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venerdì 8 Ottobre 2010, 15:32

Viva la mafia

Tra ieri sera e stamattina, a Torino, si sono svolti due eventi molto interessanti: ieri sera Sonia Alfano, Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi hanno tenuto una conferenza su mafia e Stato, mentre stamattina è stato inaugurato presso l’ITIS Levi il nuovo Auditorium Beppe Alfano, intitolato al padre di Sonia.

Ieri sera, a sala strapiena, si sono ripetute quelle verità che per noi sono ormai scontate, ma che fuori dai nostri circoli lasciano ancora le persone con un senso di stupore e persino di incredulità. Tra le chicche, Sonia ha raccontato del suo incontro in carcere con Totò Riina, che parlando di Berlusconi le ha detto “iddu c’a futtiu” (“quello ci ha fregato”); vari mafiosi le hanno chiesto come mai loro stanno in carcere mentre “quelli di Roma” sono tutti liberi. Genchi ha ricordato che, all’epoca, i circoli di Forza Italia a Brancaccio e Misilmeri sono stati aperti prima ancora che aprisse la sede provinciale del nuovo partito, creati da tal Lalia che, come da tabulati, intratteneva conversazioni telefoniche con Spatuzza e altri mafiosi riconosciuti; e che costui cominciò a chiamare persone che poi sarebbero divenute esponenti siciliani di Forza Italia, le quali poco dopo chiamavano un numero privato della casa romana di Berlusconi. (Del resto Dell’Utri, l’uomo “senza cui Forza Italia non sarebbe esistita” come disse lo stesso Berlusconi, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa…)

Insomma, chi voglia aprire gli occhi può sapere ormai con certezza che le stragi di Capaci e di via D’Amelio non furono stragi di mafia, ma stragi di Stato eseguite dalla mafia, nell’ambito del passaggio di mano del potere tra la prima e la seconda Repubblica. Abbiamo un Presidente del Senato che è stato socio o consulente di mafiosi acclarati e un Ministro della Giustizia che è stato fotografato al matrimonio della figlia di un boss: ma che volete ancora?

Tuttavia, per me è stato meglio l’incontro di stamattina; un incontro in cui Sonia Alfano ha parlato a lungo della storia del padre, commuovendosi a più riprese. E’ bene dire qualche cosa su questa storia poco conosciuta, perché per noi, da qui, le vittime di mafia appaiono sempre lontane; e la tragedia non è, come noi crediamo, la morte in sé, ma tutto ciò che viene prima e che viene dopo.

Beppe Alfano era un insegnante con l’hobby del giornalismo; oggi sarebbe un blogger. Cominciò a fare inchieste sugli scandali del paese in cui viveva, Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina; svelò giri di soldi che non doveva toccare. Gli offrirono 39 milioni di lire per tacere, e lui li rifiutò; allora gli dissero che sarebbe morto entro il 20 gennaio. Per un paio di mesi visse sapendo di dover morire, e ogni giorno i suoi familiari si chiedevano se sarebbe stato quello buono; alla fine fu ucciso con tre colpi di pistola l’8 gennaio 1993.

Il giorno dopo, le compagne di studi di Sonia, che frequentava l’università a Palermo, la chiamarono per dire che i loro genitori avevano loro vietato di vederla ancora. L’intero paese fece capire alla famiglia Alfano che non era più gradita, e una settimana dopo si trasferirono di corsa a Palermo, dove non conoscevano quasi nessuno. Nè lo Stato nè altri assistettero la famiglia economicamente o psicologicamente.

Il processo fu anche peggio; il loro avvocato, il famoso Galasso, smise di presentarsi in aula, e Sonia, irritualmente, si dovette fare l’arringa da sola. A un certo punto un avvocato della difesa la chiamò a testimoniare e le chiese se suo padre avesse mai abusato di lei, visto che in paese “si diceva” che fosse pedofilo (o adultero, o puttaniere: tutte voci messe in giro dalle cosche). In un altro momento della lunghissima vicenda giudiziaria (in parte ancora in corso) i giudici dissero che mancavano le prove del collegamento tra gli esecutori e i mandanti; i carabinieri del paese dissero che “non riuscivano a trovare niente”, nonostante queste persone fossero sempre in giro per le vie. Alla fine Sonia fu costretta a introdursi di sera nel cimitero, l’unico punto da cui si poteva vedere l’interno del capannone dove si riunivano i mafiosi, e a trovare lei le prove osservandoli.

La piazza dove abitava la famiglia Alfano è stata in teoria intitolata a Beppe Alfano; in teoria, perché il Comune non ha mai provveduto ad apporre le relative targhe. Qualche giorno fa, qualcuno ha scritto con la vernice sul selciato: “VIVA LA MAFIA”. I parenti di Sonia sono andati a cancellare la scritta, e sono stati insultati dagli abitanti del palazzo di fronte. Ogni anno, la famiglia cerca di organizzare una commemorazione in paese, e ogni anno i presidi si rifiutano di farvi partecipare i ragazzi delle scuole, con giustificazioni come “sono già andati al cinema la settimana scorsa, non possono fare troppe assenze”. L’ultima volta, nell’auditorium da 500 posti, c’erano 12 persone. Intervistati di nascosto, alcuni ragazzi del paese hanno risposto che non sapevano bene chi fosse Beppe Alfano: in paese si dice che “forse era un giornalista, o forse un puttaniere”.

Io so che leggendo queste cose siete inorriditi – e di storie così ce n’è ancora, e ancora, e ancora: la storia di Rita Atria, quella di Graziella Campagna, quella, particolarmente terribile, di Giuseppe Francese. Storie in cui una persona sta da sola con l’onestà, e il potere sta dall’altra parte; e di fronte hanno uno Stato che non sa mai scegliere da quale parte stare.

Solo, di una cosa vi devo pregare: non pensate, come pensano quasi tutti al Nord, che queste siano storie di terre lontane; non osservate queste persone come si fa coi leoni nelle gabbie, un brivido e via. La criminalità organizzata è tutto attorno a noi; c’è la ndrangheta a Rivoli, c’è la ndrangheta a Moncalieri, e attenzione, non sono per strada a spararsi, ma sono nelle istituzioni, esprimono politici e assessori nel centrodestra e nel centrosinistra, sono immischiati in tutti gli appalti, nella Tav, nei nuovi quartieri. Il fatto che da noi non si spari è ancora più preoccupante: vuol dire che le cosche hanno trovato un loro spazio consolidato nell’amministrazione della zona in cui viviamo. Comunque anche qui, contrariamente a quel che pensano in molti, Bruno Caccia non fu ucciso dalle BR ma dalla ndrangheta; e prontamente dimenticato.

