Dov’è finita la violenza
Ieri è passato nel silenzio quasi totale un anniversario importante: il cinquantenario dei fatti di Genova del 30 giugno 1960. E questa cosa mi è venuta in mente perché, l’altra sera a cena, un parente che ha vissuto da ragazzo gli anni ’70 mi ha detto “Visto il clima politico ed economico, sono piuttosto stupito, favorevolmente, che nessuno si sia ancora messo a sparare”.
Cinquant’anni fa, a Genova, la violenza eruppe per molto meno; l’Italia non era governata da un pluri-indagato e nemmeno moriva (più) di fame, anzi si era proprio nel punto massimo del “boom economico”. Il carburante della protesta fu la nascita del governo Tambroni, un governo democristiano di minoranza che sopravviveva con il sostegno esterno del MSI; e la scintilla fu la decisione dei missini di tenere il proprio congresso a Genova, riportando in città il famigerato podestà Basile, che l’aveva governata ai tempi del fascismo.
Contro tale decisione, contro un clima di riabilitazione del fascismo, centomila persone scesero in corteo e ci furono gravi incidenti; ovviamente i resoconti anche dopo cinquant’anni non concordano, ma potete leggere la versione dei comunisti (da un sito con falce e martello), la versione dei fascisti (da un blog di destra) e la versione dei fascisti lavati a Fiuggi (da Wikipedia: dove altro si potrebbe trovare una enciclopedia che descriva uno scontro di piazza parlando di “sapiente regia comunista delle manifestazioni”?).
Comunque, l’Italia di allora era pronta a occupare le piazze e scontrarsi violentemente con la polizia anche solo all’idea che i fascisti potessero appoggiare un governo dall’esterno – e con successo, dato che il governo Tambroni cadde dopo meno di tre settimane. Adesso, invece, viviamo in un regime che è oggettivamente mezzo fascista – nell’occupazione del potere, nella censura esplicita dei mezzi di comunicazione di massa, nelle intimidazioni e nele restrizioni verso i magistrati che indagano sugli abusi del potere, nelle minacce ed epurazioni verso chiunque non si allinei – eppure in piazza scendono delle minoranze, e soprattutto queste minoranze vanno lì, ascoltano il comizio di turno – talvolta hai l’impressione che qualcuno faccia i comizi di opposizione per mestiere, perché anche la poltrona di opposizione totale è pur sempre una poltrona – e poi tornano a casa e non succede niente.
Probabilmente è cambiato il mondo; culturalmente, la violenza è sempre meno accettabile ed accettata. Una volta ogni trent’anni si macellavano le generazioni, adesso la guerra diventa uno scandalo anche per una sola vittima; i nostri nonni si ispiravano a Garibaldi, e noi ci ispiriamo a Gandhi; solo trent’anni fa in Commando Schwarzenegger andava in tripla cifra a forza di mitragliatrice, e ora invece persino nei film d’azione non muore più nessuno. E questo, indubbiamente, è un bene… o lo sarebbe se non ci avesse reso (per caso, per strategia?) imbelli, indifesi, sottomessi a un potere che, quando vuole, sa benissimo come usare la violenza e anche come coprirla e farcela accettare.
Per certi versi, la nostra nonviolenza è una forma di codardia, di paura di assumersi le proprie responsabilità di animale in lotta per la sopravvivenza e di rischiare per esse il dolore fisico; per altri è una forma di coraggio, per cercare di vincere le proprie battaglie da essere umano e senza ridiventare belva.
Alla fine, forse non siamo aggressivi perché non abbiamo abbastanza fame. Siamo ancora troppo ricchi e ben pasciuti, abbiamo ancora troppi ninnoli tecnologici e troppi bisogni superflui per arrabbiarci davvero. Quando arriverà la fame vera, probabilmente tornerà anche la violenza.
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