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Archivio per la categoria 'Itaaaalia'


sabato 3 Gennaio 2009, 12:12

Potere e grandi opere

Tra la pila non molto spessa di libri che mi porto dietro per i periodi di vacanza, da qualche tempo c’era Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin che racconta la storia della tragedia del Vajont in modo giornalistico, dettagliando puntualmente, quasi giorno per giorno, la sequenza dei fatti che portarono al disastro.

L’ho letto ieri ed è molto interessante, non solo per il valore storico di testimonianza, per provare che tutti sapevano ma tacevano, che non si è trattato affatto di un disastro naturale ma del risultato dell’avidità e dell’incoscienza di industriali, tecnici e politici, perfettamente prevedibile ed evitabile. E’ interessante la lezione generale che se ne trae, sul rapporto tra potere e persone, tra centri e periferie, tra (presunta) modernità e tradizione, tra sviluppo e ambiente.

La cosa che più mi ha colpito leggendo quelle cronache è infatti stata la similitudine con tante altre cronache anche ben più recenti. I racconti sui carabinieri mandati dalla pianura a sorvegliare le preoccupate riunioni dei comitati valligiani o a espropriare con la forza i pascoli e i boschi necessari alla grande opera, o le testimonianze sui giornali democristiani o confindustriali che omettevano qualsiasi accenno ai pericoli del progetto ma pubblicavano continuamente paginoni per lodare l’ambizioso progetto fonte di sviluppo e di gloria nazionale, sono precisi identici ai racconti che trovate sui siti No Tav, che potete ascoltare da Venaus o dai presidi contro gli inceneritori, contro le discariche, contro la base americana, contro questa o quella infrastruttura decisa altrove per gli interessi di qualcun altro, e calata sulla testa di un territorio remoto dando per scontato che, in quanto remoto, esso abbia meno diritti di sopravvivere rispetto alla pianura, alla città, all’industria.

Naturalmente questo non vuol dire che tutte le grandi opere finiscano in tragedia o anche solo che siano tutte inutili e tutte esclusivamente finalizzate ad interessi economici privati; dimostra però come i meccanismi del potere siano sempre gli stessi, cioè una decisione presa in un palazzo da poche persone, sostenuta manipolando l’informazione, comprando a colpi di consulenze i dipendenti pubblici che dovrebbero vigilare e i tecnici universitari che dovrebbero valutare, e motivata pubblicamente con obiettivi di sviluppo, posti di lavoro e ricchezza, ma in realtà gestita badando soprattutto a massimizzare il profitto di chi la realizza, prima ancora delle ricadute positive per la collettività (qualora esistano).

Per questo mi ha fatto ancora più effetto vedere proprio in questi giorni su La Stampa – dopo la spaccatura del tavolo di discussione tra sindaci e governo – una serie di paginoni ancora sulla Tav, pieni di interviste al tecnico pro-Tav Virano (e se è tecnico vuol dire che è imparziale e degno di fiducia, no?), di sdegno di Chiamparino e Bresso, di illazioni sui fini elettorali della protesta, persino di aperte minacce del tipo “il PD non supporterà più le candidature dei sindaci No Tav” (nota: la SADE riuscì a superare l’opposizione locale alla costruzione della diga del Vajont quando acquistò a peso d’oro i terreni del sindaco di Erto, fino ad allora leader della protesta, dimostrando a chi resisteva che tutti erano in vendita).

In tutti questi paginoni, chili e chili di carta, La Stampa si è dimenticata di raccontare alcuni dettagli, per esempio che i rappresentanti dei sindaci della valle hanno lasciato il tavolo perchè Virano è andato a presentare all’Unione Europea un documento a nome anche loro che approvava il nuovo progetto della Tav, ma si era “dimenticato” di discuterlo con loro e di dirgli che semplicemente leggendolo lo stavano approvando. O che non sono i sindaci che hanno lasciato l’Osservatorio sulla Tav in un impeto di distruttività, ma lo stesso Virano che ha deciso di chiuderlo dimettendosi perché tanto i valligiani sono stati gabbati e il tavolo non serve più, badando bene però a rovesciare la frittata. Ma cosa volete che sia…

Per questo fa un po’ ridere vedere sullo stesso giornale un dibattito tra Meo e Mantellini (addirittura) sul tema “Internet, facendo circolare le informazioni, avrebbe potuto fermare Hitler?”. Sarà… vediamo se perlomeno Internet riuscirà a far circolare qualche informazione un po’ meno manipolata su ciò che succede nel giardino di casa nostra!

