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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


domenica 31 Agosto 2008, 09:17

Tomtom all’africana

Siete all’aeroporto di Maputo.

Imboccate corso Accordi di Lusaka. Proseguite diritto per quattro chilometri, attraversando piazza degli Eroi Mozambicani.

Alla rotonda che incrocia con corso Mao Tse Tung, girate alla seconda uscita in corso della Guerra Popolare.

Al quinto incrocio, girate a sinistra in corso Eduardo Mondlane.

Proseguite diritto senza girare, attraversando nell’ordine: corso Karl Marx, corso Olof Palme, corso Vladimir Lenin, corso Amilcare Cabral. Svoltate a sinistra in corso Salvador Allende.

Alla prima a destra, svoltate e poi imboccate la terza a sinistra. Siete ora in corso Kim Il Sung. Proseguite diritto fino all’incrocio con il secondo grande corso: ecco, lì a sinistra c’è l’ambasciata italiana.

Ora, invece, svoltate a destra e scendete sul mare dal lato destro. Proseguite sul corso Marginale, il lungomare: questo vi permetterà di arrivare fino al centro città.

Passate sotto lo svincolo di corso Friedrich Engels: siete ora in piazza Robert Mugabe. Benvenuti nel centro di Maputo!

[tags]viaggi, mozambico, maputo, comunismo, africa[/tags]

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domenica 24 Agosto 2008, 17:39

Bilancio olimpico

Le Olimpiadi sono finite, e dopo i commenti ai telecronisti, agli sport minori e su Cina e Tibet volevo chiudere con qualche commento sugli italiani (di cui già segnalammo l’olimpicità); e scegliere le mie immagini olimpiche.

Ce ne sono tante che meritano un ricordo, cominciando dalla bella e sfortunata (ma comunque argentea) gara di Davide Rebellin nella prova di ciclismo il primo giorno, nello scenario mozzafiato delle montagne attorno alla Grande Muraglia. E poi, l’oro sofferto fino allo spareggio finale di Chiara Cainero; il bronzo in grande rimonta nel K2-1000; l’argento miracoloso nel taekwondo; la commovente medaglia di Josefa Idem alla settima olimpiade – un non-oro solo per quattro millesimi – davanti ai suoi bimbi già cresciuti, con tanto di intervista in cui lei a metà interrompe la frase di botto per girarsi e dire ai figli di stare bravi e che è arrivata zweiten. Ma due sono le immagini italiane che più mi sono rimaste impresse.

La prima non è una medaglia: è la semifinale dei 1500 metri uomini in cui correva il nostro Christian Obrist, subito definito “senza speranza” perché passavano in cinque e c’erano almeno dieci atleti più forti di lui. Lui si è messo dietro agli africani, è rimasto per quasi tutta la gara aggrappato coi denti in fondo al gruppo e quasi staccato, poi nell’ultima curva ha visto la luce e se li è rimangiati tutti, uno dietro l’altro, arrivando quarto e qualificato in volata. Alla fine nemmeno lui sapeva cosa aveva fatto e come l’aveva fatto, è rimasto cinque minuti a piangere in pista cercando di capirlo: uno di quei miracoli dello sport in cui nella tua testa scatta qualcosa che ti permette all’improvviso di superare i tuoi limiti, e di lasciar muovere il corpo da solo in modo impossibile, come il calabrone che non potrebbe volare ma non lo sa e lo fa lo stesso. In finale è arrivato ultimo, ma non importava più.

Il simbolo sportivo italiano di queste olimpiadi, però, sono indubbiamente loro: Francesco Damiani e i suoi ragazzi. Il pugilato, in Italia, era sport dimenticato, e in più guardato regolarmente con la puzza sotto il naso, come un residuo di tempi andati in cui nella vita era ancora richiesto di menarsi per strada ogni tanto, e in cui la violenza, anche controllata, attraeva gli spettatori invece di respingerli. E invece, dopo una settimana e mezzo di atleti fighettissimi ed atlete imbellettate, che si presentavano sui campi come fosse una sfilata, già pronti a rilasciare l’intervista della medaglia prima ancora di vincerla (spesso poi fallendo miseramente), e interessati più a discettare di tasse e di politica che alla loro prova, vedere questi ragazzoni ruspanti, un po’ tamarri e un po’ terroni, ha fatto bene al cuore.

Intanto, s’è riscoperto questo sport, che sport è sul serio: perché non c’è mica solo da menarsi (anzi, le risse e gli abbrancamenti si son visti molto di più nel taekwondo o nel judo) ma c’è velocità, tattica, tecnica, intelligenza, resistenza, spettacolo, e tanto, tantissimo cuore. E’ stato incredibile vedere i nostri pugili contro bestioni grossi il doppio di loro (e va detto che i nostri non sono piccoli, anzi) girargli attorno come zanzare fino a tirargli un cazzottone dritto sul mento. E’ stato ancora più bello sentire Damiani fargli da secondo papà, e in quei venti secondi tra un round e l’altro incoraggiarli se erano giù, cazziarli se erano mosci, applaudirli se erano stati bravi, sempre urlando senza respiro come fosse il mitico Roberto Da Crema. Un oro, un argento e un bronzo, su sei atleti presenti, è un risultato da incorniciare: e dato che la boxe è anche lo sport che toglie i ragazzi dalle strade di Cinisello Balsamo (come Cammarelle) o dell’immenso degrado campano (come Russo e Picardi), è anche un segno di riscatto sociale; alla fine, rende di più l’Italia ignorante ma vera, che quella evoluta e montata.

Comunque, sono davvero tanti gli italiani che hanno deluso. La scherma e il canottaggio hanno reso decisamente meno del solito; la ginnastica ha subito un tracollo totale; l’atletica è ormai inesistente; degli sport di squadra meglio non parlare, uno peggio dell’altro e zero medaglie, nonostante in svariati casi partissimo da favoriti per l’oro: centinaia di biglietti aerei che ci potevamo risparmiare. Alla fine è andata peggio di Atene, ma nel medagliere siamo comunque noni e davanti a Francia e Spagna: tanto male non è, ma non tutti possono cantar vittoria.

Nonostante questo, qualcuno ha sentito parlare di sconfitte, delusioni, ammissioni di colpa o di semplice superiorità altrui? Io no. Se c’è una cosa triste in questa Olimpiade sono i tanti, troppi atleti italiani che hanno deluso e poi, invece di fare autocritica, hanno cercato di scaricare le responsabilità sulle giurie, sul clima, sulla sfortuna, sulla cabala e su qualsiasi cosa purché non su loro stessi, in questo purtroppo appoggiati dai commentatori Rai, per i quali ammmettere che un italiano ha perso meritatamente o che qualche nostra federazione sportiva sia in mano a raccomandati incompetenti (anzi, più di qualche) pare impossibile, e così giù di titoli e frasi come “argento che vale un oro†o addirittura “quarto posto che vale un oro†e in qualche caso “eccezionale quattordicesimo posto†(?!?).

