Quel che non si capisce
Come raccontavo su Facebook, oggi pomeriggio in consiglio comunale a un certo punto mi son trovato a fare opposizione da solo, e con la maggioranza al minimo: nonostante l’urgenza e l’importanza delle delibere in discussione, erano ventuno precisi e bastava un errore per fermare il consiglio, come in effetti poi è stato. Uscito il centrodestra, che fa ostruzionismo perenne senza un vero perché, si aspettavano di approvare tutto in un attimo; e invece io sono stato lì a pretendere che tutte le votazioni venissero fatte per bene, a intervenire sulla sostanza degli argomenti in discussione e in breve, semplicemente facendo il mio lavoro di consigliere di opposizione, a costringerli a stare lì a lavorare fin che non si sono incasinati da soli facendo finire la seduta.
Alla fine di tutto questo mi si è avvicinato un consigliere del PD, uno dei più ragionevoli con cui parlare, e mi fa: “Ma scusa, perché hai fatto tutto questo casino? Non vedi che tutti i tuoi colleghi di opposizione se ne sono fregati e ti hanno lasciato lì da solo, sono andati a farsi i cazzi loro in campagna elettorale. Il tuo partito non ti ha nemmeno ricandidato, l’assessorato non te lo danno, ti hanno trattato tutti a pesci in faccia, e tu sei qui lo stesso a rompere le scatole, invece potevi darci una mano o almeno potevi andartene a casa prima anche tu, tanto ormai che te ne frega?”.
Già , in effetti, che me ne frega? A ben vedere nessuno è in grado di capire una ostinazione pervicace nel rimanere fedeli a se stessi in un mondo come quello della politica italiana, un mondo in cui le persone spesso sono meglio di quel che si crede, ma comunque il cinismo è d’obbligo per sopravvivere; in cui tutti hanno un motivo ideale a cui si aggrappano, anche solo per potersi guardare ogni mattina allo specchio, ma allo stesso tempo tutti sono coscienti di dover pensare innanzi tutto a sopravvivere, tutti sanno che il loro primo nemico è il loro compagno di partito (non importa quale, fa lo stesso) che vuol fargli le scarpe per far carriera al posto loro, e che di fronte a questo tutto il resto passa in secondo piano, perché da nessuno ci si aspetta che faccia scelte diverse da quelle che gli portano il massimo ritorno personale qui e ora, e se lo fa è generalmente visto con compassione, come uno un po’ fesso.
Peggio ancora se la fedeltà è fedeltà a un’idea, a un concetto e a un progetto politico che forse non esistono più, o forse non sono proprio mai esistiti sul serio, in questo doppio binario continuo dell’ipocrisia politica in cui una cosa si dice e un’altra si pensa, una ipocrisia pervasiva e generalizzata che dev’essere nella natura degli esseri umani, specie se italiani, e che alla lunga monta come la panna e ti sommerge, e diventa difficile da tollerare, fino a toglierti il respiro e a farti svegliare ancora, ogni mattina in aula, con quel gusto in bocca che spesso sa della banalità del male, o perlomeno della futilità dell’orchestra che suona su un Titanic dal disastro imminente, in un Paese in cui per dare speranza e crederci davvero ci vuole tanto, troppo coraggio.
Lo ammetto, la domanda è pertinente: perché continuare a suonare per la storia anche quando il destino appare segnato? Forse è senso del dovere, o forse è solo senso, quello che ognuno di noi cerca per missione nella propria vita e, non esistendone uno oggettivo, finisce per darsi da solo. Il mio, credo, è servire le istituzioni (la patria, si sarebbe detto un tempo) fin che ciò mi è concesso, perché, in fondo, così è giusto fare; e se in questo dovessi trovarmi da solo, tra gente che pare non capire, la solitudine non sarebbe meno fredda, ma sarebbe comunque accettata.