[tags]vajont, merlin, tav, no tav, la stampa, informazione, potere, grandi opere[/tags]

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sabato 20 Dicembre 2008, 17:39

L’acconto

Ieri mattina mi arriva una mail dal commercialista, che insieme agli auguri mi dice: guardi che entro il 29 dicembre deve pagare l’acconto IVA, le allego i conti. Apro e scopro che sono diverse centinaia di euro: quindi strabuzzo gli occhi e chiedo spiegazioni.

Già, perché va detto che l’IVA non è come l’IRPEF, per cui è normale avere un acconto. L’IRPEF è una tassa annuale, il cui ammontare può essere calcolato soltanto ben dopo la fine dell’anno a cui si riferisce; di fatto, è una tassa il cui debito con lo Stato concettualmente si forma man mano che ti entrano dei ricavi, ma che per forza di cose pagherai tutta con ritardo. A questo punto, mi sembra accettabile che lo Stato ti chieda già durante l’anno in questione un acconto, visto che tu comunque stai guadagnando e che alla fine dell’anno comunque dovrai pagare una cifra consistente; ha senso cominciare a pagarla durante l’anno e poi, alla scadenza, fare soltanto un aggiustamento. (Ha meno senso che l’acconto arrivi ad essere qualcosa come il 99% delle tasse dell’anno precedente, in modo che se per caso il tuo reddito scende tu vada a credito e debba poi aspettare un rimborso per anni e anni.)

Il problema è che questo discorso non vale per l’IVA: l’IVA è una partita di giro che ogni mese o ogni trimestre, a seconda della formula scelta, tu incassi dai clienti e subito versi allo Stato. Anzi, non è nemmeno così: la realtà è che tu emetti fatture che incasserai generalmente dopo tre, quattro, talvolta sei mesi, ma entro il 16 del mese successivo sei obbligato ad anticipare l’IVA allo Stato, e se per caso il cliente scappa senza pagare tu hai già anticipato dei soldi che non vedrai mai, se non compensando con anni di ritardo. (A fronte di questo, lo Stato ha persino il coraggio di obbligarti a pagare a fondo perduto l’1% di “interesse” se scegli l’IVA trimestrale: in pratica, siccome con l’IVA trimestrale mediamente trascorreranno 60 giorni invece di 30 tra la data della fattura e la data del pagamento IVA, per questo mese extra lo Stato pretende un interesse del 12,7% annuo, sempre su soldi che tu comunque non hai ancora incassato!)

Dunque, a fronte di una tassa che è una partita di giro, che senso ha chiedere un acconto? Acconto di cosa, esattamente? Perché è vero che a maggio, insieme alla dichiarazione annuale IRPEF, si fa anche una dichiarazione annuale IVA per chiudere i conti, ma se hai sempre fatto le cose regolarmente e non ci sono stati casini contabili il saldo da pagare è ovviamente zero. Se ti chiedessero un acconto basato sulla dichiarazione annuale IVA dell’anno precedente, come avviene per l’IRPEF, qualsiasi percentuale di acconto tenderebbe comunque a risultare zero.

Siccome però lo Stato ha continuamente bisogno di soldi, già dal 2001 ha introdotto questa meraviglia: in pratica, senza alcun motivo logico, a dicembre sei obbligato a pagare l’88% dell’IVA del dicembre o dell’ultimo trimestre dell’anno precedente, così, solo per dare un po’ di soldi allo Stato; soldi di cui poi potrai richiedere rimborso o compensazione una volta fatta la dichiarazione annuale diversi mesi dopo. E qui notate la maligna perversione: tradizionalmente, dicembre è un mese dove si fattura molto più della media, perché – come è successo a me l’anno scorso – si chiudono i conti di progetti e servizi annuali e magari ci scappa anche qualche bonus di fine anno per chi ha collaborazioni regolari (come? chi ha collaborazioni regolari dovrebbe essere assunto e non lavorare a partita IVA? grazie per la battuta). Di conseguenza, non solo chi lavora a partita IVA a Natale invece di ricevere la tredicesima la paga allo Stato, anticipando una consistente cifra di IVA su fatture di fine anno che mediamente incasserà ad aprile-maggio dell’anno dopo, ma dovrà rianticiparla una seconda volta l’anno dopo.

Tutto questo è pensato dando per scontato che chi lavora come libero professionista navighi nell’oro e possa venire spremuto come un bancomat ogni volta che vien voglia. Peccato che al giorno d’oggi la maggior parte dei “liberi professionisti” – in Italia, si dice, le partite IVA individuali sono ormai quasi dieci milioni, con un boom incredibile negli ultimi vent’anni – siano giovani precari dai redditi bassi, generalmente dipendenti travestiti da libero professionista.