Può essere che in qualche caso gli atleti di casa siano stati un po’ favoriti dalle giurie e dall’organizzazione rispetto ai nostri, ma questo fa parte del gioco e succede in qualsiasi Olimpiade: basta confrontare il numero di medaglie vinte dalla Grecia quattro anni fa ad Atene con quelle vinte qui o a Sydney 2000. Del resto, quando noi ospitammo i mondiali di atletica a Roma nel 1987, truccammo clamorosamente i risultati del salto in lungo per far vincere la medaglia al nostro Evangelisti

Però, da qui a dire che gli italiani erano fortissimi ma hanno perso perché c’è un complotto internazionale contro l’Italia ce ne corre. Vorrei infatti chiudere con quello che ha detto sbottando Simone Collio (centometrista) nell’intervista a caldo dopo la semifinale della nostra staffetta 4×100, squalificata facendo entrare in finale la Cina. I commentatori Rai (l’ineffabile Bragagna) per cinque minuti hanno montato il caso attaccando la Cina e le giurie. Alla fine, Collio è esploso e gli ha fatto notare che la squalifica ci stava perché noi avevamo fatto un cambio irregolare, e che la brutta prestazione, se mai, era dovuta all’incompetenza dei dirigenti dell’atletica italiana, che ogni anno cambiano allenatori e quartetti delle staffette in base alle amicizie e alle pressioni politiche, impedendo agli atleti di affiatarsi e di costruire una staffetta credibile.

Non so cosa succederà a Collio; essendo in Italia, credo che cacceranno lui invece che i capi dell’atletica.

P.S. Ci sarebbe anche da parlare dei non italiani; solo oggi, c’è stato un Usa-Spagna stellare come finale di basket, una partita incredibile con la Spagna ancora in gara a un minuto dalla fine, a forza di bombe e schiaccioni in faccia a Bryant e soci. E poi, entrambe le cerimonie, con alcuni momenti bellissimi: il conto alla rovescia in quella iniziale, e la torre con i fiori umani e i nastri volanti in quella finale. Intanto, i londinesi mi hanno già fatto godere, perché nel loro segmento della cerimonia di chiusura hanno pensato bene di esibire il paesano Jimmy Page, con tanto di chitarra dal vivo, in Whole Lotta Love. Pechino e Londra unite dai Led Zeppelin: yo, fratelli di rock.

[tags]olimpiadi, sport, pechino, italia, boxe, atletica, rai, led zeppelin, londra[/tags]

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sabato 23 Agosto 2008, 11:37

Dalai chi?

Sapete che sulla questione relativa a Cina, Tibet e diritti umani ho il mio punto di vista, che non è particolarmente allineato con il pensiero unico che ha dominato i giornali e i blog italiani negli ultimi mesi. Mi sembra che troppi in Italia – dove, solo in quest’ultima estate, sono stati assolti o quasi i poliziotti che avevano sequestrato e massacrato di botte gli oppositori politici del nostro governo a Bolzaneto, si sono moltiplicate le retate di stranieri e gli attacchi razzisti ed è stata intensificata l’attività di filtraggio di siti Internet – utilizzino la questione dei diritti umani in Cina per sentirsi più buoni, e per evitare di guardare in casa propria; da parte dei politici, poi, cavalcare i sentimenti anticinesi è un buon modo per distrarre l’opinione pubblica, e magari trovare anche un comodo capro espiatorio per il fallimento economico del nostro Paese.

Comunque, ricordate le settimane che hanno preceduto le Olimpiadi? Sembrava che si stesse andando in guerra: non passava giorno senza che i giornali italiani si interrogassero su come dovessero comportarsi i nostri atleti, riportando gli appelli di politici e intellettuali al boicottaggio e alla protesta. Per un po’, il Dalai Lama ha avuto sui nostri media quasi lo stesso spazio del Papa: bastava che ruttasse e finiva in prima pagina. Le previsioni erano apocalittiche: si anticipavano grandi manifestazioni represse nel sangue, censure continue alle riprese televisive, gare continuamente interrotte dalle proteste e atleti squalificati per aver espresso le proprie opinioni. In più, per buona misura, si prevedeva anche che gli impianti sarebbero stati deserti causa mancanza di cultura sportiva dei cinesi, e che atleti e spettatori sarebbero soffocati per l’inquinamento.

La realtà, ovviamente, è stata ben diversa, cominciando dalla cerimonia inaugurale che nessuno ha boicottato – tranne Berlusconi perché non c’aveva voglia – e che tutto è stata meno che la celebrazione di un regime, lasciando con un palmo di naso tutti i critici che erano lì pronti a gridare alla scandalosa autocelebrazione della dittatura (sono comunque riusciti a criticare lo stesso la cerimonia per il motivo opposto, “non c’erano Mao e il comunismo”). Anzi, la cerimonia ha cercato di comunicare tutta la diversità e la profondità della Cina, con l’esibizione dei bambini delle diverse etnie (Tibet compreso) e facendo notare che la cultura cinese è ben più complessa di un mezzo secolo di comunismo.

Per il primo paio di giorni qualche protesta c’è stata, da parte di gruppi di due o tre esagitati che si sono pagati il biglietto aereo da Londra o da New York per sventolare uno striscione e finire presi a lazzi, a sputi o a schiaffi – a seconda dell’umore – nemmeno dalla polizia, ma dai passanti cinesi che si trovavano lì in quel momento. Per il resto, le gare sono state belle, l’aria pulita – spesso con tanto di cieli azzurri – e gli stadi quasi sempre pieni e calorosi, con ovvia preferenza per gli sport popolari tra i locali. Nessun atleta si è sognato di protestare in gara, esattamente come dovrebbe essere in un’Olimpiade, dove persino russi e georgiani hanno gareggiato insieme in giorni di vera guerra senza andare mai oltre qualche mala parola; il massimo scandalo, a parte qualche caso marginale di doping, è stato lo svedese che ha gettato via il bronzo alla premiazione per protesta contro l’arbitraggio. Ciò nonostante, nelle interviste gli atleti hanno detto ciò che volevano e nessuno li ha limitati; alcuni hanno ribadito le critiche della vigilia, altri si sono resi conto che, tutto sommato, la Cina non era poi così brutta come la si dipinge.

Il terrorismo c’è stato, ma non è avvenuto in Tibet; sono stati gli uiguri, etnia turcofona dell’estremo ovest della Cina, anch’essa indipendentista ma che, non essendo foraggiata dagli americani ed essendo addirittura musulmana, non trova altrettanto spazio sui nostri media.

All’inizio, il Dalai Lama ha elargito sante parole di pace: ha fatto gli auguri e i complimenti alla Cina, e si è messo ad aspettare. E non è successo niente: dopo tre giorni, i giornali parlavano solo più di gare e di successi sportivi. Dopo la prima settimana, il Tibet era al massimo un asterisco in fondo alla generale ammirazione per la riuscita delle Olimpiadi; niente proteste e niente clamore, anzi quel poco di esposizione da violenza che c’era se l’erano fregato gli uiguri di cui sopra e pure Putin e Bush nel Caucaso (dove, incidentalmente, l’offensiva georgiana contro gli independentisti osseti ha fatto in pochi giorni cento volte le vittime degli scontri etnici di Lhasa a marzo). E’ chiaro che così non andava bene.

