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martedì 20 Luglio 2010, 17:39

Più complesso di così

Quando si parla di Cina, l’occidentale pensa già di sapere tutto. Tipicamente non ci è mai stato né ci andrà mai, ma affronta la Cina con la spavalderia dell’ex colonialista – quello che interpreta il mondo sempre per similitudine con l’Europa – associata a un insieme di luoghi comuni derivanti un po’ dall’osservazione delle nostre Chinatown (che è come dire che l’Italia è tutta come Little Italy a New York, con i palazzi dipinti di bianco rosso e verde e con una economia interamente basata su ristoranti con gigantografie del Vesuvio sullo sfondo) e un po’ dai reportage dei nostri media, notoriamente affidabili e privi di sensazionalismi e secondi fini.

Eppure le questioni sono più complesse di così. Quando si parla di società, di politica, di diplomazia e di storia, la verità è raramente bianca o nera; più facilmente è vero tutto e il suo contrario. E’ vero, per esempio, che in Cina c’è la censura; che i diritti umani non esistono o quasi, che le persone possono essere incarcerate per una opinione espressa in pubblico o sfrattate dalla loro casa per permettere la costruzione di una nuova strada o di un nuovo centro commerciale.

Ma è vero anche che la natura politica di una società si forma per evoluzione lenta e per influenze successive; che in un Paese che viene dal comunismo e dove il concetto di proprietà privata è stato introdotto meno di quindici anni fa, non è così strano che la proprietà dei terreni sia ancora collettiva e che lo Stato si ritenga autorizzato ad usarla per uno sviluppo ritenuto più benefico per la collettività rispetto al preesistente appartamento del singolo; che, in generale, la filosofia del confucianesimo spinga da centinaia di anni, ben prima dell’avvento dello stesso comunismo, a considerare la collettività più importante del singolo e dunque a trovare più che giusto che la libertà individuale sia minimizzata e subordinata alle esigenze di tutti.

Il concetto di “diritti umani” è un concetto di natura profondamente occidentale, che da noi si è sviluppato in almeno trecento anni, dalla Rivoluzione Francese in poi, parallelamente allo svilupparsi di una borghesia, di un’economia industriale e post-industriale, di istituzioni democratiche moderne. La Cina sta compiendo lo stesso percorso – politico, culturale, economico – in trent’anni; è soltanto normale che sia indietro.

Noi, però, sembriamo non vedere l’ora di coglierli in fallo; probabilmente, sotto sotto, rosichiamo. Addossiamo a loro la responsabilità della nostra crisi, senza considerare che potrebbero essere loro ad addossare a noi la responsabilità della loro arretratezza. Non pensiamo che il primo attore dello sfruttamento è l’imprenditore italiano che trasferisce la produzione di scarpe in Cina, le paga un euro a paio pretendendo dai suoi fornitori la minima qualità e i minimi costi, le porta in Italia, ci appiccica l’etichetta “Made in Italy” e ce le vende a cento euro – e poi magari va al telegiornale a lamentarsi dell’importazione parallela delle stesse scarpe, prodotte dai suoi stessi fornitori, vendute a dieci euro, permettendo un trattamento migliore degli operai cinesi e un prezzo migliore per gli acquirenti italiani; dato che sempre più spesso non riusciamo ad esprimere un’idea di impresa diversa dal faccendismo.

Non pensiamo che dietro il successo della Cina c’è anche lo schiavismo, ma che ciò che a noi pare schiavismo non è poi troppo diverso dalle condizioni di lavoro e di vita che i nostri nonni hanno sperimentato negli anni ’50 e ’60, che sono state alla base del successo italiano di quegli anni, e che noi oggi non siamo più disposti ad accettare – e che però vorremmo che non accettassero nemmeno gli altri.

E non capiamo che ormai la Cina, almeno nella sua parte costiera, non è più un paese del Terzo Mondo dove si produce a prezzi stracciati, ma è un paese più o meno al nostro livello, dove l’economia è e sarà sempre più alimentata dalla domanda interna anziché dalle esportazioni, e che anzi sta cominciando a delocalizzare le fabbriche in Indonesia o in Vietnam; che sta smettendo di competere con noi sui costi della manodopera non qualificata, e sta competendo con noi sulla tecnologia, sull’innovazione, sulla finanza, sul marketing globale, sull’educazione e sulla preparazione delle persone – e sta cominciando pure a vincere.

Stamattina, un docente della locale università è venuto a farci lezione sul sistema politico cinese; e siamo rimasti sorpresi dal livello di introspezione politica, e anche di critica, che ci ha mostrato. La presentazione parlava senza peli sulla lingua delle dinamiche interne al Partito Comunista, con tanto di menzione degli eventi dell’89; parlava tranquillamente delle diverse ipotesi di rapporto tra partito e istituzioni, spingendosi persino a ipotizzare che la corruzione sia endemica in un sistema monopartitico e parlando di tutti i problemi derivanti da una “iperpoliticizzazione” dell’amministrazione pubblica. E poi ha dedicato mezz’ora a spiegare le questioni di Taiwan e del Tibet viste dal punto di vista cinese.

Certo, in ossequio al centralismo democratico, la posizione presentata era quella ufficiale; il nostro docente non avrebbe mai ammesso che un’altra posizione fosse possibile, anche se, dopo averci presentato le linee programmatiche di Hu Jintao, a una domanda interpretativa ha risposto “dovreste chiederlo al primo ministro”. Ma il fatto stesso che se ne parli, pur in un contesto particolare come un corso universitario per stranieri, è già sorprendente per i nostri preconcetti; eppure noi, come ha fatto stamattina uno studente, non sembriamo in grado di rapportarci in altro modo che ripeterli all’infinito, dando per scontato di avere ragione e di avere diritto di dare lezioni a chiunque.

