La pace è fuori dalle chiese
Fa piacere che, con spirito di pace, molte comunità musulmane in Italia e in Europa (anche se, ho letto, non quella torinese) domani mandino dei rappresentanti ad ascoltare la messa nelle chiese cattoliche.
Eppure, al di là dello spirito di pace, a me l’aspetto simbolico dell’iniziativa convince poco; per prima cosa, perché l’integrazione avviene alla pari e non costringendo gli uni a partecipare al rito religioso degli altri. Questo però si può risolvere: basta che la settimana prossima siano i cattolici ad entrare nelle moschee.
Ma più ancora sono perplesso perché l’integrazione non riguarda solo i fedeli delle due religioni, ma tutta la società ; riguarda anche i fedeli delle altre religioni meno praticate, e riguarda chi non si riconosce in alcuna religione; pezzi di società che dalla strombazzata iniziativa di domani sono apertamente esclusi.
Il luogo giusto per l’integrazione, simbolica e pratica, non è un luogo di culto, ma è la sede laica dell’istituzione pubblica; è la scuola, è il posto di lavoro, è la politica, è il teatro e lo stadio. Quelle sono le sedi dove tutta la società si deve unire al di là delle differenze, non una chiesa, che per definizione, in una società laica e multireligiosa, accoglie solo una parte della cittadinanza.
Perché altrimenti il rischio è che il tema di importanza storica dell’integrazione degli islamici in Europa venga sfruttato da una parte del mondo religioso cristiano, quello che non a caso spesso promuove e organizza l’immigrazione senza se e senza ma, per un proprio obiettivo politico di parte: reintrodurre la religione nel cuore dello Stato, rimetterla al centro di una vita pubblica e politica da cui, per uguaglianza e rispetto di tutti i cittadini, dovrebbe essere stata allontanata ormai da molto tempo. Così, almeno, deve essere se l’obiettivo è una società laica, tollerante e libertaria, anziché una società vincolata da precetti più o meno rigidamente interpretati di libri religiosi di epoche antiche.