Così, nella seconda settimana il Dalai Lama ha cambiato tono, e ha cominciato ad alzare la voce. Nessuno però sembrava più interessato, e così Sua Santità si è ridotta a un vecchio trucco da politico democristiano: l’intervista bomba con smentita. Mercoledì, infatti, è andato a dire a Le Monde che i cinesi avrebbero appena ucciso 140 persone in Tibet sparando sulla folla. I politici, i bloggherz – segnalo in particolare l’ineffabile Adinolfi – e i media allineati gli sono subito andati dietro, montando il caso e indignandosi a comando. I giornalisti veri hanno alzato un sopracciglio: 140 morti? In un momento in cui la Cina è sotto gli occhi del mondo? Con migliaia di giornalisti stranieri in giro per il Paese e in attesa soltanto di un caso clamoroso da riportare?

Infatti, puntuale il giorno dopo è arrivata la smentita: scusate, non ho detto ciò che ho detto – ma intanto ha riconquistato le prime pagine, e ha reinnescato il meccanismo.

Riparte quindi l’italico teatrino: primo La Russa, che dalla sua poltrona romana invita di nuovo gli atleti italiani a protestare. Ma il meglio lo dà Margherita Granbassi, schermitrice italiana appena ritornata da Pechino con una medaglia di bronzo.

La Granbassi, dopo aver passato una settimana a chiedere di non pagare le tasse, cambia argomento e passa al Tibet. Esordisce dicendoci che avrebbe volentieri boicottato le Olimpiadi (però non l’ha fatto). Quindi, dopo essere andata, aver gareggiato, aver preso la medaglia e aver avuto il suo momento di gloria senza minimamente fare nulla per il Tibet, torna in Italia e solo allora si ricorda di dire agli atleti italiani che sono ancora a Pechino che (loro) devono protestare. Aggiunge che le Olimpiadi sono state uno scandalo e che addirittura sono stati utilizzati lavoratori schiavizzati e sfruttati per realizzare le medaglie (tra cui la sua di bronzo che si tiene ben stretta al collo).

Eccezionale, infine, è l’accusa alla televisione cinese (con due settimane di ritardo) di censura dello striscione (nemmeno legato al Tibet) da lei esibito nella cerimonia inaugurale, quando la regia televisiva è internazionale e quando è noto che durante la cerimonia di apertura è vietato esibire qualsiasi cosa che non siano le bandiere nazionali, figuriamoci il classico lenzuolo “ciao mamma” scritto a pennarello, che peraltro solo un italiano potrebbe avere l’idea di sventolare in una simile occasione senza sentirsi ridicolo.

A quel punto, qualcuno deve averle fatto notare che parlare è facile ma forse è anche il caso di agire di conseguenza, e lei ha provveduto: oggi annuncia che donerà al Dalai Lama la sua maschera di gara. Addirittura! Che durissimo gesto di protesta! Di restituire la medaglia, naturalmente, non se ne parla nemmeno.

Ora, di fronte a un simile miracolo di ipocrisia – in buona fede, ma pur sempre ipocrisia – che cosa si può dire? Il problema del Tibet esiste; anzi, è possibile che ci siano stati veramente degli scontri, così come è possibile che in extremis qualche protesta avvenga anche all’Olimpiade. Il problema del Tibet, però, è lo stesso dell’Ossezia, del Kosovo, della Cecenia, dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi, del Kashmir, del Kurdistan, insomma di qualsiasi parte del mondo dove si trovino due etnie diverse che non riescono a vivere insieme (o, più spesso, che includono minoranze estremiste che non vogliono vivere insieme). In questi casi, gli scontri, le provocazioni e le violenze avvengono sempre da entrambe le parti; quando questi problemi si sono risolti senza lo sterminio o la cacciata di una delle due etnie, è perché le due etnie hanno isolato gli estremisti e hanno imparato ad accettarsi e a convivere.

Per questo motivo, quando l’Occidente prende nettamente le parti di una delle due etnie – spesso per via di interessi geopolitici, economici e militari, come in Kosovo e in Ossezia – fa quasi sempre danno; molto più utile è comportarsi con moderazione e tenere aperto il dialogo con entrambe. Ma fallo capire all’italiano medio.

[tags]cina, tibet, diritti umani, dalai lama, olimpiadi, la russa, granbassi[/tags]

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venerdì 22 Agosto 2008, 11:28

Tutti gli sport olimpici che non avremmo mai voluto vedere

Ecco una piccola guida agli sport minori: quelli che, alle Olimpiadi, non si capisce bene cosa ci facciano.

Beach volley. Fu introdotto alle Olimpiadi di Atlanta e già per questo motivo dovrebbe venire qualche dubbio. Comunque, è uno sport dimenticato, dagli alti valori tecnici e umani, che merita la più ampia promozione; o almeno così sembra aver deciso la Rai, che tagliuzza o oscura le partite dell’Italia calcistica, pallavolistica o pallanuotistica, ma non si è persa un Brasile-Georgia di beach volley. A qualsiasi ora, sugli schermi degli italiani c’era un pezzo di spiaggia nel centro di Pechino con due culi di brasiliane in bella mostra: ah, il messaggio olimpico. Più preoccupante il fatto che, per metà del tempo, ci fossero in realtà due culi di brasiliani.

Triathlon, Pentathlon, Eptathlon…. Questi sport avevano senso cent’anni fa, quando si era tutti dilettanti. Al giorno d’oggi, per gareggiare decentemente su 200 metri di nuoto o 1500 metri di pista bisogna fare soltanto quello per dieci anni, per cui non si capisce che senso possa avere il riproporre, un paio di giorni dopo le rispettive finali di disciplina disputate a livello stratosferico, cinque o dieci eventi olimpici disputati alla carlona. Aggiungeteci che, essendo impossibile capire dalle immagini chi sta vincendo, è un evento emozionante come un rebus in cirillico: non stupisce che nessuno lo degni di uno sguardo, anzi che nello stadio dell’atletica, dopo che sono passati i multiatleti, esca lo staff di Usain Bolt a spruzzare il disinfettante.

Nuoto sincronizzato. Più che uno sport, è un numero da circo: infatti è talmente pregno di valori sportivi che, chissà come mai, esiste solo per le donne. Ecco, in effetti ho pensato ai giri di gambe del nuoto sincronizzato eseguiti con i tronconi pelosi degli atleti maschi: ora vado a vomitare. Nel frattempo, qualcuno dica al CIO che i film di Esther Williams sono fuori moda da almeno cinquant’anni; e lo dica anche alla Rai, che ha trasmesso tutte le gare dall’inizio alla fine senza tagliarne nemmeno un secondo. Più che per sportivi, mi sa che ci prendono per allupati.

Badminton. Alzi la mano chi sa cos’è. Se non lo sapete, ve lo dico io: è una specialità imposta alle Olimpiadi da Al Qaeda, sotto minaccia di attentati, per fare in modo che Pakistan e Afghanistan possano vincere delle medaglie. Quest’anno gli è andata male, e per questo Bin Laden ha già mandato un ultimatum agli inglesi: dalle prossime Olimpiadi, si dovrà introdurre la specialità del getto del terrorista suicida, nelle categorie da 100, 500 e 1000 grammi di tritolo. Tre ori sicuri.