Sarebbe bello se anche da noi, come in Sicilia, ci fossero così tante persone che lottano contro le cosche – ma quelle nostrane, non quelle lontane; avendo la consapevolezza di trovarsi contro anche ampie fette dello Stato. Nel frattempo, informare è cosa importante; perché pochi, troppo pochi, sanno cosa succede veramente.

[tags]mafia, ndrangheta, criminalità, borsellino, sonia alfano, beppe alfano[/tags]

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giovedì 7 Ottobre 2010, 18:52

Il teatro degli orrori

No, non voglio parlare del massimo gruppo noise rock italiano, che anche a Woodstock 5 Stelle ha dominato la scena. Voglio parlare, per una volta, di cronaca nera: del caso della ragazzina pugliese uccisa e stuprata.

Che poi, a ben vedere, non c’è molto da dire e anzi, a questo punto, meno se ne dice e meglio è, anche se lo stanno già dicendo tutti; Grillo ne fa (giustamente) una questione di sessismo nazionale, Jacopo Fo ci tira dentro Berlusconi. Io vorrei solo dire che questa vicenda racchiude in sé tanti e tali orrori che è bene fermarsi un attimo a riflettere.

C’è l’orrore del delitto in sè, a partire da uno zio malato (si dice sempre così per evitare di assumersi responsabilità sociali: è lui che è malato, non siamo noi che permettiamo una società piena di continui ed espliciti richiami sessuali tesi a creare frustrazione per spingere al consumo). Uno zio malato che desidera la nipote, la uccide e la stupra dopo averla uccisa e poi la butta in un pozzo, e poi, non si sa se per paura o per delirio di onnipotenza, fa pure finta di ritrovare il suo telefonino in un campo. Uno zio normalmente folle che intervistato dai telegiornali spara una bugia e guarda in camera e sorride e ne spara un’altra e risorride e poi dopo un po’ scoppia in un pianto improvviso e totalmente finto, una recitazione talmente da mago Gabriel che io l’avrei arrestato a fine intervista.

Ma c’è anche l’orrore dell’annuncio in diretta, della madre e della famiglia ospiti di Chi l’ha visto che ricevono la notizia della morte della figlia così, davanti a una telecamera, e anzi non la ricevono, perché in questo Paese l’importante è la forma e non la sostanza, e allora la conduttrice dice in diretta “che ci sono notizie ma non possiamo confermarle e speriamo che siano sbagliate”, che è come dire alla signora che sua figlia è morta senza prendersene la responsabilità, e non è che interrompe il collegamento ma al contrario ritorna lì a girare la telecamera nella piaga, a declamare le agenzie di stampa e chiedere “signora lei ha capito cosa sta succedendo?”, e poi glielo chiede a lei “ah ma se vuole interrompere interrompa lei quando vuole”, come se in quella situazione uno fosse padrone di sè e pensasse alla telecamera; e non paga la Rai te lo mette anche su Youtube, trentasei minuti di agonia figurata ad eterno uso e consumo di chi voglia guardare, e ci scrive anche sotto “GUARDA LA PUNTATA INTEGRALE SU…”, che un po’ di pubblicità non fa mai male.

L’orrore animale di casi come questo non è nuovo e non è nemmeno tanto evitabile, viene dalle viscere della storia e dell’animo umano. Ma sono le telecamere a fare dell’orrore un teatro, a dimostrare che la falsità ormai ci è entrata nel cuore, che il veleno dell’apparire ha sostituito il sangue; e che il vetro dello schermo, eliminando l’empatia, elimina anche molto della nostra umanità.

[tags]delitto, omicidio, sarah scazzi, televisione, chi l’ha visto, mediaset, grillo, jacopo fo, teatro[/tags]

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mercoledì 6 Ottobre 2010, 15:05

Il costo dei bit

Ieri pomeriggio vari giornali hanno pubblicato con evidenza la notizia di una riduzione dei costi bancari: prelievi dal bancomat e pagamenti Rid costeranno meno, e la cosa, in tempi di crisi, non può che fare piacere.

Certo, leggendo l’inizio dell’articolo viene subito qualche dubbio: “In arrivo tagli fino al 36% per le commissioni interbancarie”. Non siete buoni consumatori se non sapete che quando vi dicono “fino al” stanno cercando di allettarvi con vantaggi invariabilmente molto più consistenti rispetto a quelli che si applicheranno al vostro caso; certo, in teoria un giornale dovrebbe fare informazione e non marketing… in teoria.

E infatti, leggendo bene si scopre che il taglio del 36% riguarda solo la commissione tra banche per i Rid, ovvero l’addebito in bolletta nel caso in cui la vostra banca sia diversa da quella del vostro creditore. La commissione in questione scende a 16 centesimi di euro, una concessione già un po’ dubbia se si considera il fatto che l’Europa ne impone l’azzeramento a partire dal 2012; ma anche allora, specifica l’articolo, verrà comunque addebitato il prezzo del “servizio di allineamento elettronico archivi” pari a 7 centesimi. Beh, direte voi, se è un servizio a pagamento potrò disdirlo, no? Non lo so, ma sono pronto a scommettere che non troverete una banca disposta a farvi il Rid, gratuito per legge, senza che voi compriate l’allineamento elettronico degli archivi. Mica vorrete che i loro archivi restino disallineati, no? D’altra parte mi sfugge come si possa completare una transazione tra due parti senza aggiornare allo stesso modo i loro archivi: è un po’ come dire che il biglietto del pullman è gratis ma il servizio di apertura porte per farti scendere è a pagamento.

Peggio ancora se esploriamo le altre “riduzioni”: la commissione per il Pagobancomat scende di “oltre il 4%” (addirittura!), da 13 a 12 centesimi; quella per i prelievi Bancomat scende da 58 a 56 centesimi. Troppa grazia, vero? E poi, queste sono commissioni interbancarie (pagate da banca a banca) e voglio vedere quante banche trasferiranno gli sconti ai prezzi praticati ai clienti.