Chi pensa di venire qui e trovare la Romania di Ceausescu, con i poliziotti a ogni angolo di strada e le persone rapite dai servizi segreti, sarà molto deluso; questo però non vuol dire che la Cina sia un Paese libero e felice. Tutto è molto più complesso; penso che ci vorrebbero molti anni a chiunque di noi per capire veramente cosa succede in Cina, ammesso che sia veramente possibile.

[tags]cina, economia, politica, società, globalizzazione, competizione[/tags]

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8 commenti a “Più complesso di così”

  1. Piero:

    Penso che comunismo sovietico o cinese e capitalismo occidentale siano le due facce della stessa medaglia.

    L’occidente è stato fortemente influenzato dal Cristianesimo e i diritti umani sono in gran parte dovuti all’influenza cristiana.

    In Cina molto probabilmente Gesù è censurato. Prova a chiedere a gente del posto se sanno chi è Gesù e cosa pensano di lui. Naturalmente nella prudenza e nella speranza che tu non venga arrestato o scambiato per un agitatore politico-religioso.

  2. Dela:

    Dovresti leggere un libro di Loretta Napoleoni, uscito da poco, “Maonomics”. Esprime molti concetti che hai scritto qui, come per esempio noi occidentiali associamo indissolubilmente la democrazia al capitalismo, e analizza l’economia cinese cercando di eliminare i preconcetti. Lettura consigliata per tutti coloro che si interessano di economia globale.

  3. simonecaldana:

    Piero Gesu’ e’ cosi’ censurato che ci sono piu’ cristiani in Cina che in Italia (3,5% di 1337 milioni fa 46 milioni, e quando sei un 3,5% se ti fai contare vuol dire che sei praticante, non come da noi che e’ nominalmente cattolico l’88% (53M) della popolazione ma praticante il 36% (22M)).

    I diritti umani sono cosi’ influenzati dal cristianesimo che per dare pari dignita’ alle donne ci son voluti quasi due secoli DOPO l’Illuminismo. Non farmi incazzare, dai.

  4. for those...:

    Tutto vero. Però nell’elenco delle meraviglie che sta facendo la Cina per modernizzarsi ti sei dimenticato di citare il colonialismo economico che sta attuando in Africa e in Sud America.
    Ci sono interi paesi che sono stati praticamente venduti alla Cina in cambio di infrastrutture di dubbia qualità (qui si parla x es dell’Algeria)

  5. Lobo:

    Tutti passi che ha fatto anche “l’occidente” nel corso della storia, solo che loro li stanno facendo molto piu’ rapidamente :P

    Per quanto riguarda la religione, non vedo influenze. Anzi, penso il contrario: in occidente, regno illuministico della persona prima della comunita’, abbiamo una religione predominante che predica “gli altri prima di noi”. In oriente, dove hanno una societa’ tendente ad affermare “comunita’ prima della persona”, hanno religioni dominanti introspettive e rivolte alla “persona” (buddismo, induismo, etc etc). Praticamente le religioni hanno spinto i popoli a fare il “contrario” di quello che dicevano :P Good Job!

  6. Piero:

    Simone, secondo me confondi il cristianesimo con la religione cristiana. In Cina c’è una religione cristiana tollerata e riconosciuta dal governo e c’è un cristianesimo clandestino non riconosciuto dal governo e perseguitato.

    Le religioni spesso diventano “di Stato” quando fanno comodo allo Stato.
    Quando poi non fanno più comodo, vengono perseguitate e messe fuorilegge.

    Lo stesso discorso sui diritti umani possiamo farlo con le “altre” religioni, dove la religione non è altro che una disciplina di comportamento tesa a mettere un ordine là dove regna l’ignoranza popolare e a esercitare un controllo sui bisogni primari dell’uomo.

    Il Cristianesimo è un’altra cosa che nulla ha a che vedere con la religione o con l’Illuminismo che io considero una forma di religione filosofica per dotti e sapienti.

  7. dela:

    for those: quello che tu chiami colonialismo in Africa non viene percepito cosi’ dagli africani stessi.
    Molti occidentali si presentano ancora in Africa con il concetto “noi bianchi buoni, tutti gli altri cattivi”, se volete fare affari dovete farlo con noi che siamo superiori. Molti ambasciatori si comportano ancora cosi’.

    I cinesi si presentano con un atteggiamento pragmatico (molto confuciano), non dicono noi siamo superiori, ma dicono voi ci date le fonti di energia e noi vi rifacciamo tutte le strade, i ponti e le infrastrutture. E’ un gioco win win per entrambi.

    E’ divertente che le grandi potenze ex coloniali siano preoccupate del “colonialismo” cinese, che non ha nessuna intenzione di occupare i paesi africani né di esportare la democrazia; per non parlare del fatto che spesso l’unica cosa che gli occidentali sanno dare in cambio delle materie prime sono armi.

    il libro che citavo prima e’ illuminante anche su questi aspetti.

  8. mosk:

    veramente a leggere qualche giornale africano e a sentire gente del posto, non è che tutti siano così contenti.
    In certi casi quello che costruiscono i cinesi è di bassa qualità, tendono ad usare manodopera cinese invece che locale; ma soprattutto è l’importazione di merce cinese a basso costo che minaccia le produzioni locali.
    Un’altra cosa che prima o poi è possibile che porti qualche problema è l’acquisto di terreni agricoli che i cinesi (ma non solo loro) stanno effettuando in Africa per assicurarsi nel futuro l’autosufficienza alimentare a fronte dell’accrescersi della popolazione.
    Per il resto, anche i cinesi vendono armi… insomma si stanno preparando a raggiungere l’occidente nei suoi peggiori difetti.

 
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