BMX. Vi ricordate quando da bambini venne la moda delle biciclettine con cui andare ai giardinetti, schiantarsi contro un palo e finire al pronto soccorso? Ecco, ora è sport olimpico. Pare che, dalle Olimpiadi di Londra, gli affiancheranno anche le evoluzioni in altalena e la copiatura del compito in classe.

Canoa canadese. E’ una presa per il culo del canottaggio e della canoa insieme, in cui gli atleti si mettono nella posizione di Maciste quando, con un ginocchio per terra e l’altro piegato, si aggrappa alle colonne del palazzo del cattivo centurione Caio Giulio Stronzolo e le tira giù; dopodichè cominciano a pagaiare furiosamente come se stessero spalando quintali di merda, mentre la canoa si muove di un millimetro alla volta. E’ una tortura per gli atleti e anche per il pubblico, perché vedi questo sforzo immane e vorresti dirgli “ma siediti e mettiti comodo, dai!”. Si parla di sostituirlo con una prova in cui gli atleti devono svuotare dall’acqua il campo di gara del canottaggio con un cucchiaio.

Taekwondo. Vabbe’, come si può presentare uno sport il cui nome fa rima con “scrondo”? Sostituitelo con la boxe thailandese, almeno si vede un po’ di sangue.

Equitazione. E’ lo sport in cui fanno correre dei cavalli su un percorso ad ostacoli aspettando che si schiantino, in modo da poter poi riassumere il tutto in stacchettini buffi di cinque secondi da mandare tra una partita di beach volley e una gara di nuoto sincronizzato. Almeno, questo è ciò che pensa la Rai.

Ping pong. O meglio, tennis tavolo, come lo chiamano i diversamente abili e gli operatori ecologici. Ma noi, che abbiamo sempre giocato a ping pong nei pomeriggi di vacanza faticando a tenere la palla in campo per più di tre colpi, restiamo sempre ammaliati da questi minuscoli cinesi che giocano a qualcosa che, rispetto al nostro gioco, ha in comune soltanto il nome e le regole. Certo, sarebbe più bello da guardare se ogni tanto si riuscisse a vedere la pallina.

Tennis. Non so se ve lo ricordate; è quello sport che si pratica con due racchette su campi rossicci di terra e che in Italia è stato abolito negli anni ’80. Pare che alle Olimpiadi ci siano due o tre tizi che arrivano con un aereo privato, affittano un castello, poi vengono portati con una Rolls-Royce sul campo rossiccio dove prendono a pallate in testa un egiziano qualsiasi, e infine ricevono una medaglia d’oro o d’argento, come premio al loro sportivo dilettantismo. Loro le mettono lì in bacheca, accanto alla foto dei loro primi dieci milioni di dollari, e risalgono sull’aereo privato. Perlomeno, il calcio ha il buon gusto di mandare gli juniores.

P.S. Non c’entra molto, ma – anche se ne abbiamo già parlato – vorrei segnalare i “giornalisti” Rai che stamattina hanno commentato la gara del K2-1000 maschile, dove c’era un equipaggio italiano qualificato col quinto tempo e presentato come “senza speranza”; infatti la gara è stata vinta da due tedeschi che a duecento metri dalla fine hanno tirato fuori un Evinrude da 200 cavalli, l’hanno appeso dietro alla loro canoa e hanno salutato tutti al doppio della velocità. Così i commentatori si sono esaltati e hanno passato tutto il finale di gara a gridare “Germania! Germania davanti alla Danimarca! Ecco arriva la Germania!” Poi, a gara finita da almeno dieci secondi, hanno aggiunto “E terzi… terzi…”; e solo allora, leggendo il tabellone, si sono accorti che terza era arrivata l’Italia, che a tre quarti di gara era quinta e che ha fatto una rimonta entusiasmante e incredibile, prendendo la medaglia per dieci centimetri (ho urlato persino io, anzi durante il finale si sentivano persino gli allenatori nostrani che gridavano dalla riva “Dai che prendete il bronzo!”, solo i commentatori non hanno notato nulla). Come ciliegina, hanno poi mandato un giornalista a intervistare i due appena scesi dalla barca, il quale ha esclamato con entusiasmo “Allora, avete onorato quella che è una delle barche storiche del canottaggio italiano!”, costringendo il neomedagliato a guardarlo storto e a correggerlo: “…canoa…”. Veramente senza parole.

[tags]olimpiadi, sport, rai, giornalisti, beach volley, pentathlon, nuoto, badminton, bmx, canoa, taekwondo, equitazione, ping pong, tennis, canottaggio[/tags]

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domenica 17 Agosto 2008, 13:23

La Rai massacra le Olimpiadi

Lamentarsi della Rai è uno sport nazionale; eppure, se basta aprire un qualsiasi blog, giornale o sito sportivo in questi giorni per leggere pagine e pagine di insulti alla nostra emittente di Stato, quindi qualcosa che non va ci deve pur essere; se mi passate la lunghezza, vi spiego le mie continue frustrazioni.

Diamogli pure l’attenuante che trasmettere in televisione una Olimpiade è difficile: quasi in qualsiasi momento si svolgono una decina di gare, e pur privilegiando quelle in cui vi siano italiani in gara (criterio già di per sé discutibile, ma comunque il più sensato in funzione delle aspettative degli spettatori, che per il 90% degli sport olimpici non sanno nemmeno le regole e arrivano al massimo a distinguere tra “quell’italiano lì” e “gli avversari”) capitano continuamente dilemmi orribili: trasmetto la scherma o la pallanuoto?

Per fortuna siamo nel 2008, e la Rai non è più limitata dai classici tre canali. In pratica, aiutata anche dal fatto che le gare si svolgono dall’alba fino al primo pomeriggio – fasce televisivamente non certo cruciali -, la Rai può dedicare alle Olimpiadi due canali: RaiDue (analogico e digitale terrestre) e RaiSportPiù (digitale terrestre e satellitare in chiaro), più otto diversi stream via Internet per coprire tutto il resto.

Sarebbe meraviglioso, se a gestire la programmazione non ci fossero gli ineffabili strateghi della redazione sportiva Rai.

Già, perché una persona sana di mente, quando ci sono due eventi contemporanei egualmente importanti, li manderebbe uno su un canale e uno sull’altro, magari mettendo su RaiDue gli sport più popolari e su RaiSportPiù – che comunque, tra digitale, satellite e Internet, è visibile dall’80% degli italiani – quelli un po’ più di nicchia.

Invece no: per metà del tempo, RaiDue e RaiSportPiù trasmettono la stessa cosa. Ma proprio la stessa! Qualcuno deve aver pensato che il target olimpico – che per la Rai apparentemente non è fatto di giovani, ma di vecchine col televisore in bianco e nero – non sia in grado di usare un canale digitale o satellitare: per cui, si manda un evento sul digitale, mentre su RaiDue si manda lo stesso evento, però in un riquadro che occupa due terzi dello schermo, mentre in un angolino c’è un altro riquadro minuscolo dove probabilmente sta venendo trasmessa l’altra gara importante del momento, solo che ci vorrebbe una lente di ingrandimento per individuare gli atleti e distinguerli dallo sfondo.

