Don’t cry for me, Cit Turin
Domenica mattina, su un pullman, nella periferia nordovest di Torino, l’autista e un passeggero parlano delle elezioni. Concludono entrambi che voteranno Appendino: l’autista perché “Fassino ci vuole vendere ai privati, Appendino difende il servizio pubblico”; il passeggero perché “Fassino ha riempito Torino di zingari, gli dà pure da mangiare, mentre a noi italiani non danno niente”.
Questa scenetta, a cui ho assistito personalmente, dimostra davvero che destra e sinistra come categorie e fasce sociali contrapposte non esistono più; sia che tu abbia a cuore una battaglia molto di sinistra per il mantenimento in mani pubbliche delle società partecipate, sia che tu abbia a cuore una battaglia molto di destra contro la presenza crescente degli stranieri e dei rom, comunque voterai Movimento 5 Stelle.
Ha votato Appendino il vecchietto ultra-80enne che ha salito con estrema fatica le scale del seggio di corso Svizzera in cui ero rappresentante, si è riposato dieci minuti buoni per riprendere fiato, ha votato e poi ha detto ad alta voce “e speriamo che adesso muoia, sto sindaco comunista!”; e ha votato Appendino la coppia di giovani che ho visto a festeggiare in piazza sotto il Municipio e che, rivolti verso i bei palazzi del centro, gridavano “andate a lavorare, radical chic di merda!”.
I commentatori si sono concentrati sulle contraddizioni insite in tutto questo; ed è vero, è vero che chiunque avesse qualcosa da ridire non solo sull’amministrazione Fassino o sul governo Renzi ma sull’economia, sulla geopolitica, sull’ordine sociale, persino sul tempo e sul risultato degli Europei di calcio, ha concretizzato la propria rabbia votando Appendino; è vero che le aspettative sulla nuova giunta sono non solo impossibilmente elevate, ma anche troppo contraddittorie per poter essere esaudite tutte.
Ma i commentatori che si concentrano sulle contraddizioni sbagliano, perché vivono ancora nel mondo della destra e della sinistra; sbagliano perché non capiscono che c’è un filo conduttore tra tutti quelli che hanno votato Appendino, un filo conduttore molto più forte delle contraddizioni interne. Un filo conduttore che esisteva già prima, ma che Chiara ha abilmente solleticato e rafforzato, con la sua campagna in stile primarie americane, innovativa per l’Italia e giustamente premiata, basata innanzi tutto sull’immagine, sull’emozione e sull’identificazione del “noi” con il popolo e del popolo con Chiara, più che sui temi di sostanza; una campagna inconsapevolmente peronista che io non avrei mai fatto e comunque non sarei mai stato in grado di fare, ma che era l’unica che potesse vincere e conquistare i cuori del popolo torinese (e quindi tanti complimenti a Xavier Bellanca, l’attivista-stratega oggi meritatamente intervistato dalla Stampa).
Il filo conduttore è evidente nella fotografia della distribuzione territoriale dei risultati:
E’ evidente che ciò che unisce i sostenitori di Appendino non è né la destra né la sinistra, e nemmeno l’apprezzamento per Grillo (volutamente tenuto fuori dalla campagna) o per le istanze storiche del M5S. Semplicemente, ciò che unisce i sostenitori di Appendino è di essere o sentirsi poveri; e sottolineo “sentirsi”, che per vedere i poveri veri bisogna andare nelle baraccopoli della Stura o direttamente nel Terzo Mondo, ma Torino è piena di ex classe media che pur vivendo ancora meglio di tre quarti del pianeta si sente a buon motivo pezzente.
Perché? Perché dall’altra parte c’è un sistema di persone che hanno esibito per vent’anni il loro bel centro lucido, i loro grandi eventi pieni di VIP, le loro connessioni familiari e sociali che li fan cadere sempre in piedi, la loro arroganza nel pretendere sempre ragione e nel liquidare qualsiasi opinione diversa come “fascismo” o “ignoranza”, la loro cultura rivendicata come uno status symbol, fino a stare immensamente sulle scatole alla maggioranza della città .
