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martedì 2 Ottobre 2012, 17:59

Gli schiavi della conoscenza

Emanuele è un lavoratore della conoscenza: una di quelle persone che non producono oggetti tangibili, ma idee, ricerche, prodotti immateriali. Gli economisti sostengono che se un Paese ricco vuole avere speranza di rimanerlo deve puntare proprio su questo settore, investendo nella ricerca scientifica e nei settori tecnologicamente avanzati.

In Italia, però, la realtà è ben diversa. L’impresa privata spesso concepisce la ricerca solo come un mezzo per ottenere finanziamenti pubblici, per cui, più che fare ricerca utile, si concepiscono sulla carta progetti che corrispondano a qualche bando e non di rado si falsificano i documenti per far apparire come ricerca (e quindi farsi rimborsare almeno in parte) anche le normali attività aziendali. Se non ci sono fondi pubblici, allora la ricerca – per definizione un investimento che ritorna nel lungo termine, ma che a breve è un costo – non si fa proprio.

Gli enti pubblici, invece, vedono normalmente la ricerca come un modo per far arrivare soldi alla corte di clienti, parenti e raccomandati di chi li gestisce; una consulenza, magari per studiare sulla carta un progetto che sin dal principio non si ha alcuna intenzione di realizzare, è un buon motivo per giustificare un esborso di denaro.

In questa situazione, chi invece veramente si dedica con passione e competenza al lavoro della conoscenza viene continuamente mortificato. Nel privato, di solito si trova a lavorare precariamente con contratti a progetto o finte partite IVA, da schiavo mascherato da professionista, per venire poi scaricato appena si deve tagliare qualcosa. Nel pubblico, l’ingresso nelle università è subordinato all’adesione al feudo del barone universitario di turno, accettando di mettersi in fila per poter vincere un concorso una volta esaurita la lista di figli, amanti e sodali che devono essere sistemati, e nel frattempo vivendo di assegni e contratti precari.

La storia di Emanuele è un po’ di tutto questo; ingaggiato in progetti di ricerca tra il Politecnico, la Città e la Provincia di Torino, il suo lavoro non è mai stato pagato; il primo progetto ha perso i fondi europei per via di gelosie politiche tra Torino e Milano, mentre nel secondo i soldi sono arrivati ma sono stati girati dall’ente pubblico ad altri, anziché a lui che aveva lavorato.

Nonostante le promesse di ripagarlo in qualche modo, alla fine Emanuele è finito in mezzo a una strada; era già all’estero per cercarsi un nuovo lavoro, quando è rimasto senza una lira ed è stato sfrattato e persino depennato dall’anagrafe e dalle liste elettorali italiane in quanto irreperibile. I nostri tentativi di fargli avere ciò che gli spetta sono stati vani, tanto che lui si è infine rivolto alla magistratura; potete sentire la sua storia nel video.

Ora Emanuele ha trovato un ingaggio dignitoso: alla Metropolitan University di Manchester. Questa, infatti, è la fine di molte delle persone che cercano di fare questo lavoro in Italia: l’emigrazione. All’estero chi lavora in questo settore con merito – non solo i geni, ma anche le persone normalmente preparate – viene accolto e incentivato, proprio perché loro sanno che da queste persone dipende la futura floridità della nazione. Non stupisce dunque che l’Italia sia sempre più in crisi.

[tags]ricerca, conoscenza, lavoro, precariato, università, politecnico, comune, provincia, torino[/tags]

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5 commenti a “Gli schiavi della conoscenza”

  1. Claudio C:

    Non ho capito bene la situazione: il comune e la provincia hanno commissionato a questo ricercatore la stesura di due proposte di progetto per i bandi europei. I progetti (in sede di valutazione) hanno avuto esito positivo in un caso e negativo in un altro (non importa il motivo). Il ricercatore aveva dei contratti firmati per la stesura delle proposte? Per il progetto approvato, a che titolo poteva essere coinvolto successivamente nel lavoro?

  2. Alessandro D.:

    Non ho capito cosa vuol dire che, la dirigente (di UNCEM?), si è presa una parte del lavoro e una parte l’ha passata ad uno dei suoi. Ma non vi erano dei contratti firmati ?

  3. Emanuele:

    Con il Comune di Torino si era stabilito un ‘gentlement agreement’ per la condivisione di un percorso di ricerca che prevedeva la presenza di un partner di Governo (la Città appunto) supportato da un partner accademico (il Politecnico).

    Per fare ciò, in accordo con la Consultant della Città di Salzburg (capofila) avevo chiesto la ‘ridicola’ cifra di euro 6.000, 00. Vivevo già allora nel Regno Unito dove lavoravo presso la Newcastle University, e questo lavoro mi sarebbe dovuto servire per tornare in Italia. Una mole di email raccontano di come io chieda ripetutamente ad una dirigente della Città che mi venga formalizzato il contratto di lavoro che era stato discusso anche alla presenza di un eletto cittadino e come questi sistematicamente non lo evadessero, fino al giorno in cui (vi è una email) la stessa dirigente mi fa sapere di non poter più pagare nulla.

    Il chie significa due cose:

    1. il rischio economico (poi in seguito fallimentare per motivi politici, non scientifici) è stato addossato al ricercatore (ovvero a me) che non è mai stato retribuito,
    2. il ricercatore ha nei fatti concreti lavorato in nero.

    Per rispondere all’ultimo punto, è pratica corrente (nonchè grande ipocrisia) che quando si stabilisca un ‘gentlement agreement’ fra due Istituzioni dello Stato, una volta giunto il finanziamento ci si accordi correttamente sulle risorse economiche, così da dare il giusto lavoro a ciascuno (semplicemente il ricercatore a quel punto si vede evadere il contratto di lavoro).

    Peccato che la ‘fiducia’, collante dei rapporti sociali ed economici sembri non funzionare più!

    Per rispondere ad Alessandro. Valgono le considerazioni che ho scritto più sopra. La dirigente di UNCEM, durante un incontro anche alla presenza dell’allora Prorettore del Politecnico -nonchè mio referee di allora- ridendoci in faccia disse: ‘lo so che pensate che vi sto rubando il lavoro’…In queste circostanze la fiducia, come scrivevo sopra, dovrebbe essere garanzia di civiltà nei rapporti fra persone ed Istituzioni, ma a quanto sembra…a buon intenditore, poche parole…

  4. paolo:

    Emanuele, se hai tempo vai a dare una spulciata ai nomi e ai rapporti dei vincitori di concorso di ricercatore o associato presso l’universita: ti accorgerai subito che a nessuno di quelli che comandano conviene cambiare le regole attuali. Mi dispiace molto per la tua esperienza negativa, ma dal nostro sistema attuale non puoi ottenere cio’ che meriti e speri e non hai nemmeno speranza di prenderti una rivincita legale. E’ come combattere contro i mulini a vento mentre tutti quanti si tappano gli occhi per non vedere.

  5. Emanuele:

    Grazie Paolo per il tuo commento!

    Conosco bene l’andazzo all’italiana (potrei fare una lunga list
    a di nomi e di cognomi), anzi di interi parentadi all’interno delle nostre università! Non capisco molto bene per quale motivo tu pensi che non valga la pena la battaglia legale. Io credo, semmai, che troppo spesso si abbia il timore di ‘metterci la faccia’ dinnanzi all’autorità giudiziaria. Ho moltissime carte e carteggi (con nomi e cognomi) con promesse fatte e non mantenute, ma non credi forse che la legge sia (o meglio) dovrebbe essere uguale per tutti?

    Abbracci a tutti,

    Emanuele

 
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