Dopodiché, su RaiDue comincia l’invenzione più assurda: il “ping pong”. Inteso non come disciplina olimpica (anche perché sulla Rai non si è vista manco mezza immagine del ping pong inteso come disciplina olimpica) ma come tentativo di trasmettere contemporaneamente due eventi, rovinandoli entrambi. Già, perché se tu sei preso da una partita di pallavolo nel suo momento clou, non è che di botto puoi resettare le emozioni ed appassionarti alla lotta greco-romana, e poi tre minuti dopo tornare sulla pallavolo (essendoti perso metà delle azioni migliori) e ritrovare l’eccitazione di prima, ma solo per altri due minuti, fino al successivo cambio di evento.

Facciamo l’esempio di ieri: in contemporanea si svolgevano una finale di consolazione della scherma, dove l’Italia avrebbe vinto il bronzo anche a mani legate, e il quarto di finale del calcio, Italia-Belgio a eliminazione diretta, chi vince è medaglia quasi certa, chi perde è fuori. Cosa avrebbe fatto una persona normale? Avrebbe mandato il calcio su RaiDue – ricordando che in Italia il pubblico del calcio è ampiamente superiore a quello di tutti gli altri sport messi assieme – e la scherma su RaiSportPiù.

Purtroppo, però, a RaiSport il calcio sta chiaramente sulle balle. Sarà che devono parlarne già per tutto l’anno; sarà che in questi giorni tutti i presidenti delle federazioni sportive italiane passano il tempo a sfruttare le proprie raccomandazioni politiche per ottenere che i propri sport minori – che, ricordiamo, si chiamano così perché di loro non frega niente a nessuno, anzi in certi casi non si capisce nemmeno come facciano a definirli sport – passino una buona volta su RaiDue. Sarà che i giornalisti Rai, invece di dedicarsi a fare servizio pubblico e quindi mostrare alla gente ciò che vuole vedere, si sentono aulici educatori che devono sfruttare il momento per far capire al popolo italiano quanto siano nobili la corsa nei sacchi olimpici o il tiro al piccione olimpico. Ma c’è, alla Rai, un evidente razzismo anticalcistico.

Già qualche giorno fa hanno stupito il Paese non trasmettendo Italia-Corea di calcio, per mandare invece in onda una interessantissima semifinale di spada tra un francese e un ungherese. Per mezz’ora tutta Italia ha zappato freneticamente su ogni canale disponibile, cercando di capire dov’era che davano la partita. Solo allora, dopo il primo milione di telefonate di protesta, alla Rai si sono degnati di mandare una sovraimpressione per dire che l’avrebbero trasmessa al termine della scherma; così, due ore dopo, hanno mandato in registrata non la partita, ma una sintesi, in cui ogni tanto, improvvisamente e senza avvertire, sparivano dieci minuti di gioco. Fine del servizio pubblico e italiani imbufaliti.

Si sperava che avessero imparato dai propri errori; e invece, niente. Ieri, qualche milione di italiani voleva vedere la partita, che è stata bellissima, combattuta, piena di colpi di scena, con cinque gol e due espulsi; e poi, ce n’erano una decina – tutti parenti delle atlete italiane in campo – che volevano vedere una finalina per la medaglia di bronzo dall’esito scontato (dopo due minuti l’Italia vinceva 9-2…). Comunque, avendo due canali, non c’è problema: si manda il calcio su uno e la scherma sull’altro, giusto?

No. La Rai ha mandato: sul digitale, solo la scherma; su RaiDue, un “ping pong” fatto di due terzi di scherma e un terzo di calcio. Per due terzi del tempo, a reti unificate andava in onda la scherma, che tra l’altro è lo spettacolo meno televisivo del mondo: ci sono due tizi bardati che saltellano per trenta secondi, dopo di che si buttano l’uno addosso all’altro e non si capisce niente, poi per quaranta secondi tutti guardano il soffitto mentre l’arbitro esamina la moviola, e poi l’arbitro dà un punto a uno dei due a caso, o più spesso dice “nulla di fatto” (ma in francese, che in inglese sarebbe troppo comprensibile) e si ricomincia. Forse Massimo De Luca e soci speravano di appassionare “a tradimento” gli italiani alla scherma; il risultato però è che gli italiani hanno passato il tempo a bestemmiargli dietro, mentre emozioni calcistiche di vario genere scorrevano via in un riquadrino per trasmettere invece su tutti i canali un arbitro che guarda un televisore. Invece che appassionarci, ora odiamo tutti la scherma: speriamo che alle prossime Olimpiadi la aboliscano, così magari ci faranno vedere la partita.

Ma non è un problema che riguarda solo il calcio: stamattina c’erano una eliminatoria di pallavolo, un quarto di finale di pallanuoto, e poi il canottaggio, con gare per la maggior parte senza italiani, e la vela. Pallavolo e pallanuoto sono tra gli sport maggiori in Italia, gli altri no; quindi si potevano mandare le due partite sui due canali e magari interromperle per qualche minuto per le sole finali di canottaggio degli italiani, mandando poi la vela alla fine, in differita ma per intero.

Invece no: il satellite è stato interamente dedicato al canottaggio; una mattinata piena di finali di sconosciuti e senza mezzo italiano, a parte un quarto d’ora, di uno sport che riscuote un interesse numericamente comparabile a Protestantesimo e dove quest’anno l’Italia ha pure fatto sonoramente schifo (altro che Abbagnale). Se calcoliamo cosa costa un canale digitale e satellitare, la Rai avrebbe speso di meno pagando il viaggio a Pechino a tutti gli italiani interessati alle gare.

Dall’altra parte, pigiati insieme, pallavolo e pallanuoto più pure un po’ di vela. Ora, la pallavolo è stata interessante fino al secondo set, poi le italiane sono chiaramente crollate, e comunque non c’era la qualificazione in palio. La pallanuoto, invece, è stata epica, con la zona medaglie in gioco, e l’Italia sempre a inseguire fino a raggiungere il pareggio su rigore a quattro secondi dalla fine, poi i supplementari tesissimi e la sconfitta finale ai rigori. Dunque, capito come girava, io avrei dato spazio alla pallanuoto e rimandato la fine del volley ad una eventuale differita; invece no. Avendo distribuito i minutaggi su RaiDue tra i vari sport col manuale Cencelli, mentre in piscina lottavano e prendevano pali noi ci siamo subiti lunghi periodi di brasiliane che schiacciano in faccia alle italiane con qualsiasi parte del corpo (oltretutto erano pure le uniche brasiliane brutte di tutto il Brasile). Poi, grazie a Dio, il volley è finito (non senza che ci avessero fatto vedere l’imperdibile punto del 25-16) e… è arrivato il canottaggio. Che già andava in onda sull’altro canale.

