non ce la facevo, non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia in modo dignitoso, quindi sono tornato alla mia vecchia passione, i camion e la strada, da piccolo sognavo di guidare i bisonti della strada, quel lavoro l’ho fatto per anni con piacere e dedizione, adesso visto che il mio sogno di videomaker non è decollato a dovere torno a farlo con piacere”.

So che i più cinici diranno che è giusto; c’è chi dice che girare video, scrivere, suonare, fare l’attore non sono veri lavori, a differenza che guidare camion. Eppure c’è qualcosa che non quadra; eppure è lustri che ci dicono che siamo un paese sviluppato e dunque che i lavori poco qualificati, come il camionista o il muratore, non hanno futuro, e che il futuro sta invece nei lavori qualificati, creativi e intellettuali, tra cui appunto quelli nello spettacolo e nella comunicazione.

La prova dei fatti, purtroppo, è diversa. Magari lo è non tanto perché quei lavori non ci siano, ma perché finiscono a chi non è qualificato, a chi non ha talento ma ha un contatto che conta. Io, per esempio, ho visto le ultime campagne di comunicazione della Presidenza del Consiglio e mi sono chiesto chi le abbia pensate. Quella contro l’omofobia, oltre ad essere moscia e inefficace, paragona tranquillamente una materia sensibile e personale come l’orientamento sessuale alla scelta del numero di scarpe; quella contro gli incidenti sul lavoro dice che se muori in un cantiere la colpa non è del tuo datore di lavoro che risparmia sulla sicurezza, dei controlli inesistenti e ammorbiditi o delle leggi lasche e incomprensibili, ma è tua, perché non hai “preteso” la sicurezza dal padrone.

Sono convinto che se avessero fatto fare questi spot a Nik sarebbero venuti fuori dei piccoli capolavori. Alla nostra economia, però, servono camionisti; e sarebbe ora di chiedersi il perché.
[tags]economia, lavoro, videomaker, camionista, nik il nero, movimento 5 stelle, pubblicità[/tags]

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sabato 25 Dicembre 2010, 10:08

Il senso del Natale (2)

Ho scoperto ieri che in questi giorni il mio blog è raggiunto da molte persone che cercano “il senso del Natale” – e trovano appunto il mio post natalizio di quattro anni fa.

Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, e vorrei aggiungere solo un paio di riflessioni, partendo dal post natalizio di Beppe Grillo che condivido appieno. Io quest’anno non ho fatto regali, se non qualcosa di valore minimo. Non l’ho fatto per cattiveria o disinteresse, ma perché non reggo più l’orgia consumistica del nostro Natale, non accetto più l’idea di dover testimoniare affetto o rispetto mediante un oggetto materiale, magari da giudicare per il suo valore venale o per il suo allineamento alla moda del momento (l’affetto e il rispetto si dimostrano tutti i giorni e in particolare nei momenti di necessità, non nelle feste comandate). Non l’accetto, a maggior ragione, nel momento in cui basta guardarsi attorno per trovare persone a cui manca anche il minimo per sopravvivere, e non nella lontana e dimenticabile Africa, ma nelle vie sotto casa.

Non lo accetto anche perché tutto questo è una via sicura per l’infelicità. La nostra società è progettata per renderci infelici, creando continuamente bisogni artificiali che non possiamo soddisfare, per alimentare l’economia consumista. Questa infelicità ci rende aggressivi e incapaci di apprezzare quanto di bello e di appagante c’è attorno a noi, a partire dalla bellezza del creato.

La felicità non deriva dal benessere che già abbiamo, ma (al massimo) dalla speranza di migliorarci in futuro. Superata la soglia di possesso materiale che permette di vivere in tranquillità e sicurezza, il resto è solo fumo negli occhi; non dico che sia sbagliato o dannoso, ma non è ciò che fa la differenza. La felicità è legata all’accettare se stessi e gli altri, all’amare se stessi e gli altri, due necessità inscindibili visto che non è possibile accettare gli altri senza accettare se stessi. E’ la nostra frustrazione da avidità materiale indotta che ci rende anche intolleranti, competitivi, incapaci di aiutarci e dunque definitivamente soli.

Il regalo migliore per un buon Natale, forse, è rendersi conto che del Natale moderno non abbiamo alcun bisogno.
[tags]natale[/tags]

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venerdì 24 Dicembre 2010, 17:08

Il museo del Novecento

Ieri mattina ero a Milano e ne ho approfittato per visitare l’appena inaugurato Museo del Novecento, gratuito fino a fine febbraio.