Vale la pena di fermarsi un attimo a pensare: per che cosa stiamo pagando queste cifre? Per quanto ci sia dietro un pochino di investimento (nel caso del Bancomat c’è da pagare il costo iniziale della macchinetta, oltre ai dieci minuti di lavoro di un dipendente della filiale per riempirlo regolarmente di denaro), si tratta di servizi sostanzialmente virtuali. Un addebito Rid è, sostanzialmente, un aggiornamento di due cifre in due database, togliendo tot soldi da un conto e aggiungendoli sull’altro – una operazione che un computer fa in una frazione di secondo. Il costo di queste operazioni non è proprio zero, ma non è molto di più.

Tutto questo mi ricorda uno dei grandi business del terzo millennio: gli SMS. Forse non tutti sanno che gli SMS sono messaggi di pochi byte che non usano nemmeno i canali di trasmissione della voce, ma vengono inviati sulla rete di segnalazione, ovvero su quei canali di comunicazione che l’operatore cellulare usa per gestire le varie celle della rete, tracciare gli utenti e aprire le chiamate (questo spiega perché spesso gli SMS funzionino anche quando non si riesce a chiamare). In altre parole, i messaggi viaggiano su una infrastruttura che già esiste, sfruttando il fatto che essa rimarrebbe vuota per gran parte del tempo. Il costo di un SMS per l’operatore può tranquillamente essere equiparato a zero; è vero che è necessario qualche server e un po’ di elaborazione, ma il relativo costo, spalmato sui miliardi di SMS che circolano, è trascurabile – tanto è vero che, nei primissimi anni della telefonia mobile, gli SMS erano gratis.

Il prezzo pagato per trasmettere un SMS è dunque da considerarsi stratosferico, e fissato da una sola cosa: dalla possibilità del cartello degli operatori di chiedere più o meno il prezzo che vogliono. Non si spiegherebbe se no come mai, per esempio, mandare un SMS dalla Lituania all’Italia costi 11 centesimi: per molti utenti, meno di quanto costa mandarlo dall’Italia. In realtà, costa 11 centesimi solo perché esiste una disposizione europea che fissa tale cifra come prezzo massimo per gli SMS in roaming intra-europeo – altrimenti, come una volta, ne costerebbe tranquillamente 20 o 50.

In una economia di prodotti immateriali, talvolta (non sempre, ovvio) producibili a costo sostanzialmente nullo, il ruolo dei governi e degli enti regolatori diventa fondamentale: sono gli unici che possono assicurarsi che la cornucopia magica della riproduzione digitale vada a vantaggio della società e non solo a vantaggio di poche grandi aziende. La realtà, purtroppo, è ben diversa. Per esempio, a livello nazionale, la competenza sul prezzo degli SMS è dell’AGCOM: possiamo augurarci buona fortuna.

[tags]economia, immateriale, banche, bancomat, prezzi, sms, cellulari, oligopolio, regolazione[/tags]

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lunedì 4 Ottobre 2010, 16:34

Un giro per la città di Londra

Se al medio turista italiano, portato in avanscoperta a Londra da Ryanair, chiedessero qual è il centro della città, qual è il punto in cui tutto converge e che tutto simboleggia, sono sicuro che direbbe Piccadilly Circus o al massimo Trafalgar Square. La risposta è però sbagliata: il centro di Londra, sin dall’epoca romana, si trova da tutt’altra parte; per la precisione, si trova in questo palazzo per uffici anni ’60, dai marmi verdi, che vedete sulla sinistra nella foto qui sotto.

londonstone-1.jpg

Non vi pare? Bene, andiamo più vicino:

londonstone-2.jpg

Quella che vedete, incastonata in una anonima nicchia in un muro qualsiasi, è la pietra di Londra: la London Stone che la leggenda vuole piantata da Bruto di Troia, mitico fondatore della città; la pietra da cui partivano tutte le strade romane attraverso la Britannia, e da cui si misuravano le distanze. Fino al diciottesimo secolo stava nel mezzo della strada, ma poi disturbava il traffico e la inglobarono nell’adiacente chiesa di San Swithun, che poi fu distrutta dalla guerra e sostituita dal triste palazzo che vedete. Ora la pietra sta lì, nel piscio di un falso tombino, dimenticata dal mondo, al centoundici di Cannon Street.

Londra è una delle città il cui centro è migrato repentinamente negli ultimi secoli; quella che era la periferia ovest (West End) è diventato il centro, quello che era il centro è diventato un grigio quartiere di uffici, e quella che era la periferia est (East End) è diventata una roba che in compenso Quarto Oggiaro è un giardino d’infanzia. Il grigio quartiere di uffici, però, ha una particolarità: rispetta in maniera inquietante le proprie origini romano-medievali. Nemmeno il grande incendio del 1666, l’anno del diavolo, poté ridisegnare la Città di Londra: i re e gli architetti immaginarono grandiosi boulevard su cui ricostruire una città razionale sopra le ceneri di quella antica, ma prima che potessero batter ciglio tutti i proprietari di ogni fazzoletto di terreno edificabile avevano già ricostruito le loro case sulla pianta preesistente, visto che la speculazione immobiliare non aspettava nessuno nemmeno nel diciassettesimo secolo.

Questo è solo l’inizio del nostro percorso; da Cannon Street – uno dei due cardini romani sulla direzione est-ovest – si scende a quello che oggi è l’approccio di un anonimo ponte di cemento che usurpa il nome di London Bridge. Per secoli, leggermente più a valle del ponte attuale, stava il ponte di Londra l’unico vero e inimitabile, prima fatto di barche, poi infine di pietra; coperto di casupole e negozi come il Ponte Vecchio a Firenze, ma anche di comode latrine per cagare direttamente nel Tamigi. Se rinunciate al ponte moderno, potete scendere un attimo verso il Monumento, una colonna di dimensione abnorme sita vicino al forno da cui partì l’incendio che rase al suolo la città quasi completamente; e da lì verso il fiume, ripercorrendo quella che un tempo era la strada che portava al ponte.