Allora, ancora ancora posso capire il farmi vedere la gara in cui gli italiani favoriti perdono ma prendono l’argento. Ma poi, hanno cominciato con la vela. Inquadrando un mare in tempesta dove non si vedeva niente. In una gara dove non si capiva nemmeno come facessero le classifiche, e l’Italia risultava una volta prima, una volta quinta, anzi no, forse è seconda, boh. A un certo punto si sono inventati il teatro dell’assurdo: per accontentare tutti, mandavano l’audio della vela ma le immagini della pallanuoto. Con il commentatore della vela che gridava “Ecco che scuffiano! Che immagini eccezionali in diretta!”, ma sullo schermo si vedevano i culi delle pallanuotiste che andavano a bordo vasca per il time-out, gli unici 60 secondi che si potevano anche non trasmettere.

La clamorosa rimonta finale delle azzurre in vasca si è vista sì e no per un terzo. Il secondo e decisivo supplementare non si è visto proprio, perché dovevano mandare in diretta, attenzione, non la gara di canottaggio, ma minuti e minuti di interviste finali con i nostri ansimanti che gridavano “Ciao mamma, sono arrivato due!”, che peraltro stavano già andando in onda sull’altro canale, e che era proprio fondamentale mandare in diretta anche su RaiDue. E poi, il finale della vela, con i due commentatori che dopo mezz’ora ancora non avevano capito una mazza di cosa stesse succedendo, e hanno gridato “Ecco! Arriva l’Italia, è argento, è argento!”, mentre le immagini mostravano solo la nebbia, e alla fine si è scoperto che l’Italia era quarta.

Bene, potrei andare avanti ancora per pagine – menzione speciale per l’idea di portare da Roma a Pechino ben otto editorialisti come Velasco e Chechi, apposta per farli parlare in diretta nello speciale di prima serata italiana ovvero dalle 3 alle 5 del mattino cinesi: immaginate che brio in trasmissione – ma mi fermo qui. Ci siamo capiti.

P.S. E Internet, direte voi? Almeno chi ha la banda larga potrà vedere quel che vuole, no? Beh, no: gli otto canali streaming funzionano solo con Windows Media, e comunque sono sempre piantati per mancanza di banda. Sul blog ufficiale, RaiSport ha scritto che “è colpa vostra perché vi collegate in troppi”. A nome del pubblico, scusate se esistiamo.

[tags]olimpiadi, sport, televisione, rai, pechino, raisport, “giornalisti”[/tags]

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giovedì 14 Agosto 2008, 15:01

Atlete

Ho scoperto un buon motivo per guardare le Olimpiadi: si vedono certe facce…

Ad esempio, stamattina una nostra atleta si è scontrata contro una brasiliana per il torneo di judo femminile categoria 78 kg. Solo che la brasiliana si è in realtà rivelata essere un ex trans ora divenuto orso bruno, con qualche grumo di capelli ancora appiccicato in testa, e una testolina minuscola su un corpo gigantesco a forma di sacco di patate da cinque quintali. Appena la nostra si è avvicinata, la brasiliana l’ha sollevata e l’ha scaraventata a terra, poi le si è rotolata sopra esclamando “Grunf”, con la femminilità di Bud Spencer quando, ai bei tempi, si arrabbiava.

Anche la finale del tiro è stata interessante. La nostra, che poi ha vinto l’oro, sembrava una sciampista della bassa veneta appena uscita dal parrucchiere, tutta in tiro come se stesse per andare a far compere alla profumeria Unix di Marostica (VI). Tra le avversarie, però, c’era una cinese con lo sguardo assassino; ma veramente assassino, tanto da terrorizzare anche attraverso lo schermo. Con un fucile in braccio, aveva negli occhi quell’espressione che diceva “sì, ho un fucile, ma anche se non ce l’avessi potrei accecarti con un colpo di kung fu, quindi strapparti la lingua e usarla per legarti le palle e poi staccartele a morsi”. Credo che io, fossi stato lì, le avrei data vinta la gara per il terrore; e invece è arrivata ultima. Ma pensa te.

[tags]olimpiadi, atlete[/tags]

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sabato 9 Agosto 2008, 18:52

La buona educazione

Supponete che sia da poco arrivato da voi in ufficio un nuovo collega. Viene da una famiglia umile ed è cresciuto nella miseria, ma ha faticato e ha fatto carriera, e da poco è riuscito ad abbrancare una posizione ben pagata. E’ un po’ spocchioso e primo della classe, però in fin dei conti è capace; ma non vi sta molto simpatico, un po’ perché vi conoscete poco e lui viene da un ambiente diverso dal vostro, e un po’ perché su di lui girano storie inquietanti, come il fatto che ogni tanto picchi la moglie.

A un certo punto il vostro collega annuncia di voler dare entro qualche settimana una grande festa per celebrare il fatto di lavorare ormai da alcuni mesi lì con voi e con un sacco di altra bella gente. E’ consuetudine che, un po’ a turno, qualche collega organizzi un party aziendale; certo, sulle prime alcuni storcono un po’ il naso all’idea che lo faccia questo tizio, e tra questi anche voi, ma alla fine accettate l’invito.

Dopodiché arriva il giorno della festa, e mentre voi mettete piede per la prima volta in casa sua, e lui è tutto orgoglioso di farvi vedere che bell’appartamento si è messo in piedi partendo dal nulla, voi non lo state nemmeno a sentire; mentre arraffate una birra, cominciate a gridare davanti a tutti: “Ehi, stronzo! Lo sappiamo che picchi tua moglie! Ti abbiamo fatto un favore a venire ma sei veramente stronzo!”. Poi, mangiucchiando le sue patatine, continuate a parlar male di lui con tutti gli altri, iniziando dalle foto della sua quinta elementare da cui evincete che, trent’anni fa, picchiava i compagni di classe; anzi, voi e i vostri colleghi più anziani formate un gruppetto in un angolo, isolando il padrone di casa in un angolino con qualcuno dei più giovani, e continuate a sparlarne per tutta la durata della festa, alla fine della quale, afferrando il regalino di benvenuto che lui vi ha porto all’ingresso, ve ne andate senza nemmeno ringraziare.

Ecco, questo non vi sembrerebbe un atteggiamento un po’ maleducato? Eppure è esattamente così che buona parte dell’Occidente si sta comportando con i cinesi in queste Olimpiadi: ha accettato l’invito e l’ospitalità, ma non perde occasione per offendere l’ospite.

I cinesi – tutti, dal primo all’ultimo, non certo solo il governo – vivono questa occasione come il proprio ballo dei debuttanti; il momento in cui possono dimostrare al mondo di avercela fatta, di essere riusciti a ridiventare una nazione grande e importante. Sanno che riceveranno critiche su ciò che ancora non va, ma si aspettano di ricevere con almeno altrettanta enfasi una pacca sulle spalle e un complimento per tutto ciò che sono riusciti a fare – e che è davvero stupefacente – in questi ultimi dieci anni: grattacieli, ferrovie, computer, razzi nello spazio, e centinaia di milioni di persone sottratte all’atavica miseria delle campagne per provare a costruirsi un futuro in nuove città tirate su in un attimo.

