Hiroshima 70
L’anno scorso sono stato a Hiroshima. E’ una città bruttina, ma questo è comprensibile visto che ha dovuto essere ricostruita da capo nel dopoguerra, con i mezzi allora disponibili; per i “grattacieli e ristoranti chic” menzionati da La Stampa consiglierei di andare altrove, e le principali attrazioni mondane sono una galleria commerciale pedonale alla giapponese (bruttina quanto il nome della locale squadra di calcio, il tremendo Sanfrecce) e il palazzo degli okonomiyaki (peraltro ottimi). Anche l’economia non è proprio frizzante, trattandosi di un’altra città dell’automobile (nello specifico la Mazda).
E’ vero però che la visita al Parco della Pace, per quanto affollato di turisti, è un’esperienza indimenticabile; e proprio quest’aspetto dimesso contribuisce al contrasto. Succede di prendere un vialone di palazzoni, girare un angolo, e trovarsi davanti senza preavviso alla cupola del destino. Colpisce perché nei nostri sogni, nelle foto viste e riviste, viene da immaginarla enorme, troneggiante su una tragedia senza pari; in realtà è piuttosto piccola, poco più che una elaborata stazioncina di provincia. Se non sapeste, potrebbe sembrare la vecchia casa del custode di un più grande complesso novecentesco che oggi non c’è più, di quelle vecchie casette abbandonate e mezze crollate che punteggiano le nostre rovine industriali.
E’ proprio questo che alla fine colpisce, di Hiroshima; che in fondo è tutto così cruciale, ma anche così normale, così insignificante. Come l’incendio che distrugge il bosco, che poi con gli anni ricresce, ogni tanto il genere umano si ammazza un po’, e poi ricresce. L’anormalità vera sono i settant’anni di pace da Hiroshima a oggi – pace peraltro piuttosto relativa persino in Europa, basta citofonare alla Jugoslavia – e non il fatto che il genere umano ogni tanto si massacri da solo.
A Hiroshima si va, si riflette, ci si commuove; il Parco della Pace e il relativo museo sono pieni di angoli commoventi, a partire dalle gru di carta in memoria di Sadako, una di quelle storie di pura e straziante giapponesitudine (determinazione e sfiga, sfiga e determinazione) che, se non ci fosse stata la sacralità di una tragedia vissuta direttamente, sarebbe senz’altro diventata un cartone animato meisaku della Nippon Animation. Tutti lasciano il Parco della Pace giurando che qualcosa del genere non succederà mai più. Tutti sanno di mentire.
E’ bello e rassicurante, infatti, pensare che i settant’anni di pace di cui sopra siano giunti per via di una maturazione collettiva dell’umanità , grazie al monito e al sacrificio non vano di Hiroshima e di Nagasaki. Più probabilmente, i settant’anni di pace sono giunti perché c’erano in giro troppe armi, non perché ce ne fossero poche; perché sulle armi si reggeva un ordine mondiale rigidissimo (su questo, citofonare Aldo Moro) e non perché il militarismo e la voglia di supremazia armata fossero retaggi del passato.
E infatti, da quando è finita la guerra fredda c’è molta meno pace di prima, e le nostre stesse società scricchiolano sotto i colpi del libero e bello disordine mondiale; fino a quando un’arma di distruzione di massa non finirà in mano a un pazzo qualsiasi, e chissà dove sarà l’inizio della prossima carneficina. Spiace per chi ci finirà in mezzo, ma alla fine Hiroshima rassicura in un’altra direzione; che per quanto ci si impegni, estirpare completamente l’umanità dall’ecosistema planetario è molto più difficile di quello che sembra.