Oggi finite invece in Lower Thames Street, una anonima strada trafficata; da lì potete però deviare sulla sponda del fiume e arrivare al mercato del pesce di Billingsgate. Qui, per secoli, hanno attraccato le barche dei pescatori che arrivavano dal mare, e da qui le pesciaie col cestino sulla testa si spargevano a vendere la merce. L’edificio attuale è ottocentesco e adornato con fantastici pesci di ferro battuto e pesci dorati sul tetto.

La passeggiata pedonale sul fiume è fredda e nuvolosa, piena di barche sullo sfondo arzigogolato del Tower Bridge e dell’immenso cantiere dello Shard, l’ennesimo grattacielo firmato Renzo Piano che si staglia contro il cielo bianco e grigio. Questo è davvero uno di quei posti salvati dall’acqua e che l’acqua potrebbe riprendersi in ogni momento; uno di quei posti pieni di fantasmi innamorati che un londinese (acquisito) del secolo scorso avrebbe descritto come “when she’s walking by the river and the railway line / she can still hear him whisper / let’s go down to the waterline”.

Proseguendo lungo il fiume arrivate alla Torre di Londra, il castello dei re; la folla di turisti sul Futile Galles (sì, c’è una via che si chiama così, del resto c’è anche una Futile Francia dopo il parco di Saint James) vi potrebbe impedire di notare la torretta circolare che dà accesso al condotto sotterraneo della London Hydraulic Power Company, 1868 – all’epoca un ritrovato della tecnica, oggi è chiusa e i piccioni beccano le briciole dei panini dei turisti che ci mangiano attorno.

Da qui comincia il Muro di Londra; il tracciato delle mura romane, rimaste in piedi fino a tre secoli fa, e ora visibili nel percorso arcuato delle vie. Gli edifici sono ex grandiosi e comunque relativamente moderni, ma le vie si chiamano Attraverso il Muro (ma va’) e Frati con le Grucce, a ricordare che un tempo a Londra c’erano più chiese che fognature.

Arrivate così alla porta di Aldgate, che non esiste più – ma esiste la strada, guardata giusto dalla chiesa di San Botulfo fuori Aldgate. Di lì si risale ancora per Bevis Marks, e per la sua parallela – Houndsditch, la Fossa dei Segugi, così chiamata perché un tempo era il fossato a protezione esterna delle mura, e però era già mezzo secco e ci buttavano dentro la monnezza e i cadaveri dei cani. Oggi la zona è dominata dal suppostone del grattacielo della Swiss RE, un razzo di vetro in attesa di decollo amichevolmente detto “il cetriolo”; da anni tutti sperano che infine decolli per levarselo dalle scatole.

Qui si supera Bishopsgate, la Porta del Vescovo – pochi metri più in là sta la stazione di Liverpool Street. Tutto questo quartiere è pieno di edifici moderni, al massimo di inizio Novecento, e però si vedono vicoli e vicoletti dalle dimensioni decisamente medievali, magari trasformati in passi carrai o in passaggi sul retro di nuovi bisonti di cemento. La via, poco più in là, si chiama direttamente London Wall; costruita negli anni ’50 sul tracciato delle antiche mura, dopo che esso era stato “liberato” dai bombardamenti.

Girando verso il centro, si punta su Via Filo & Ago (Threadneedle Street) – vediamo se indovinate quale corporazione aveva qui sede in epoca medievale. Tagliando sulla destra, si passa in uno dei pochi angoli della City ancora vagamente ottocenteschi, Throgmorton Street – una via storta e buia dove a un certo punto resiste l’insegna ben più che centenaria di uno dei ristoranti della catena Lyons, i più antichi McDonald’s della storia. Si spunta infine sul retro della sede dell’Impero del Male: la Banca d’Inghilterra, la prima banca centrale della storia. Gli ornati di marmo sanno di tronfia dominazione, di tre secoli di gente strozzata dal credito al guinzaglio.

Si arriva così infine alla Guildhall, il municipio o meglio la Sala delle Corporazioni; Londra è una città di mercanti e sin da poco dopo l’anno Mille è governata non dalle istituzioni inglesi, ma dalla Corporazione della Città di Londra, una struttura felicemente massonica in cui erano rappresentate le varie gilde e che aveva rivendicato con successo una discreta indipendenza dalla Corona, dato che il vero padrone di un Paese non è chi lo governa ma chi presta i soldi a chi lo governa.

Anche la Sala delle Corporazioni fu ricostruita varie volte, anche di recente, ma conserva un finto aspetto medievale, giusto per farti credere che almeno qualcosa si sia salvato dall’incessante ciclo di abbatti-e-ricostruisci-per-vendere-a-prezzo-più-alto che caratterizza da sempre la storia di Londra. Infatti, le rovine del passato non si conservano nelle ere di successo, ma nelle ere di decadenza; e Londra, superato l’incendio, fu per tre secoli la capitale del mondo, senza la voglia di conservar niente perché niente valeva i soldi della futura crescita economica.

Da qui, verso il Tamigi si trovano Via del Latte – altro pezzo di mercato – e Via dello Scolo, nota per il canaletto non proprio profumato che portava giù verso il fiume una parte dei liquami del centro. Verso l’interno invece si trova Love Lane, il Vicolo dell’Amore, che ora è una larga, anonima, corta via che potrebbe indurvi in errore, facendovi pensare di esser stata costruita insieme ai palazzi che la circondano, nel Novecento, e intitolata alla pace degli hippy. Nulla di più sbagliato; semplicemente, nel Medioevo questo era il vicolo dei troioni, comodamente sito dietro il municipio.

Poco più in là c’è Noble Street, che come dice il nome è tutt’altra roba, per quanto fosse anch’essa a comoda e breve distanza da Love Lane; è qui che si può vedere uno dei pochissimi pezzetti di muro romano ancora sopravvissuti. Le mura qui facevano una curva ad angolo retto, inglobando un forte romano di forma quadrata; la zona martoriata dai bombardamenti porta ancora qualche segno dell’antichità, come il giardinetto con annesso pret-a-manger che sostituisce l’antica chiesa di Sant’Olaf. Dietro si trova quel mostro anni ’60 che è il Museo di Londra, e poco più in là c’era l’antica porta di Aldersgate.