I cinesi si sentono in buona misura sotto esame; ma si aspettano che sia un esame oggettivo, non una bocciatura già pregiudicata. Invece, c’è il rischio che, dal loro punto di vista, gli ospiti occidentali si rivelino antipatici e prevenuti, lasciando in loro l’impressione duratura che siano irrimediabilmente stronzi e un po’ barbari proprio come, in Asia, si dice da decenni.

Tanto più che tutto questo accade a fronte dell’amico Putin che durante la cerimonia di apertura manda tank e bombardieri sulla confinante Georgia: e non una autorità occidentale che abbia detto mezza parola, non una bandierina o un girotondo a Piazza di Spagna. Tutti troppo occupati a essere maleducati coi cinesi?

[tags]olimpiadi, cina, russia, buona educazione[/tags]

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venerdì 8 Agosto 2008, 15:28

Nuovo cinema Lufthansa

Da qualche anno non vado quasi più al cinema; la mia principale sorgente di film appena usciti sono diventati i voli intercontinentali. Volevo quindi condividere qualche recensione di ciò che ho visto in questo viaggio.

All’andata, in realtà, non ho visto niente; avevo sonno e ho dormito per tutto il viaggio, e poi non c’era molto da vedere, a meno che non si fosse interessati a Gara di topa in costume, Scarlett Johansson contro Natalie Portman. Ho provato a dare una chance a Emmerich (L’alba del giorno dopo non era male) e ho fatto partire 10000 A.C.; il primo minuto era costituito da una carrellata panoramica, con una voce fuori campo che esponeva delle premesse di una banalità talmente irritante con una pomposità talmente ridicola che ho spento ed è finita lì.

E’ andata meglio al ritorno: mi sono svegliato e ho visto passare delle immagini assurde, una specie di partita a Super Mario Kart però con attori in carne e ossa e immagini super-realistiche in 3-D. Molti attori erano giapponesi e quindi ho pensato di aver beccato un qualche film locale; la trama era un fumettone impossibile sulle gare automobilistiche (fantastico il rally di Casa Cristo, ospitato in un piccolo principato europeo tra le montagne e il mare: solo un giapponese potrebbe trovare un nome del genere come parodia di Monte Carlo) e il montaggio compenetrativo stroboscopico era davvero incredibile, tanto che per i primi minuti ho avuto il mal di mare. Dopo qualche tempo però ho notato una tipa che sembrava tanto Susan Sarandon… e un vecchio panzone che era John Goodman coi baffi… e insomma, alla fine è venuto fuori che era Speed Racer, il nuovo film dei fratelli Wachowski. Merita, ma solo per vedere che anche alcuni occidentali riescono ad essere “oltre” come i giapponesi.

Subito dopo è passato Drillbit Taylor, una graziosa commediola con Owen Wilson che fa il fascinoso scavezzacollo (pare non sappia fare altro). Non passerà alla storia, ma per un’ora e mezza è stata piacevole.

Dopodiché, è arrivato l’ultimo film del programma: The Spiderwick Chronicles, un polpettone immondo e fastidioso che ho sopportato fino alla fine solo perché ero in volo da otto ore, non avevo più sonno e fare qualsiasi altra cosa avrebbe richiesto dello sforzo energetico. In pratica dovrebbe essere un fantasy-horror con acclusa morale e buoni sentimenti, se non fosse che la parte fantastica è originale come una maglietta di Giorgino Armandi, la trama non sta in piedi – mitico quando passano venti minuti a dirsi “ok, dobbiamo trovare Spiderwick” “sì è vero dobbiamo trovare Spiderwick” “oddio, come faremo a trovare Spiderwick?”, poi si mettono in cammino e quindici secondi dopo trovano Spiderwick – e la parte sentimentale è fotocopiata ed appiccicata con lo scotch. L’unico attore decente, Nick Nolte, compare per un totale di quarantacinque secondi e insomma l’unica cosa vagamente salvabile dell’intero film è la magliettina aderente della protagonista femminile.

Sarebbe finita qui, se non fosse che c’era ancora tempo e così, non annunciato, ci hanno messo su Kung Fu Panda. E’ due mesi che rido soltanto vedendo i manifesti che annunciano questo film in mezzo mondo; da “pandamonio” a “fenomeno pandanormale”, il panda Po è diventato una star prima ancora di comparire sullo schermo. (E di fronte a tutto ciò, con cosa risponde la Disney? Con un robottino che spala monnezza. Veramente!) Alla fine il film è proprio divertente, con alcune cose da applauso a scena aperta; forse non perfetto (ogni tanto il regista s’addormenta e il ritmo cala un po’) ma comunque decisamente la cosa migliore che mi hanno fatto vedere in tutto il viaggio.

[tags]cinema, 10000 ac, speed racer, spiderwick, kung fu panda[/tags]

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giovedì 7 Agosto 2008, 03:52

La storia vista dall’altra parte

Sono in partenza – domani mattina alle 6:30 devo lasciare l’albergo e andare a Narita per tornare indietro. Oggi ho perso un’ora alla stazione di Tokyo per capire come fare in anticipo il biglietto del Narita Express; se fare qualsiasi altro biglietto è semplicissimo, per i treni speciali non si possono usare macchinette e quindi mi toccherà fare la coda allo sportello (l’avrei fatta oggi ma non sapevo come comunicare che volevo un biglietto per il giorno dopo a una determinata ora…). Speriamo bene.

Nel frattempo ho scoperto un altro paio di cose interessanti. La prima è che anche in Giappone esiste il cielo blu; è apparso per la prima volta dopo otto giorni e in effetti è stato un po’ meglio, nel senso che il caldo faceva male alla testa (tipo 35 gradi e oltre) ma almeno c’era vento e non si soffocava.

La seconda è che, siccome dovevo già vedere Ginza e il palazzo imperiale, ci stava il tempo per un solo museo; vista la data, ho rinunciato al parco di Ueno e ho scelto lo Yasukuni-jinja, il tempio dedicato ai caduti per la patria sin dalle guerre civili di metà Ottocento; e l’annesso museo della storia militare del Giappone.

Nel tempio ero più fuori posto del solito; non c’era neanche mezza riga in inglese, nemmeno sulle mappe, e anche se non ero l’unico turista ho cercato di passare il più inosservato possibile. Ma il meglio è stato l’annesso museo, in cui, in venti sale, viene esposta con dovizia di particolari la storia militare del paese, partendo dall’epoca dei samurai (infatti ho visto esposte armature e spade davvero splendide).

Così, presto si arriva ai giorni nostri e si comincia a narrare: prima di come il Giappone, nel 1894, sconfisse la Cina per liberare la Corea e darle l’indipendenza, cosa di cui i coreani furono tanto grati che nel 1909 chiesero di propria spontanea volontà l’annessione al Giappone come colonia. Solo che pochi giorni dopo la vittoria contro la Cina i terribili russi dello zar si intromisero e, con la complicità delle altre potenze occidentali, obbligarono i giapponesi a restituire parte dei territori conquistati sul continente; ciò obbligò quindi i giapponesi a contrattaccare dieci anni dopo e sconfiggere i russi.