E’ per questo che l’odio per il fisco e per lo Stato provocato dai loro atteggiamenti vessatori – odio che un tempo era limitato ai “padroni”, che si lamentavano ma intanto erano dotati di commercialisti maestri nell’elusione, e per questo era liquidato dal resto del Paese come “ma è giusto così tanto sono evasori e pieni di soldi” – ormai si espande a macchia d’olio dentro classi nuove, tra i figli trentenni della piccola borghesia, tra i giovani che un tempo sarebbero stati operai e ora sono operai delle aziende dell’informazione e invece di votare a sinistra, dopo aver pagato l’ennesimo acconto fiscale a fronte dello sfascio generale, votano Lega.

Io fossi nello Stato ci starei attento, perché qualsiasi azienda sa che, facendo regolarmente arrabbiare i propri clienti, prima o poi questi smettono di pagare; e dopo tutti questi acconti verrà un giorno la resa dei conti.

[tags]tasse, fisco, iva, acconto, precari, partite iva, professionisti[/tags]

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giovedì 18 Dicembre 2008, 12:58

Carriera

Una delle cose più divertenti dell’ascoltare regolarmente Radio Flash è il fatto che, ogni tot di tempo, passano le notizie e le pubblicità del circuito Radio Popolare.

Radio Flash, infatti, è la radio della sinistra torinese, quella riformista e moderna (pure troppo, visto che la casa madre Hiroshima Mon Amour è in pole position tra gli ammanicati per ricevere fondi pubblici quando ci sono da organizzare eventi musicali, e che la costruzione del loro nuovo fiore all’occhiello, il Teatro della Concordia di Venaria, fu bellamente appaltata alla famosa e onnipresente De-Ga). Su Radio Popolare, invece, circolano ancora le idee e gli slogan della sinistra tosta di un tempo: anticapitalista, antiamericana, antiberlusconiana talvolta al limite del ridicolo.

E così, sospesi da un pezzo i mitici spot dei Comunisti Italiani con Diliberto che parlava sopra un assolo di chitarra (si sa, bisogna attirare i giovani), circolano però con frequenza da mesi gli spot animalisti contro le pellicce, la caccia, la vivisezione e il consumo di carne. Di base, il rispetto degli animali è una pratica fondamentale su cui l’uomo ha ancora molto da fare; l’estremismo di questi spot, però, è da manuale, e, accompagnato a musiche drammatiche, testi lirici e richieste complicate (tipo “non scrivere sul modulo Unico il codice fiscale di un ente di ricerca che usa animali”), finisce spesso per generare risvolti involontariamente comici.

Quello che circola ora è relativo alla vivisezione degli animali, una pratica orribile che sarebbe da vietare completamente, salvo al massimo qualche caso estremo in cui è provatamente insostituibile a scopi sanitari. Lo spot, in un crescendo drammatico, arriva all’accusa più forte: queste ricerche (che “non sono scienza, ma vivisezione”) sono condotte “per interessi economici e di carriera”.

Che per la sinistra ortodossa l’economia sia il male è noto: in Italia, poi, si somma la doppia influenza dell’anticapitalismo marxista e della Chiesa Cattolica, per cui notoriamente il denaro è lo sterco del diavolo (il che spiega la discreta presenza al suo interno, oltre che di pedofili, anche di coprofili).

Qualche tempo fa, per esempio, ho conosciuto una persona di questo genere; spendendo la sua vita, con encomiabile impegno, tra un presidio anti-inceneritore e un gruppo d’acquisto solidale, mi disse che secondo lui bisogna smetterla di far lavorare la gente per le cattive multinazionali, nelle fabbriche, nei trasporti e in generale in attività economiche inquinanti, e farle invece lavorare per lo Stato, nella sanità, nell’assistenza agli anziani e ai lavori socialmente utili. Io, allora, ho provato ad obiettare che, a meno di grandi rivoluzioni nella nostra struttura sociale, magari necessarie ma non in vista a breve, i posti di lavoro pubblici esistono soltanto in quanto esiste una economia privata che genera utili, che possono essere tassati e rimpinguare le casse pubbliche; bene, questo discorso proprio non veniva capito. Si dava per scontato che esistesse da qualche parte una miniera di ricchi da tassare, naturalmente ladri perché nessuno può essersi arricchito onestamente e comunque la proprietà è un furto, e che tutti i problemi della società si potessero risolvere aumentando le tasse.

Per questo capisco che la frase “interessi economici” abbia una connotazione negativa così diffusa; ma perché devono essere negativi anche gli “interessi di carriera”?

E’ ovvio che ci siano nella nostra società fenomeni eticamente sbagliati, di persone che violano la legge o la morale pur di guadagnare di più, o che trascurano i propri cari per i propri obiettivi professionali (di solito queste ultime persone sono ampiamente punite dalla vita, anche quando riescono effettivamente a fare carriera). Ma perché deve essere sbagliato, tout court, il desiderio di fare carriera?

