Cacciare la scimmia
Ritornare a casa, svegliarsi alle otto nonostante il jet lag, cominciare a smazzare insieme tre valigie e due zaini da disfare, tutti gli arretrati personali, tutti gli arretrati di lavoro, tutti gli arretrati di varie comunità online e del libro da presentare, la casa da risistemare, il frigo vuoto e quant’altro. Mandare il report bisettimanale posticipato dal venerdì di ferie, prepararsi alla call col capo, lanciare un aggiornamento su un paio di server, mettere a posto pile di ricevute. Cambiare di nuovo le spine americane in spine europee, mettere a posto la moneta e le banconote in yen e riprendere gli euro, sistemare nel cassetto il passaporto, la IC card giapponese e la patente internazionale, tirare fuori le chiavi della macchina. Estrarre dalle valigie tutti gli acquisti, impaccati in ogni cavità esistente, e poi lasciarli lì perché non sai ancora dove metterli.
E poi, ricordarsi che bisogna anche ricominciare a bussare a più porte possibili per i libri da pubblicare, e finire di rileggere per la terza o quarta volta il nuovo romanzo, aggiustando virgole e frasi fin che non diventa scorrevole davvero, e piacevole all’orecchio e al cervello e al cuore, anche se poi pensi che tanto nessuno lo leggerà mai, e ti dispiace, ma non è quello il punto.
Nel volo di ritorno – finite le sei ore di lavoro che la batteria del portatile mi ha concesso – ho intravisto un bel film, The Fabelmans di Spielberg. Parla di com’è crescere con una passione artistica di cui non puoi fare a meno, persino quando ti isola dagli altri e ti rovina la vita, persino quando hai continuamente il dubbio che faresti meglio ad ammazzarla. Ed è proprio così: alla fine, quando ti esce la scimmia dell’arte – o quando finalmente, dopo averla repressa a mazzate per cinquant’anni, le lasci mettere la testa leggermente fuori dalla tasca del cappotto – capisci che tu non potrai smettere di inseguirla, che caccerai la scimmia giorno e notte con il fucile, con le pietre, con le mani, e non la catturerai mai, mai e poi mai, ma non potrai più evitare di farlo, anche se la tua mira fosse ridicola, anche se nessun altro al mondo fosse mai interessato a vederne il cadavere, anche se tu fossi l’unica persona rimasta sul pianeta.
(Calligrafia di YÅ«ma Oki; i kanji, “saru” e “ka[ri]”, me li diede l’anno scorso il mio yamatologo preferito, Massimo Soumaré.)