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lunedì 13 Agosto 2007, 10:59

Una serata di rock

Qui è quasi l’una di notte, e sono seduto sul pensatoio della mia camera d’albergo per cercare di mettere giù almeno una pallida traccia di quella che è stata una serata eccezionale, che ricorderò a lungo.

Mi sono messo in strada quasi un’ora in ritardo, che si era accumulata nelle tappe precedenti – il Getty Center sulle colline di Santa Monica, e poi un’altra cosa che avevo nella lista di “da fare almeno una volta nella vita”, cioè guidare dall’inizio alla fine di Mulholland Drive; e poi il check-in in albergo -, e un po’ con l’angoscia di non conoscere la strada, che un percorso di ottanta chilometri visto su un atlante è una cosa, ma nella pratica può rivelarsi un trappolone. Per fortuna, le highway erano scorrevoli, tranne in un paio di punti, e così sono arrivato a Costa Mesa alle sette in punto.

Subita la coda per l’ingresso al parcheggio, e sganciati otto dollari per entrare – che si aggiungono a 60 di biglietto, 6 di prevendita, 4 di commissione, e un’ottantina tra auto e benzina – mi presento al Will Call, dove mi porgono un biglietto intestato a “Victorio Bartola” (per fortuna la carta di credito corrisponde). Mentre mi metto nella coda pedonale per entrare, strabuzzo gli occhi: c’è scritto proprio settore 2, fila D, posto 20. Come vi avevo detto, generalmente nei giorni precedenti Ticketmaster mi aveva prospettato le file dalla Q in su… entro sperando che sia veramente la quarta fila, e lo è, ed è pure al centro perfetto della platea! Davanti a me ci sono solo quattro file, più una decina di file di seggiole nella buca dell’orchestra; in poche parole, non solo sono perfettamente centrale e a non più di quindici metri dal palco, ma i miei occhi sono esattamente all’altezza degli occhi di chi sta sul palco. Stante che il posto è tutto pieno fino alla cinquantesima fila, devo aver avuto una botta di fortuna – tipo un blocco di biglietti rimesso in circolazione all’ultimo momento – che mi ha fatto finire lì.

Il Pacific Amphitheatre si rivela un posto da concerti, assolutamente perfetto. E’ fatto ad anfiteatro, ad arco con il palco al centro e in basso, e con le gradinate che salgono verso l’alto; noi dovremmo saperlo, visto che i teatri greci e romani erano così, e invece dove facciamo gli spettacoli a Torino? Beh, c’è ampia scelta tra gli stadi di calcio (con trenta – cento metri di prato in mezzo), una vasca piatta in un parco (vedi Traffic), un cortile ghiaioso di una ex fabbrica (Colonia Sonora), o, perchè no, un palazzetto rettangolare costruito per ospitare tre partite di hockey. Il problema è che la musica in Italia è un riempitivo; ci sono dei grandi spazi costruiti in modo scriteriato, qualcuno li deve riempire e così ci si ficcano dentro i concerti, senza nessun rispetto per chi li va a vedere.

Qui, invece, la visibilità e l’acustica sono perfette; tutti i posti sono a sedere e preassegnati; la prima fila è attaccata al palco, con le persone che potrebbero toccare i piedi dei musicisti, visto che il palco non è alto tre metri, ma cinquanta centimetri – tanto sono le gradinate a salire. In più, il teatro è all’aperto e scavato nel terreno, riducendo l’impatto visivo e sonoro sulla zona circostante, e migliorando l’acustica.

Ma veniamo al concerto; mentre entro e mi accomodo, sul palco c’è già un signore sulla sessantina, con i capelli bianchi e lunghi, accompagnato da una band di giovanotti. Non so chi sia – il programma prevedeva i Thin Lizzy, ma mi avevano detto che sarebbero stati sostituiti – però il tizio roccheggia e blueseggia che è un piacere, suonando un po’ di tutto, facendo gare vocali con il chitarrista, e cantando con una voce eccezionale. A un certo punto, verso la fine del set, comincia a parlare di una canzone famosa che ha scritto oltre trent’anni fa, e spiega che è stato il primo caso di qualcuno che abbia suonato sul palco con una tastiera a tracolla. Se la infila, attaccano il pezzo, e… oddio, è il riff di Frankenstein!

Per chi non lo conoscesse, Frankenstein è un classico pezzo strumentale degli anni ’70, che non solo fa da colonna sonora allo sballo di Homer in una puntata dei Simpson, ma è uno dei brani più difficili di Guitar Hero I. Me lo ritrovo lì a sorpresa, ma se il pezzo è Frankenstein allora il tizio è Edgar Winter, di cui non avevo mai visto la faccia. L’esecuzione è eccezionale, dilatata a una decina di minuti; lui rifà tutte le parti del pezzo, cioè comincia con la tastiera, poi la posa e prende il sax ed esegue la parte di sax, poi lo posa e passa alle percussioni per fare l’assolo di batteria, poi si rimette la tastiera per il finale: tutto suonato benissimo. Ovazione!