In pratica, siamo giunti in questi ambienti antagonisti al rifiuto puro e semplice del fare, del partecipare all’economia: il cittadino ideale è presumibilmente uno che sta seduto in un angolo a non far niente, anzi, a disprezzare quelli che pensano a sbattersi per migliorare la propria posizione, e di riflesso anche quella degli altri. Vive, immagino, grazie al “reddito di cittadinanza” o ad altri modi di ricevere del denaro grazie alla ricchezza prodotta da altri e senza doversi sporcare le mani.

Al di là della questione economica, però, è il rifiuto dell’aspirazione a una condizione personale migliore che fa spavento: perché è vero che questa aspirazione genera competizione, lotta, spesso infelicità e talvolta anche atti spregevoli, ma essa è da sempre il motore dell’evoluzione umana. Un sistema economico più umano, rovesciando le priorità collettive tra produzione e qualità della vita, è certamente necessario, ma non si può nemmeno pensare che la nostra società, con il suo livello di vita materiale così elevato, possa sopravvivere senza fatica e senza sbattimento.

[tags]economia, animalismo, sinistra, radio, pubblicità, vivisezione[/tags]

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martedì 16 Dicembre 2008, 11:47

Freesouls

Da qualche giorno è uscito Freesouls, il libro di ritratti fotografici di Joi Ito. Joi è ormai universalmente noto come uno dei massimi guru internazionali di Internet: inventore, investitore in praticamente qualsiasi startup di successo degli ultimi anni (che so, Flickr, Twitter, aziendine così) e promotore di molte delle grandi iniziative della rete, a partire da Creative Commons.

Quello che il mondo non sa – ma che voi affezionati lettori dovreste sapere, visto che ne avevamo già parlato – è che Joi è anche un ottimo fotografo: per questo ha pubblicato un libro con i ritratti di circa 250 grandi e piccoli personaggi della rete che ha incontrato in questi anni. Nel libro ci sono un po’ tutti, da Larry Lessig a Vint Cerf, da George Lucas a Gilberto Gil, da Jimbo Wales a Shawn Fanning. Ma non è tanto la fama dei personaggi ritratti (nonché gli annessi saggi da parte del gotha dei pensatori della rete) a rendere il libro interessante: è che sono proprio delle belle fotografie.

Poi bon, comunque la mia foto che c’è nel libro l’avete già vista, nel libro (credo – l’ho ordinato ma non l’ho ancora visto) è giustamente stampata in un angolino formato francobollo. Una parte di me, comunque, vorrebbe tirarsela; ma è prevalente la tristezza nel notare che gli italiani del libro sono solo tre – io, De Martin e Gaetano, che peraltro vive all’estero da decenni -, e questo dovrebbe far riflettere tutto quel circo di personaggi che sulla nostra rete si atteggiano a grandi guru dell’innovazione digitale, senza però aver mai avuto l’umiltà di andare a vedere cosa succede davvero nel mondo, né le capacità per avere un riconoscimento internazionale di qualche genere.

Io sarei solo contento se tanti altri dei nostri very important blogger, invece di chiacchierare all’infinito sui propri blog, si rimboccassero le maniche, venissero alle conferenze internazionali e riuscissero ad esporre qualche idea o qualche progetto innovativo e di valore assoluto, anziché una semplice ripetizione alla buona degli slogan che circolano in giro, talvolta senza averli nemmeno capiti. Ma è abitudine dell’Italia parlarsi addosso a lungo, spesso in modo interessato, e poi sparire quando i nodi vengono al pettine e c’è da dimostrar qualcosa.

[tags]fotografia, joi ito, freesouls, creative commons, internet, innovazione, blogger[/tags]

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domenica 14 Dicembre 2008, 16:17

Regali di Natale

È passata abbastanza sotto silenzio, la decisione coordinata di Comune e Regione di destinare un milione di euro di contributi pubblici a fondo perduto per rifare facciate e decori di parecchi palazzi privati in San Salvario.

Ovviamente, La Stampa l’ha presentata come una grande idea, ma è invece il solito copione: i nostri amministratori scelgono arbitrariamente dei privati a cui regalare dei soldi. Qui, poi, la cosa è ancora più odiosa, perché ad essere premiati con il regalo sono proprio quei privati che sono venuti meno al proprio dovere, a cui centinaia di migliaia di torinesi adempiono regolarmente con i propri soldi, di mantenere il decoro esterno della casa di loro proprietà. Insomma, è l’ennesimo premio a chi si è comportato peggio, abitudine culturale a cui la nostra ex sinistra (adesso non si sa bene che sia) non sembra proprio voler rinunciare.