Dopodiché, nei decenni successivi, vengono riportati decine di “incidenti” in cui truppe giapponesi in vacanza in Cina vennero prese di mira dai cattivi nazionalisti, costringendo il Giappone a liberare la Manciuria e poi anche parti della Cina.

Dopodiché, per circa quattro grandi sale, si narra la seconda guerra mondiale, riportando ogni campagna e ogni battaglia con mappe, reperti, descrizioni e foto dei generali coinvolti (ci sono alcuni bellissimi oggetti, come un aereo-kamikaze e un siluro-kamikaze – sì, li facevano anche sottomarini). E poi, nell’ultima didascalia dell’ultima sala, c’è scritto qualcosa tipo “comunque, alla fine, gli Stati Uniti lanciarono bombe sul territorio giapponese, comprese due bombe atomiche: una a Hiroshima e una a Nagasaki. Così il Giappone si arrese.”. Punto. Fine del museo.

Cioè, non c’è nemmeno una foto, un oggetto, niente che riguardi le bombe atomiche se non quella frase e un paio di didascalie in piccolo di una frase l’una. Seguono solo cinque stanze (un quarto del museo) piene zeppe di migliaia di piccole foto di tutti i singoli militari giapponesi di ogni ordine e grado che sono onorati nel tempio.

Avevo già avuto qualche sospetto che certi argomenti fossero ancora tabù, tanto più se da descrivere in inglese e quindi agli occhi degli stranieri: ad esempio nel museo civico di Otaru si narrava per una intera parete del molo ferroviario sospeso sul mare, orgoglio della nazione, che fu costruito negli anni ’10 e svolse la sua funzione di carico delle navi con grande perfezione finché “it ceased to exist in 1945”. Anche qui, punto e fine spiegazione.

A ben pensarci, trattandosi di un museo di storia militare, credo che parlare e mostrare al suo interno la sconfitta sarebbe vissuto come un insulto ai caduti: il museo vuole onorarli e per il giapponese la sconfitta è il massimo disonore. Certo che – anche avendo letto l’ultimo pannello, che dice qualcosa tipo “le conquiste giapponesi non avvennero invano, perché cacciando gli occidentali e mostrando la potenza di un paese asiatico finirono per portare all’indipendenza di tutti i paesi dell’Asia, quindi l’indipendenza dei paesi asiatici è essenzialmente merito del Giappone” – si capisce perché i vicini abbiano spesso protestato contro la cultura storica dei giapponesi.

[tags]giappone, viaggi, storia[/tags]

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giovedì 24 Luglio 2008, 13:57

Cara Università

Cari sindacati dei docenti universitari, dei ricercatori, del personale tecnico e amministrativo, dei dottorandi e financo degli studenti di sinistra, scusate se commento il vostro documento relativo agli ultimi provvedimenti governativi in materia di Università e alla vostra reazione totalmente contraria.

Il commento non vi piacerà molto, ma forse vi può essere utile la reazione di un esterno che però segue l’università da vicino, vuoi per averla fatta non solo da studente ma anche da amministratore, vuoi per conoscere direttamente varie persone rimaste nelle pieghe della precarietà universitaria.

Molte delle rivendicazioni sono sacrosante e assolutamente sottoscrivibili; quello che però colpisce leggendo un documento come questo è la totale mancanza di autocritica. Parte dei problemi dell’università sono indubbiamente riconducibili a responsabilità del governo, alla mancanza di fondi e investimenti, a riforme un po’ dissennate tipo il 3+2 e così via; molti altri però dipendono direttamente dalla classe docente, dal personale tecnico, anche dagli stessi studenti.

Per esempio: in molte università si convive ancora con docenti che non si presentano a lezioni ed esami e non ne rispondono a nessuno; con insegnamenti obsoleti tenuti in vita solo per non eliminare i relativi posti di lavoro; con soldi spesi malissimo e servizi scadenti non per via della mancanza di fondi ma per via di incapacità organizzative, rigidità sindacali, malcostume vario; con concorsi che sono tutti truccati dall’inizio alla fine per volere preciso della docenza; con la moltiplicazione di cattedre, istituti, atenei semplicemente per moltiplicare stipendi e prebende. In questo documento non si menziona nulla di tutto questo, si dice solo “non toccate una lira dei nostri fondi e delle nostre prerogative altrimenti faremo le barricate”; una posizione totalmente conservatrice.

In una situazione dei conti pubblici che è quella che è, è indubbio che l’università possa trovare risorse soltanto eliminando i propri sprechi, spendendo meglio ciò che c’è e alleandosi con il privato; non ci si può aspettare che lo Stato, che pure nell’Università investe poco, possa allargare la borsa in questo momento storico, tanto più a fronte di risultati che accanto a punte di eccellenza vedono situazioni totalmente scadenti. Negli ultimi decenni sono stati creati Atenei in qualsiasi angolo del Paese, alcuni utili, molti però ridicoli, pieni di “figli di” e di raccomandati, di docenti i cui curriculum scientifici fanno ridere: tagliargli i fondi è un dovere, non certo un delitto.

E che “trasmissione della conoscenza” fa una Università quando non produce ricerca di livello internazionale, sforna laureati ignoranti che vanno a fare i disoccupati, non collabora con il sistema economico, non produce innovazione e si limita a vivacchiare a spese dello Stato? Siamo sicuri che tutte queste frasi non siano formule che vengono ripetute all’infinito soltanto per giustificare l’afflusso di soldi?

E come si fa a restare seri leggendo che gli aspiranti ricercatori emigrerebbero all’estero per mancanza di fondi e concorsi in Italia, quando sappiamo tutti perfettamente che quelli bravi emigrano all’estero perchè qui non trovano spazio dovendo lasciare la precedenza e le già scarse risorse ai raccomandati di turno, e comunque in molti casi finirebbero in un ambiente di basso livello scientifico che tira a campare e certo non favorisce la loro crescita professionale, anzi alle volte sega i più bravi perchè se no si vede troppo che ci sono anche i mediocri?

Io vorrei una Università che innovi, che si metta in gioco, dove chi lavora bene sia premiato e possa avere molte più risorse di oggi, ma dove chi lavora male o non lavora proprio vada a casa alla velocità della luce. Credo che o l’Università stessa si mette in questa ottica – protestando giustamente contro il disinvestimento e il disinteresse, ma anche proponendo qualcosa di nuovo, passando a logiche di spietata selezione meritocratica, cercando di affrontare dall’interno i propri problemi, puntando a fare meno cose ma più utili, meglio pagate e di livello più alto – oppure finirà comunque per affondare e per trascinare con se stessa il Paese, perchè sul fatto che l’Università sia centrale per la crescita di un paese sviluppato non ci piove.

Dov’è che sbaglio? Forse le carenze di cui sopra le vedo solo io? Perché nessuna di queste decine di organizzazioni sindacali sembra avere alcun problema con lo stato attuale dell’università, ma solo con i tagli di fondi? Qualcuno mi spiega o vivo in un mondo parallelo?

Mi scuso ancora per la passione, sono solo i miei due cent e non intendo offendere nessuno, se mai suscitare qualche riflessione.

[tags]università, ricerca, riforme[/tags]

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