Da qui potete infilarvi nella via che si chiama Little Britain, il cui percorso tortuoso rappresenta un altro pezzetto di Londra non dico medievale ma ottocentesca senz’altro, e poi attraversa l’Ospedale di San Bartolomeo, che nel tempo ha invaso tutto il quartiere, e sfocia davanti al mercato vittoriano di Smithfield.

Questo era, da sempre, il mercato generale di Londra; prima del mercato vittoriano c’era una piazza e prima ancora un prato, subito fuori le mura, dove sin dalla notte dei tempi si vendeva il bestiame, tranne nelle due settimane della Fiera di San Bartolomeo, un baccanale post-pagano in cui tutto poteva succedere, dalle impiccagioni all’ubriachezza molesta fino all’esibizione di donne barbute e nani da circo. A metà Ottocento decisero di spostare il bestiame molto più fuori dalla città e di costruire questo mercato di ferro battuto, una meraviglia anche perché sotto ci misero la prima metropolitana del mondo, attualmente la Circle/District/Metropolitan Line, che dopo essere passata sotto Farringdon Street (seguendo il fiume Fleet intubato) svolta tra le case e sotto il mercato si dirige verso l’est.

Siamo ormai fuori dalle mura, e attraversata la valle del Fleet si risale verso Holborn, un tempo borgo fuori dalla cinta muraria. Su un lato sbocca l’anonima Fetter Lane, che era in origine una delle prime strade periferiche dall’altro lato del Fleet, piena di casette seicentesche e poi di casermoni popolari abitati dalla feccia. Il grande incendio del 1666 finì, miracolosamente, proprio all’angolo di Fetter Lane; è dunque qui, all’angolo con Gray’s Inn Road, che sopravvive quello che è praticamente l’unico edificio antico di Londra, una casa di legno di epoca Tudor piuttosto malmessa.

Per trovarla abbiamo dovuto girare tutta la città, camminare per tre ore e allontanarci un po’ dalle antiche mura, perché ancora oggi la City non ha tempo per altro che per mangiarsi viva giorno dopo giorno, lei e i suoi abitanti, nel ciclo incessante dell’iniziativa economica privata, portata avanti dallo stress di milioni di vite impiegatizie private di ogni vero significato. Eppure, Londra è ostinatamente legata ai fantasmi del passato; il suo fascino deriva proprio dal fatto che – a differenza delle città italiane – della sua storia bimillenaria non resta sostanzialmente nulla, e nonostante questo, a parte qualche cambiamento nella foggia dei vestiti e negli strumenti, funziona da sempre allo stesso modo.

[tags]londra, city, storia, romani, medioevo[/tags]

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domenica 3 Ottobre 2010, 16:36

I cantieri del quartiere Parella (3)

Vorrei riprendere l’incresciosa vicenda dei cantieri nel quartiere Parella solo per segnalare che, pochi giorni dopo il mio post precedente, l’incrocio sotto casa mia si presentava così:

parella-3.jpg

Come era facile prevedere, c’è subito stato un bell’incidente i cui detriti, peraltro, sono ancora lì dopo un paio di settimane.

Ma ovviamente gli incidenti sono sempre colpa degli automobilisti, mica del Comune…

[tags]torino, parella, cantieri, lavori, appalti, incidenti, traffico[/tags]

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sabato 2 Ottobre 2010, 13:33

Il diritto di sparare stronzate

Giovedì sera, a Londra, salendo sull’aereo per ritornare a casa, sono ritornato a contatto delle vicende italiane: mi han dato in mano il Corriere. Apro, sfoglio, a un certo punto trovo un titolone su “il professore che vorrebbe uccidere i disabili alla nascita”. Guardo a fianco, e mi trovo una grossa foto a colori di Joanne Maria Pini con dietro una bandiera della Lega

Ho conosciuto Joanne circa un anno fa, all’IGF Italia di Pisa; all’epoca era nel direttivo del Partito Pirata italiano e abbiamo chiacchierato a lungo dei nostri temi, dai diritti digitali alla decrescita felice, trovandoci d’accordo su tutto (no, non abbiamo parlato di disabili). Ci siamo rivisti altre due o tre volte negli scorsi mesi, e fu lui ad avvertirmi quando prima delle scorse regionali Renzo Rabellino (sì, proprio il signor Lista Grilli Parlanti No Euro) contattò il Partito Pirata per aggiungere anche quel simbolino alla sua collezione di liste (ma pensate un po’…). So che è uscito dal Partito Pirata in mezzo a un flammone gigantesco; non sapevo che adesso bazzicasse la Lega, né riesco a capire bene come una persona pro diritti digitali e decrescita possa finire a farsi le foto con i padani, anche se devo ammettere che ieri sera in TV ho visto Gomorra e pure a me è venuta la voglia di correre immediatamente ad abbracciare Calderoli.

Che sia un intellettuale eccentrico è dir poco; che, come molti intellettuali, abbia il gusto per la provocazione è altrettanto vero; ciò nonostante non mi sembra in grado di far male a una mosca. Ho scoperto che la discussione è avvenuta sulla bacheca Facebook di amici e ha coinvolto vari altri amici (il più furioso con Joanne è il mio collega Roberto Dadda), il che mi ha permesso di leggerla tutta. La frase come descritta dai giornali è ovviamente una disgustosa stronzata, ma se leggete l’intera chiacchierata non trovate proprio quello; trovate le affermazioni “prima della didattica viene la genetica” e “Tornare indietro di 40 anni? Alla Rupe Tarpea bisognerebbe tornare!”, nell’ambito di una discussione piuttosto accesa.

Per quel po’ che lo conosco, non mi stupisce che Joanne possa aver tirato fuori un’iperbole del genere, insieme alla preoccupazione sul degrado genetico dovuto alla fine della selezione naturale della razza umana, con i rischi evolutivi che ciò comporta; una cosa scientificamente fondata che pensano in molti, ma che non dicono proprio per non essere subito etichettati come razzisti. Si tratta comunque di una opinione personale che si può non condividere ma che rimane legittima fin che non si trasforma in apologia di reato (diverso sarebbe se Joanne avesse aperto un gruppo “organizziamoci per uccidere i disabili alla nascita”). E’ una opinione che vale come quella di qualsiasi altro privato cittadino, dato che Joanne non ricopre alcuna carica di responsabilità pubblica, che non insegna educazione civica ma armonia al Conservatorio e che non risulta che abbia mai discriminato alcun allievo disabile. Il discorso, peraltro, verteva sulla domanda se sia meglio dare ai disabili una istruzione separata o integrarli nelle classi e francamente, pur non avendo le competenze pedagogiche per esprimermi, non credo che sia una domanda dalla risposta così chiara, né che prevedere corsi speciali per chi ha diversi ritmi di apprendimento sia per forza una discriminazione, se no sarebbero razzismo anche le scuole speciali per ciechi o i corsi di recupero per chi è stato rimandato a settembre.