Ma c’è di peggio: infatti, molte delle case di San Salvario sono di proprietà di individui senza scrupoli, che li affittano a caro prezzo, spesso in nero, ad immigrati anche irregolari, magari pigiati in sei in una stanza. Nell’articolo non si specifica quali siano esattamente le case in questione, ma si parla genericamente di un meccanismo per evitare il problema: “Ai proprietari andrà il massimo dell’aiuto economico, a chi specula sfruttando il degrado e l’emarginazione affittando tuguri alle fasce più deboli non arriverà un soldo”, dice l’assessore Ilda Curti. Peccato che questa frase non abbia alcun senso, visto che “chi specula sfruttando il degrado” è anch’esso un proprietario, altrimenti non potrebbe farlo; e quindi, non si capisce cosa succederà.

Resta il dubbio fondamentale: in genere, chi lascia andare un palazzo al totale degrado non è chi ci abita, ma chi affitta gli alloggi solo per soldi e cercando di massimizzare il profitto; è naturale quindi attendersi che i palazzi più degradati siano proprio quelli di chi specula affittando agli immigrati.

C’è però un dubbio ancora più serio: da anni, a Torino, si dice che la famosa De-Ga – l’azienda edile di cui abbiamo parlato in passato per aver ricevuto appalti pubblici privilegiati – abbia fatto i soldi acquistando vent’anni fa moltissimi alloggi nella zona del quadrilatero romano, proprio prima che l’allora sindaco Castellani – parente di uno dei soci della De-Ga – investisse abbondanti soldi pubblici nella riqualificazione della zona, facendo schizzare il valore degli alloggi stessi.

Bene, come toglierci allora il dubbio che qualche società di amici degli amici dell’attuale cupola cittadina abbia fatto incetta di alloggi a San Salvario in questi anni, in attesa dell’inevitabile gentrificazione dell’area, sostenuta con i soldi di tutti?

In generale, ha senso, davanti a un mercato immobiliare che per moltissime persone determina il valore di una parte preponderante del proprio patrimonio, che gli amministratori pubblici investano del denaro (non loro, ma nostro) a favore di certe aree e non invece di altre, al punto da sostituirsi a spese che sono per definizione di competenza dei proprietari?

[tags]torino, san salvario, riqualificazione, de-ga, contributi, politica[/tags]

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sabato 13 Dicembre 2008, 11:06

Lascia stare i boh

Visto che oggi è sabato e non ci legge nessuno, possiamo dedicare un post a uno degli argomenti più tabù che ci siano in Italia: la pedofilia nella Chiesa Cattolica.

L’occasione viene dall’articolo di cronaca de La Stampa che riporta a grandi lettere “SCAGIONATI”, a proposito di quattro preti accusati di molestie e pedofilia da parte di un loro ex allievo (da ragazzino) e poi ex prostituto a ore. L’articolo è un capolavoro di “informazione” all’italiana, di mezze verità e di giri di parole.

L’accusatore è Salvatore Costa, un ventiquattrenne che, buttato fuori di casa a quattordici anni, fu accolto dai preti; poi mise su famiglia, cominciò a guadagnare prostituendosi con uomini e per arrotondare ricattò questi preti. Quando fu arrestato per estorsione, rispose con le accuse di essere stato violentato da due preti sin da ragazzo, giustificando così anche la propria asocialità.

I primi tre paragrafi sono dedicati a buttare fango sull’accusatore (che peraltro, oggettivamente, deve essere un tipo poco raccomandabile): se ne scrivono di tutti i colori, cioé che si contraddice, che è un ricattatore professionista, che sembra uscire dai Miserabili di Victor Hugo, che è un irresponsabile e un questuante regolare. Probabilmente è tutto vero, ma in mezzo a questo viene nascosta la seguente, splendida frase, abilmente interrotta da un punto a capo:

Circostanze che hanno reso incerto che allora Costa fosse, in ogni caso, ancora minorenne. La procura non ha ritenuto di chiederne il processo anche per calunnia. E pure questo è un fatto significativo.

Vuol dire che Costa non è stato ritenuto sufficientemente credibile perché l’inchiesta nei confronti dei sacerdoti procedesse.”

In pratica, si dice, cercando di non farlo notare, che una delle ragioni per l’archiviazione è che non si è certi del fatto che gli eventuali rapporti siano avvenuti quando l’accusatore era ancora minorenne e costituiscano quindi un reato, visto che, in sé, la prostituzione omosessuale tra maggiorenni consenzienti è assolutamente legale. Insomma, scagionati, archiviati, ma non è detto che sia perché i rapporti sessuali in questione non siano mai avvenuti: l’articolo non ce lo dice.