Davanti a un sistema organizzato che marca fisicamente e moralmente la distanza tra chi è dentro e chi è fuori, è ovvio che anche chi fuori vive piuttosto bene, anche chi gode di una amministrazione non certo inetta, si senta comunque un pezzente con voglia di rivalsa; e persino chi è dentro, ma riceve soltanto le briciole, si ribellerà nel segreto dell’urna o anche apertamente, come i ragazzi pagati per dare i volantini di Fassino che ci dicevano “comunque io voto per voi”. Non è solo una povertà materiale; lo è in molti casi, ma in molti altri è soprattutto una povertà di opportunità , di chance di crescita personale e di riconoscimento sociale, di libertà di essere e di realizzarsi, che rimanda al vuoto di senso della società moderna prima ancora che al vuoto nella pancia.
Fassino – una persona che purtroppo per lui ha il talento naturale per fare dichiarazioni autolesioniste: oggi si vantava di aver comprato le caprette ai rom di lungo Stura Lazio per rimandarli in Romania, provocando una serie infinita di “Piero, le caprette ti fanno ciao” – l’ha chiamata “invidia sociale”, sempre per farsi amare ancora un po’. Ma quando la differenza sociale non è legata al merito ma alle condizioni di partenza, non si tratta di invidia quanto di sacrosanta rabbia.
Sbaglia, però, chi pensa che l’identificazione dei “poveri” con il Movimento 5 Stelle sia soltanto occasionale, legata alla circostanza di essere ora all’opposizione e ancora sostanzialmente vergini dalle responsabilità di governo. Certamente la verginità politica massimizza il risultato, ma il M5S, nato come forza post-ideologica, sta costruendo da tempo con i propri elettori una identificazione ideologica di lungo periodo; e i commentatori più acuti, come Angelo D’Orsi, l’hanno colto benissimo. L’identificazione non avviene però sulla destra o sulla sinistra, ma sull’opposizione all’economia globalizzata di mercato, all’austerità tedesca, al dominio degli azionisti sui cittadini, degli utili di Borsa sugli stipendi delle famiglie, delle tasse e della ragion di Stato (indebitato) sulla libera iniziativa. Per questo, essa mette assieme gli operai con i padroncini, i piccoli imprenditori con gli impiegati, tutti uniti (ex sinistri ed ex destri) non contro il capitalismo, ma contro l’avidità dei capitalisti di oggi.
C’è, però, una questione più profonda. L’invidia e la rabbia sono sentimenti inevitabili, in una società basata sul consumismo, quindi sulla generazione continua di bisogni indotti per spingere all’acquisto. Più la società è in crisi economica, più aumentano le disuguaglianze, e meno le persone comuni sono in grado di soddisfare il bombardamento di bisogni indotti, materiali e psicologici; e ogni desiderio frustrato genera rabbia. Nel breve periodo, la rabbia genera insoddisfazione per chi governa e vantaggi elettorali per chiunque si presenti come il nuovo; ma cosa succederà se, esaurita la fiducia in Renzi, si dovesse esaurire anche quella nel Movimento 5 Stelle, senza che la crisi economica si risolva?
Una società con forti disuguaglianze sociali può reggere solo in due modi: o riducendo concretamente le disuguaglianze, o con un regime che reprima con le buone o con le cattive la rabbia popolare… fin che ci riesce. La rivolta dei forconi, due anni e mezzo fa, a Torino assunse forme e dimensioni non viste altrove, e doveva essere un segnale di allarme per tutti. Eppure, io ero l’unico in piazza a cercare di capire e di ascoltare, e tuttora quella presenza mi viene spesso rinfacciata come una macchia invece che come una medaglia. Se le disuguaglianze in questa città e in questo Paese, vere o percepite, non diminuiranno rapidamente, il rischio è che la rivolta ritorni ancora più forte: ed è questo rischio che tutti i politici, nuovi e vecchi, devono tenere ben presente.