Io credo che ognuno di noi sia libero di cazzeggiare e anche di provocare; abbia, insomma, il diritto di sparare stronzate, specie in un ambiente molto informale come Facebook. Mi disgustano dunque piuttosto le reazioni trombone e paracule di quelli che stanno gerarchicamente sopra a Pini, fino alla Gelmini, a cui di sicuro dei disabili non frega alcunché, visto come ha massacrato i fondi per le attività di sostegno in tutta Italia. Nessuno di questi signori si è peraltro indignato per le sparate ben più gravi di molti ministri della Repubblica, che, avendo una posizione pubblica, hanno anche responsabilità pubbliche su ciò che dicono – ma che, a differenza di Pini, hanno la possibilità di segargli la carriera.

Comunque, anche in questo post ci sono sicuramente delle frasi su cui, dopo averle estratte dal contesto, un giornalista in cerca di audience può costruire un caso. Quella su Calderoli, per esempio, è ottima per fare un bel titolo tipo “I grillini torinesi confessano: in realtà sono leghisti”, magari aggiungendoci che “Vittorio Bertola ha persino un sito in piemontese” (vero), “scoprendo” che tra i miei contatti Facebook c’è un ex consigliere comunale della Lega (vero: è il padre della persona che ha girato molti video del Movimento piemontese), e aggiungendo una mia bella foto davanti alla statua di Alberto da Giussano a Legnano (qualche mese fa son stato lì sotto per un po’ ad attendere Elena: e se per ridere ci fossimo fatti una foto sotto la statua e l’avessimo messa in rete?).

La mia frase in questione è evidentemente una iperbole per strapparvi un sorriso; avessi voluto essere serio avrei scritto “ieri sera in TV ho visto Gomorra e mi sono venuti molti dubbi sulla possibilità di integrare me e quella gente nello stesso Stato”, ma non sarebbe stato divertente. Credo che tutti voi siate abbastanza intelligenti da capire che il contesto e il tono con cui si dicono le cose è rilevante, abbastanza scafati da non fidarvi più di quel che scrive un giornale, e (anche se questo ormai in Italia è sempre più difficile) abbastanza tolleranti da rispettare l’opinione dell’altro anche quando vi disgusta. So che molti italiani non sono così, ma non mi importa: se vogliamo migliorare questo Paese, dobbiamo cominciare a trattarci da persone intelligenti.

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venerdì 1 Ottobre 2010, 15:31

Simpaticamente Milano

Milano è una città che sa come farsi odiare.

Lo pensavo proprio ieri, a mezzanotte e mezza, nella Stazione Centrale completamente deserta, con un unico treno ancora da partire – la S11 delle 0:38 per Chiasso (nel dubbio i monitor la riportavano una decina di volte, per far sembrare che il traffico fosse molto di più). Ero appena sceso dal bus da Malpensa ed ero passato per la stazione per fare il biglietto del treno per Torino di oggi, dato che prendendolo dal passante non ci sono biglietterie né macchinette automatiche e dunque bisogna assolutamente farlo prima.

Nel corridoio sotterraneo davanti alle macchinette, oltre a me, c’erano due tizi: una era chiaramente una barbona o drogata, sui trent’anni (ne dimostrava cinquanta), e l’altro aveva l’aria straniera ed era pieno di valigie. Mi fermo davanti a una macchinetta; il tizio straniero, vedendomi in giacca e cravatta, viene da me con aria disperata e mi chiede “do you speak English?”. Alla fine mi racconta che è americano, è arrivato da Malpensa pure lui e che sta cercando di capire come andare al suo albergo, lì in zona, ma trova soltanto barboni e gente poco raccomandabile (una esperienza aliena per lui, dato che negli Stati Uniti se vedono un barbone per strada, che non stia accucciato nel suo angolino e che approcci la gente, spesso lo prendono e lo sbattono in galera).

Mi fa vedere l’indirizzo, io tiro fuori il cellulare col navigatore e controllo: è a una decina di minuti a piedi. Lui mi ringrazia, mi dice “I’ve been here for one hour and a half and you’re the first Italian that I like”, e mi chiede se secondo me è sicuro andarci a piedi, che non si fida. Io spiego che non sono di Milano ma di Torino, dunque non saprei: di giorno il quartiere è tranquillo ma comunque non è dei migliori, essendo vicino alla stazione, e non so come sia di notte. Lui mi dice “I should have come to Turin rather than to Milan, people here are horrible”, e conclude che nel dubbio prenderà un taxi.

A quel punto ci salutiamo, gli auguro buon giro, ed esco dall’ingresso principale per dirigermi verso la fermata del 5, per andare a casa. Sono stanco morto e ho solo voglia di andare a dormire, e che succede? Me lo vedo arrivare lì, dal lato della piazza, che scorre sui binari e si ferma al primo semaforo. Comincio a correre per il piazzale, penso che non ho voglia di aspettare altri venti minuti, che già mi sono dovuto puppare (oltre a tutto il viaggio da Londra) un’ora su un bus Autostradale ammuffito e strapieno, che doveva partire alle 23:15 e invece è partito alle 23:29 perché quello della concorrenza partiva alle 23:30 e facendo così gli ha portato via un bel po’ di passeggeri (ah, il mercato regolamentato all’italiana); e che domani devo comunque alzarmi alle 7 per andare presto da un cliente che poi a metà mattinata deve andare via.

Il tram riparte, si avvicina alla fermata, io accelero, corro ancora più veloce… finché d’improvviso mi ritrovo per terra di faccia, con la mia borsa di libri che volano per aria e lo zaino pesantissimo (con dentro portatile, macchina fotografica, lettore MP3…) che dalle spalle mi capitombola addosso alla testa.