In più, si dice anche un’altra cosa: che Costa non è stato denunciato per calunnia, e questo “è un fatto significativo”. Perché? Beh, perché se le sue accuse fossero state palesemente false, allora egli sarebbe incorso nel reato di calunnia, che avviene quando qualcuno davanti ai giudici “incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato” (art. 368 del codice penale). Se non c’è stato nemmeno il dubbio della calunnia, vuol dire che certamente Costa non ha inventato niente, che le cose che ha raccontato di aver vissuto sono vere; se mai, non costituiscono reato.

E invece, cosa scrive l’articolo? L’esatto opposto: “vuol dire che Costa non è stato ritenuto sufficientemente credibile”! Io ci ho pensato un po’, e poi ho capito: quel “vuol dire”, grazie al punto a capo, non è riferito alla frase precedente, ma a tutto il paragrafo, che racconta dell’archiviazione: quindi “l’archiviazione vuol dire”, mentre cosa voglia dire la mancata denuncia per calunnia non ce lo spiegano. Eppure, messo così, è fatto ad arte in modo da confondere le idee a proposito della mancata denuncia.

Se continuate a leggere, infatti, cominciate a scoprire alcune cosette che l’articolista non può non dirvi. Si parte dal primo prete, che ha ammesso “qualche abbraccio e carezza”, e subito si precisa che la cosa è confermata dall’accusatore e che non si è mai andati oltre; seguono poi due parametri per dimostrare che, comunque, la Chiesa ha già punito abbastanza quegli abbracci.

Del secondo, l’ex economo del Valsalice, ci dicono per prima cosa che è stato già trasferito a Roma, sempre per mettere bene in chiaro che il Vaticano non tollera queste devianze (da cosa, poi?). Solo dopo, stabilita la scomunica, ci spiegano che il sacerdote ha dichiarato apertamente di essere gay e di frequentare regolarmente prostituti a pagamento, ovviamente adulti. Ci dicono chiaramente che non è reato (strano, visto come i giornali trattano normalmente i gay, facendo sembrare reato anche solo girare senza maglietta su un carro allegorico) e che il fatto che abbia dato soldi e trovato lavoro a Costa “non vuol dire nulla” e non prova che ci sia mai andato a letto. A me, peraltro, questo prete che ammette le cose sta già simpatico, effettivamente non commette reati e perlomeno ha il coraggio di vivere la propria sessualità: in un ambiente pieno di sessuofobi non deve essere facile.

L’ultimo prete è quello che avrebbe violentato Costa da ragazzo; la procura ha indagato “con scrupolo” e ha provato che le date non tornano, e il prete non era a Moncalieri quando diceva Costa. Ovviamente non ci viene detto se sia che la violenza non è mai avvenuta, oppure che Costa ha indicato il prete sbagliato e non si sa chi sia quello vero.

Comunque, tutto a posto? No, perché proprio a questo punto, quando la maggior parte dei lettori ha già smesso di leggere da un pezzo, arrivano le ultime due righe, riferite a questo prete: “Nel suo computer erano passate immagini pedopornografiche. Un’accusa in più, anch’essa da archiviare: «Non è pacifico che la sola visione integri il reato».”

Scusa? Chiaro che qualcosa bisognava dire: tutti i giornali avevano messo in risalto, all’epoca, il reperimento di immagini pedofile sul PC di questo prete. E quindi, che ci dice La Stampa? Che era solo “un’accusa in più” (in mezzo a tutti i vaneggiamenti ricattatori di questo ragazzo, che però non sono calunniosi) e che era da archiviare perché… sì, il prete aveva l’hard disk pieno di immagini pedopornografiche, e le guardava regolarmente, immagino seduto sul divano fumandosi un sigaro, così per passatempo. Ma “non è pacifico” che il fatto di possedere e guardare immagini pedopornografiche sia un reato.

Alla buon’ora: personalmente, sono perfettamente d’accordo che guardare una immagine, di qualsiasi genere essa sia, non dovrebbe essere reato. Ma siamo nel Paese dove la Polizia Postale, mediante un semplice fax, può ordinare a tutti i provider di censurare un sito che non dico mostri queste immagini, ma addirittura parli della pedopornografia in termini non esclusivamente censori; nel Paese dove il semplice fatto che una bambina di pochi anni contragga una malattia sessuale simile a quella del padre è sufficiente per spezzare la famiglia, mandare madre e bimba in comunità e mettere lui sotto processo, anche se poi dopo anni si scopre che era soltanto colpa di un asciugamano condiviso. E poi mi venite a dire che potrei riempirmi il computer di pedofilia e pure guardarla regolarmente senza commettere alcun reato? Me lo segno, e la prossima volta lo dico a Vulpiani

Il problema della pedofilia è ovviamente gravissimo, ma attorno ad esso c’è una chiara isteria, fomentata da persone che “amano” i bambini (in genere senza averne) così come altri “amano” i cani, la Madonna, Ronaldinho, Tiziano Ferro o qualsiasi altra persona o categoria possa diventare un oggetto d’amore lontano, idealizzabile e privo di volontà indipendente, tale da soddisfare il nostro senso di incompletezza. Tuttavia, quando si passa a parlare di preti – e di preti pedofili, nonostante i media ne parlino il meno possibile, ne saltano fuori continuamente – magicamente tutto questo non è più un problema; anzi, bisogna essere comprensivi e garantisti ad oltranza.