Bene, per prima cosa occorre specificare che al nome del museo mancano almeno un paio di parole. Io ero stato tratto in inganno dagli aerei in esposizione nel tendone all’ingresso (che peraltro devono essere un riciclo di una vecchia mostra torinese, dato che le didascalie ricordano come uno di essi sia stato costruito “negli stabilimenti Alenia Aeronautica in corso Francia”), pensando che il museo riguardasse tutto il secolo scorso nei suoi vari aspetti. In realtà, è il museo della pittura del novecento milanese.

Da questa piccola precisazione si può capire il succo della visita: il primo piano con le opere di Boccioni (assolutamente belle), un po’ di altro futurismo e una stanzetta con un paio di Picasso minori può meritare, ma il resto del museo è insignificante in maniera imbarazzante: se questa roba meritasse tutto lo strombazzamento mediatico che ha avuto, la GAM torinese sarebbe il Louvre. Si salva un po’ la sezione dentro Palazzo Reale, raggiungibile peraltro da una passerella nascosta al livello 2 di cui tre quarti dei visitatori non si accorgono nemmeno; è la sezione dell’arte contemporanea e dunque perlomeno ci parla con linguaggio moderno (non perdete la stanza piena di luci stroboscopiche per entrare nella quale vi fanno firmare una liberatoria scritta in burocratese e disponibile solo in italiano: mi son chiesto se facesse parte dell’opera d’arte). Ah, e c’è una scatoletta di merda d’artista, nel caso non ne abbiate mai vista una; e all’ingresso espongono Il Quarto Stato premettendo che non c’entra niente con tutto il resto, ma ce l’avevano in cantina e da qualche parte dovevano metterlo.

Una nota a riguardo dell’accoglienza: era un giorno piovoso e tutti avevano un ombrello, ma le signorine all’ingresso imponevano di lasciarlo lì per non sgocciolare nelle sale. Ma non di consegnarlo al guardaroba: proprio di buttarlo lì in un mucchio confuso di ombrelli su un lato dell’atrio. Una roba così l’ho vista solo allo stadio…

Anche la ristrutturazione dell’edificio non mi è molto piaciuta: della passerella già ho detto, e poi sappiate che l’unico bagno di tutto il museo (a parte un bagnetto preso d’assalto nell’ala di Palazzo Reale) sta alla fine di una lunga serie di corridoi labirintici nel sotterraneo. Funzionalità scarsa, ma architettonicamente molto elegante: alla fine più delle collezioni è interessante la vista dall’alto su piazza Duomo. Ma, si pagasse, non so se sarebbe valsa la pena.

[tags]milano, museo, pittura, novecento, boccioni, futurismo[/tags]

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mercoledì 22 Dicembre 2010, 11:58

I conti che non tornano

Oggi il Comune di Torino ha annunciato sui giornali un nuovo provvedimento: le bollette del gas di tutti i torinesi saranno aumentate di circa 7 euro l’anno per costituire un fondo di 200.000 euro da dedicare all’assistenza sociale. I soldi saranno incassati dal proprio gestore del servizio del gas, che se diverso li girerà ad AES (che gestisce la rete dei tubi del gas cittadina), che a sua volta li girerà al Comune, sotto forma di aumento del canone che AES paga ogni anno al Comune per l’uso del suolo pubblico.

Peccato che a Torino ci sia un numero di appartamenti che non conosco, ma che certamente sta nell’ordine dei quattrocentomila: secondo il rapporto “Immobili in Italia 2010” dell’Agenzia del Territorio, pagina 20, in Italia ci sono 32 milioni di appartamenti residenziali per 60 milioni di persone, uno ogni 1,88 abitanti; con la stessa proporzione, a Torino ci sono almeno 450.000 alloggi. Dato che praticamente tutti hanno il gas, una banale moltiplicazione rivela che l’incasso aggiuntivo di AES sarà di oltre tre milioni di euro l’anno.

Allora, delle due l’una: o l’articolo di giornale è impreciso e la cosa non è stata spiegata bene, o viene il dubbio che in realtà la storia funzioni al contrario; AES – società privata di proprietà al 51% della famigerata Iren e al 49% dell’Eni tramite Italgas – aumenta le bollette ai torinesi di tre milioni di euro, e per “vendere” la cosa ai cittadini ci fa (con i nostri soldi) una elemosina di duecentomila euro, che il Comune provvede prontamente a magnificare a mezzo stampa, per nascondere il fatto di aver come al solito calato le brache di fronte ai grandi interessi economici e magari a una fetta della torta sotto forma di tasse aggiuntive. Chissà, secondo voi come stanno le cose?

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