Approfitto della pausa per spararmi un salsiccione in panino con peperoni e cipolle – qui non ci sono i paninari, c’è direttamente un barbecue ben organizzato all’ingresso – e torno giusto in tempo per la seconda band, i Blue Oyster Cult. Sono dei tizi che paiono più giovani, diciamo sui cinquanta, insomma in linea con l’età media della platea. Suonano un po’ come gli Scorpions dei primi dischi, anche se sono ben antecedenti e quindi saranno i tedeschi ad essersi ispirati. La platea conosce un buon numero di pezzi e si scalda parecchio. Io ne conosco solo uno… Godzilla, il secondo pezzo di Guitar Hero della serata. Tecnicamente comunque sono molto bravi, il chitarrista impressiona, il bassista pure… ottimo numero.

Poi, alle nove in punto (non alle undici e un quarto dopo essersi fatti pregare per novanta minuti, come succede in Italia) salgono sul palco i Deep Purple. Li vedo benissimo, posso contare i capelli rimasti e vedere ogni espressione: che godimento! Attaccano con Pictures of Home, un brano del periodo classico ma dei meno noti; segue un brano da Purpendicular, di quelli che servono a far scatenare la chitarra; è l’unico che non conosco. La platea si siede sul brano recente, ma sui classici si scatena; il terzo brano è Into The Fire, sempre dai dischi classici, un’altra chicca da intenditori. Il quarto poi è un superclassico, Strange Kind Of Woman, che addirittura ho suonato nei pub; la si canta tutti in piedi, e io ne conosco ogni singola nota…

Bisogna dire che Gillan è un po’ giù di voce, ma in realtà si sa che l’ha finita nel 1980. Morse, invece, è inarrestabile; non solo fa tutti gli assoli che faceva Blackmore nota per nota, ma ce ne infila anche altre in mezzo tra una e l’altra, così per spregio. E’ un vero mostro, e a tratti diventa quasi il protagonista unico, anche se gli altri seguono bene.

A questo punto fanno Rapture Of The Deep, il brano eponimo dell’ultimo disco, che io trovo bellissimo ma che quasi nessuno conosce, e tutti ascoltano un po’ distrattamente; peccato. Di lì in poi, però, è un delirio. La scaletta prevede Woman From Tokio, e poi una parte solista dove Morse pare voler suonare alla chitarra tutto il Clavicembalo Ben Temperato di Bach, però compresso in quattro minuti: un pezzo sinfonico come si usava negli anni ’70. Finito questo, attaccano Knocking At Your Back Door, e poi uno dei classici brani da concerto, Lazy, con tutti gli assoli e le pause e le note come nei concerti originali di trentacinque anni fa. Poi viene il momento del tastierista Don Airey, che si esibisce in un pezzo di piano classico a cui segue una girandola di suoni elettronici da cui esce fuori Perfect Strangers. E poi, due brani dall’energia devastante come Space Trucker e Highway Star, e lì la folla è veramente fuori di sè, tutti sono in piedi, cantano e urlano, e non ce n’è per nessuno, non ho mai visto un concerto così esaltante.

In effetti, a ben guardare, non si capisce bene quale sia il punto di forza dei Deep Purple, ciò che li rende dopo quarant’anni di carriera ancora il top assoluto dell’hard rock. I testi delle canzoni sono generalmente insignificanti; loro si sono presi e mollati decine di volte, e non sono certo un modello. Dev’essere l’energia che c’è in questi pezzi, la forza trascinante; e il fatto che – a differenza dell’altra volta in cui li avevo visti, nel 1992, in cui suonavano con lo scazzo ed ero rimasto molto deluso – in questi anni sembrano proprio divertirsi, godere di essere ancora su un palco a suonare davanti alla gente, ed esserne grati.

Chiudono il concerto portando sul palco Edgar Winter e chitarrista, e suonando insieme a lui Smoke On The Water; et voilà, terzo pezzo di Guitar Hero in una sera sola. Vanno fuori, tornano dentro e fanno il bis, Hush, con tutta la platea che fa il coro. Ne vorremmo ancora, ma hanno suonato un’ora e mezza e considerando che viaggiano sui sessanta e sono in tour dalla primavera, non si può fare di più. Salutano e scappano stremati, Paice ha allagato il palco dal sudore, Glover è secchissimo, privo di linfa.

Mentre mi sciroppo gli ottanta chilometri del ritorno in autostrada senza pena, accelerando al grido di “I’m an highway star”, penso che valeva assolutamente la pena di vedere questo concerto; tra il luogo esotico, la posizione perfetta, e la grande musica, una cosa così in Italia non la potrò vedere mai (purtroppo). Spero che esca il DVD, così almeno potrò conservare le immagini!

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3 commenti a “Una serata di rock”

  1. BlindWolf:

    Beh, una parte solista (classica-elettronica-ragtime-ecc.) per lanciare Perfect Strangers la faceva già Lord (per esempio nell’album live “Nobody’s Perfect”).

    Personalmente il mio branp preferito è “Child in time”, ma temo che ormai sia improponibile anche per Gillan…

  2. Nervo:

    Ti invidio tantissimo. Ma tantissimo, eh! Anche se, IMHO, i Deep Purple senza Lord non sono DAVVERO i Deep Purple…

  3. vb:

    Lo temevo anch’io, ma dopo averli visti e aver sentito gli ultimi dischi sono convinto che va bene così. Don Airey è quanto di più identico a Lord si potesse trovare: stessa età, stessa tecnica, stesso stile, praticamente stesso curriculum…

 
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