Per fortuna, la Chiesa Cattolica è ben più di questo (tra l’altro colgo l’occasione per segnalare il blog di don Piero Gallo, che meriterebbe maggior seguito), ma si caccia nei guai da sola, con questo persistere nell’ignorare il naturale istinto sessuale dei propri membri; e se i preti non possono sfogarlo, come tutti gli altri, con una compagna o con un compagno adulto, finiranno necessariamente per sfogarlo con chi gli capita a tiro, partendo dai bambini dell’oratorio.

Personalmente, ai preti presunti santi che secondo la favoletta vivono cinquant’anni in castità grazie alla superiore forza della fede nel Signore, preferisco i preti boh come il secondo di cui sopra, che sopportando la vergogna e la discriminazione sul proprio posto di lavoro hanno il coraggio di vivere la propria sessualità. A questo punto, però, è davvero ora di chiedersi quando la Chiesa smetterà di produrre pedofili, omosessuali repressi e omofobi deviati; perché poi le conseguenze ricadono su tutta la società.

[tags]chiesa, cattolicesimo, preti, pedofilia, pedopornografia, omosessualità, repressione, sesso, polizia postale, prostituzione, informazione, la stampa, torino[/tags]

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venerdì 12 Dicembre 2008, 11:47

Te lo dico con le buone

Dunque, ieri il nostro Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è andato in Europa a protestare duramente contro i proposti impegni collettivi del continente contro l’inquinamento, il riscaldamento globale e le alterazioni del clima, rilasciando dichiarazioni come “è assurdo parlare di emissioni quando c’é una crisi in atto: è come uno che ha la polmonite e pensa di farsi la messa in piega”; in pratica, secondo Berlusconi, è essenziale difendere gli interessi delle nostre fabbriche pesanti – come se ne avessimo ancora, e come se il motivo della loro crisi fosse il non poter più inquinare impunemente, anziché l’incapacità di realizzare prodotti moderni ad un costo decente – e se nel frattempo i ghiacciai si sciolgono, i campi si inaridiscono, i tifoni aumentano e moriamo tutti, cosa volete che sia rispetto alla crescita del PIL?

Bene, proprio lo stesso giorno, Dio o chi per esso gli ha mandato: alluvione del Tevere a Roma, con un morto; a Firenze, l’Arno quasi ai livelli del 1966; in Sicilia e in Sardegna, mareggiate che hanno messo a rischio persino i traghetti; a Reggio Calabria, vento e pioggia fanno crollare un ponte, un altro morto; sull’Etna, otto boy scout bloccati da due giorni senza cibo in alta quota da una tempesta di neve; a Foggia, un fulmine fa cadere la linea elettrica su un Eurostar di passaggio che prende fuoco, rischiando la strage; persino a Monza, nota zona alluvionale, il temibile fiume Lambro ha rischiato di esondare, costringendo ad aprire gli argini nel parco per dare all’acqua modo di defluire.

Certo, alla fine sarebbe potuto accadere ben di peggio: insomma, per stavolta, la natura a Berlusconi l’ha detto ancora con le buone. Eppure, Silvio non ha fatto una piega: mi sa che la famosa barzelletta su Dio e Berlusconi – “Qual è la differenza tra Dio e Berlusconi? Che Dio non crede di essere Berlusconi” – ormai non è più una barzelletta.

[tags]ambiente, clima, inquinamento, europa, berlusconi, italia, maltempo, alluvioni[/tags]

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mercoledì 10 Dicembre 2008, 16:48

Un sabato No Tav

“Vittorio, anche tu No Tav?” mi ha chiesto sabato pomeriggio un mio vecchio collega di Politecnico, piuttosto stupito nell’incontrarmi davanti alla stazione di Susa mentre il corteo contro la Tav si chiudeva lentamente. Già, perché per anni sono stato un convinto sostenitore della grande opera, tanto da criticare pubblicamente le proteste; perché allora sabato sono andato fino a Susa a manifestare?

Prima di arrivare alla questione, vorrei raccontare dell’ottima impressione che mi ha fatto questo corteo: perché dopo aver tanto sentito parlare dei temibili No Tav, una delle ragioni che mi hanno spinto era la curiosità di vederli con i miei occhi. Sono rimasto colpito da alcune cose; non solo l’assoluta tranquillità di questo corteo, che si è limitato a fare un giretto attorno a Susa, bloccando le statali più che altro per assenza di altre strade, ma non disturbando affatto l’esodo del ponte verso le montagne; ma la totale assenza di strumentalizzazione.