E’ successo che qualche genio del male, nel ristrutturare per l’ennesima volta piazza Duca d’Aosta per farla sembrare più figa in cartolina (cioé senza gli spacciatori e le gang di etnia varia), ha messo nella parte centrale delle leggerissime rampe in discesa che improvvisamente e senza alcuna segnalazione visibile si separano dal piano della piazza creando un gradino sempre più alto. In pratica, o uno corre guardando per terra o il gradino è totalmente invisibile; io ci ho messo il piede per storto e la caviglia si è girata in qualche modo.

Ero lì per terra con un male cane, e ovviamente l’unico che è venuto ad aiutarmi è stato un ragazzo di colore (c’erano due tizie italiane poco pi in là che hanno cambiato rotta per far finta di niente). Io ho ringraziato, mi sono alzato, ho verificato che la caviglia comunque funzionava ancora, ho ringraziato la solidità del vestito grigio cinese e ho zoppicato fino alla fermata, vedendo il tram andarsene in lontananza. Ho deciso che qualunque cosa fosse successa alla mia caviglia io avevo sonno, ero stanco e volevo solo andare a casa; e allora ho aspettato il successivo 5, mi ci sono issato sopra a braccia e mi sono subito tutti gli scossoni delle meravigliose “vetture storiche del 1927”, una roba che se girasse per le strade di Abidjan gli ivoriani protesterebbero subito che sono vecchie, ma che ATM furbescamente ti vende come “recupero del patrimonio storico di Milano”.

Sono sceso in via Aselli e ho zoppicato fino all’adiacente fermata della 93, sperando di trovarne ancora una; infatti da lì a casa c’è una piacevole passeggiata di dieci minuti, che però con una gamba sola è meno piacevole, per non parlare del fatto che poi avrei dovuto anche inerpicarmi su per tre piani di scale. E invece no, ormai era l’una e l’ultima 93 passava a mezzanotte e quarantotto, e allora mi sono dovuto rassegnare e cominciare a zoppicare verso casa bestemmiando in undici lingue.

E’ stato in quel momento che ha cominciato a piovere.

[tags]milano, turisti, stranieri, stazione centrale, tram, atm, infortuni[/tags]

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giovedì 30 Settembre 2010, 09:52

Cosa vuol dire “ognuno vale uno”?

Un paio di giorni fa ho inviato a coloro che si sono registrati sulla mia piattaforma di partecipazione (che al momento, in attesa di quella promessa da Grillo, non è più stata sviluppata) una serie di domande relative al “tema caldo” nel Movimento torinese in questi giorni: la definizione di candidati e programmi per le prossime elezioni comunali.

Ho ricevuto una dozzina di risposte, tutte ben argomentate e interessanti, e allora mi sembra utile aprire il dibattito anche qui e riceverne altre. L’argomento sarà discusso in una riunione lunedì prossimo; nel frattempo, aspetto di sapere cosa ne pensate.

Ecco il testo del messaggio con le domande; aspetto risposte nei commenti.

Vorrei ora consultarti su una questione che verrà discussa nelle prossime settimane: il metodo di definizione di candidati e programmi per le elezioni comunali torinesi del prossimo anno.

E’ in corso infatti una discussione tra diversi punti di vista: c’è chi sostiene che la sovranità sul Movimento è dei cittadini e dunque che almeno le candidature e i punti chiave del programma vanno decisi in votazioni primarie aperte a tutti, svolte nelle piazze e tramite la rete, e chi sostiene che è meglio, per evitare infiltrazioni e per garantire una decisione più esperta, affidare tali scelte soltanto agli “attivi” del Movimento, ovvero a chi partecipa regolarmente alle riunioni fisiche. Sono poi naturalmente possibili anche le vie di mezzo, come ad esempio che soltanto chi è stato attivo nel Movimento per un certo periodo possa candidarsi, ma che siano comunque i cittadini a scegliere tra i vari possibili candidati.

Io vorrei capire dunque la tua opinione: come la pensi?

Cosa vuol dire per te “ognuno vale uno”? Ritieni che questo sia un principio fondamentale, o tutto sommato la partecipazione dal basso non è così importante purché il Movimento resti fedele ai suoi principi?

Pensi che la scelta dei candidati tocchi a tutti i cittadini, o solo agli attivisti del Movimento?

Ritieni giusto che qualsiasi torinese possa candidarsi nelle nostre liste o vorresti liste composte soltanto da persone che già hanno partecipato negli scorsi anni?

Sarebbe giusto accogliere anche candidati espressi da comitati e gruppi spontanei, magari sollecitati dal Movimento stesso tra persone che non sono mai state attive ma che hanno raggiunto posizioni di rilievo nella “società civile” senza mai schierarsi coi partiti, o meglio di no?

Secondo te, la scelta dei candidati (specie del candidato sindaco, che sarà la voce del Movimento durante la campagna elettorale) è importante oppure più o meno chiunque può andare bene purché rispetti i requisiti? In altre parole, cosa caratterizza secondo te un buon candidato?

In generale, tu personalmente riterresti giusto essere coinvolto almeno sulle grandi scelte (candidato sindaco, temi forti del programma) o vorresti delegare anche queste scelte a chi è più attivo? E in questo caso, che genere di attivismo “conta” per avere diritto a dire la propria? La partecipazione alle attività sul campo, quella alle riunioni organizzative, la diffusione delle idee del Movimento su Facebook o via Internet…?

[tags]movimento 5 stelle, beppe grillo, torino, elezioni comunali, democrazia partecipativa, ognuno vale uno[/tags]

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mercoledì 29 Settembre 2010, 11:30

Noi italiani e gli altri italiani

Ieri mattina, sul mio volo Ryanair per Londra, ho incontrato il mio ex capo dei tempi di Vitaminic, Adriano Marconetto, attualmente amministratore delegato di Electro Power Systems. Sul treno da Stansted a Londra abbiamo chiacchierato – oltre che del suo mestiere, ovvero l’energia – dello stato dell’Italia e del mondo; alle volte eravamo d’accordo e altre no, ma abbiamo concluso che l’Italia ha grandi potenzialità che sono però bloccate dalla mentalità furbetta di una parte del Paese, quella che vive a sbafo grazie alla politica, ai suoi sprechi e ai posti di lavoro farlocchi che essa crea per gli amici, drenando soldi a tutti gli altri.

Alla stazione di Liverpool Street ci salutiamo, e io prendo la metro. Salgo sul treno pieno di inglesi, e dopo pochi metri dalla partenza vedo una signora sui quarant’anni, dall’aria molto latina, precipitarsi verso l’unico posto a sedere rimasto libero nel vagone. Nonostante lo scatto, davanti al sedile c’è un altro signore che si siede prima di lei. La signora sbuffa, poi nota in un angolo, sopra un altro posto a sedere occupato da un ragazzo, un adesivo che dice “Priority seat for elderly and disabled people”.

Allora si avvicina con un altro scatto, apre la borsetta, ed estrae un pezzo di cartone arancione con un grosso disegno di una sedia a rotelle. Lo agita davanti al ragazzo e lo invita ad alzarsi per farla sedere; il ragazzo, contrito, subito si alza e la signora si spaparanza sul posto. Mentre mette via nella borsetta il pezzo di cartone, riesco a vederlo meglio; c’è scritto, in italiano, “PERMESSO DI CIRCOLAZIONE”. Non era la tessera dei disabili di qualche istituzione inglese, bensì il permesso emesso da qualche città italiana per la circolazione delle auto dei disabili nelle zone a traffico limitato, anche se la signora era chiaramente in perfetta salute e camminava senza il minimo problema.

Ora, di gente che parcheggia abusivamente per l’Italia con il contrassegno disabili del nonno che non ha nemmeno più la macchina ne ho vista parecchia, ma che adesso questi abusino pure del suddetto contrassegno per sedersi a sbafo sulla metropolitana di Londra è davvero pazzesco. Se non li prendiamo a calci nel sedere noi altri italiani, che li manteniamo e li subiamo, prima o poi il mondo prenderà a calci nel sedere tutta l’Italia, e a buona ragione.

[tags]londra, stansted, ryanair, vitaminic, marconetto, italia, italiani, disabili, sbafo, parassiti, calci nel sedere[/tags]

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lunedì 27 Settembre 2010, 19:17

Dopo Cesena, il sole

L’evento di Cesena è andato oltre le mie aspettative, lo dico subito: come sapete temevo di finire sotto la pioggia nel pantano a sorbirmi musica poco interessante, e invece… invece sono stati davvero due giorni indimenticabili, baciati dal sole e dall’energia naturale e rinnovabile delle persone. Aveva ragione Beppe: per un Movimento fuori dagli schemi è stato davvero meglio fare una festa così, con una marea di gente contenta solo per essere lì con altra gente che condivide la stessa visione del mondo e la stessa voglia di cambiamento, piuttosto che organizzare una serie di incontri e dibattiti nello stile della politica tradizionale.

Che poi, come saprete, gli incontri li abbiamo organizzati, e sono andati bene, e sono stati interessanti, e però… a un certo punto, di fronte all’ennesima discussione sulla teoria della politica partecipativa, credo di aver visto la luce… e sono tornato sotto il palco ad ascoltare la musica in mezzo a decine di migliaia di persone. Perché sì, le teorie sono importanti, le idee sono importanti, l’organizzazione è importante; ma prima ancora è importante l’empatia, il sentirsi parte del tutto, un pezzo di una armonia. Sì, è importante la politica, entrare nelle istituzioni per cambiarle, ma prima ancora è importante non perdere il contatto tra noi, non isolarci, non venire così presi dalle discussioni politiche da perdere di vista che il cambiamento più importante è quello culturale, è lo stare insieme con un sorriso – un atto assolutamente rivoluzionario, in una società che ci vuole soli e inermi di fronte al controllo e alla schiavitù morbida del consumo.

A Cesena si è ricreata per due giorni quell’atmosfera magica che già ci aveva avvolto verso la fine della campagna per le elezioni regionali; quella in cui tutti condividono l’obiettivo, in cui non esiste io che non sia parte del noi, del grande flusso delle cose. Spero che quella atmosfera possa arrivare un po’ anche qui a Torino, dove il clima, a livello di Movimento cittadino, è alle volte tutt’altro. Spero che, se proveremo a cimentarci con il cambiare la città, lo faremo sul serio: portando migliaia di persone in piazza per un mondo nuovo, invece di chiuderci in una stanza a parlare di politica litigando pure tra di noi; perché davvero ho la sensazione che la politica, senza l’energia del sogno, potrà soltanto farci marcire.

Volevo comunque ringraziare tutti quelli che ho conosciuto o ritrovato e con cui ho scambiato due chiacchiere, e perdonatemi se in certi momenti ero fuso dalla stanchezza, se magari non vi riconosco al volo, se non sento bene cosa dite. Vorrei applaudire vari artisti, alcuni hanno davvero spaccato (cito i Linea 77 e il Teatro degli Orrori, ma ce ne sarebbero tantissimi, e non li ho nemmeno sentiti tutti, anzi non perdonerò la discussione che mi ha fatto perdere l’esibizione di The Niro). Mi piacerebbe montare un filmato del dietro le quinte, per farvi vedere cosa è stato davvero – dall’incontro di wrestling con la bici del consigliere Bono da mettere sulla cappelliera del treno, fino alla cura maniacale della raccolta differenziata (però dalle nostre tende non c’erano i bidoni, maledetti! ho dovuto trasportare tutto per un pezzo).

Intanto, comincio con questo: i primi dieci minuti del concerto “after hours” organizzato dal Movimento 5 Stelle Piemonte (cioè da Paolo Vinci, l’unica persona veramente indispensabile senza cui il Movimento piemontese non sarebbe mai esistito). A forza di portarsi a spalle casse e mixer, Paolo è riuscito a far esibire a Woodstock 5 Stelle nientepopodimeno che Tony Troja (che poi, partecipando alle nostre discussioni e girando per la festa, si è rivelato davvero un grande). E’ stato un momento di felicità condivisa; e in fondo è noto da tempo che solo una risata li potrà seppellire.

[tags]woodstock 5 stelle, w5s, cesena, beppe grillo, movimento 5 stelle, tony troja, linea 77, teatro degli orrori, politica, energia[/tags]

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