C’erano, è vero, un gruppo di bandiere dei Comunisti Italiani e non più di un paio di bandiere rossonere della FAI, la Federazione Anarchica Italiana; per il resto, però, c’erano soltanto centinaia, migliaia di bandiere bianche, generalmente con la scritta NO TAV, qualcuna NO DAL MOLIN, alcune KEIN BBT (sono quelli del Brennero), varie NO TIR, un po’ contro gli inceneritori. Insomma, non era un corteo politico, organizzato da questo o quel movimento; era veramente un insieme di amici che si ritrovavano – persino io ho trovato i conoscenti più disparati, a partire da vari tifosi granata – e l’atmosfera era comunque festosa.

L’altra cosa che ha colpito è la dimensione del corteo. Quando siamo arrivati eravamo un po’ delusi, all’orario stabilito eravamo in pochi, alla partenza ci saranno state sì e no duemila persone, e durante il primo tratto il morale della folla era basso, con il leader Perino che passava a dire “siamo pochi ma buoni”. Alla fine, però, ci siamo fermati e abbiamo pensato di aspettare cinque minuti per vedere la coda: ebbene, continuava ad arrivare gente, e ancora, e ancora, e siamo rimasti stupiti da quanto si fosse ingrossato. Alla fine ci saranno state sicuramente almeno diecimila persone, forse di più, comunque parecchie di più dello sponsorizzatissimo corteo torinese per la Thyssen-Krupp (non che non fosse un corteo più che meritorio, ma l’analisi di come i giornali hanno trattato le cose mostra una evidente disparità: se la protesta è contro i tedeschi siamo tutti operai, ma se si toccano i poteri forti nostrani la cosa finisce in fondo alla pagina).

Allora, torniamo alla TAV: perché opporsi? Molti dei fattori che consideravo nell’analisi di tre anni fa non sono cambiati; e anche sabato, comunque, c’era del qualunquismo che circolava, un po’ di malcelato luddismo, la critica ai globalizzatori cattivi e il rimpianto dei bei tempi che furono, quando si poteva tutti essere operai in fabbrica a patto di lottare contro i malvagi padroni. A un certo punto hanno riesumato persino Piagnoletto!

Però, rispetto a tre anni fa ci sono delle novità: la prima sono le analisi economiche. Ne trovate sia di francesi che di italiane, riprese da lavoce.info ossia il sito di economisti liberisti più prestigioso d’Italia, insomma non una fanzine eco-leninista. Tutte dicono che l’opera non è giustificata né dalle necessità di traffico, né dai ritorni economici; che il traffico passeggeri è minimo e quello merci può essere tranquillamente assorbito dalla linea tradizionale con lavori molto più immediati ed economici. Non stiamo insomma parlando della Milano-Roma, dove il treno AV può sostituire l’aereo: tra Torino e Lione il traffico è molto minore, e i costi di costruzione sono molto maggiori.

Lo stesso punto di vista ambientale è ingannevole: è vero che investire in una ferrovia potrebbe servire a ridurre il numero dei TIR, anche se questo richiederebbe politiche di imposizione attiva, visto che questi spostamenti di modalità non sono mai avvenuti da soli; ma già ora la linea esistente è tutt’altro che satura, insomma non è che i TIR circolino perché non c’è il treno, ma perché non lo si vuole usare.

La seconda grande novità rispetto a tre anni fa, però, è che nel frattempo l’alta velocità ha cominciato ad esistere; e abbiamo potuto osservare alcune cose. Per esempio, il periodico comunista Il Sole 24 Ore riporta che in Italia l’alta velocità costa quattro volte più che altrove; che sia perché “ci mangiano” o perché le opere da fare vengono gonfiate in modo da tirare più cemento e quindi guadagnarci di più – guardate la quantità mostruosa di giganteschi ponti e massicciate realizzate sulla Torino-Novara, magari per stradine di campagna o per svincoli in mezzo al nulla – il risultato è che le aziende coinvolte si arricchiscono, mentre l’ambiente viene devastato e il bilancio statale viene prosciugato. E le aziende – Fiat, Impregilo, la Rocksoil di Lunardi, le cooperative rosse dell’Emilia – rappresentano il gotha del potere confindustrial-veltrusconiano: di destra, di sinistra e di centro, tutti associati per guadagnare dalla grande opera; Montezemolo ha già lanciato NTV, la nuova società ferroviaria che farà utili facendo sfrecciare i propri treni sui binari pagati da noi.

Il risultato, poi, qual è? Per ora, treni da 25 euro sola andata che viaggiano vuoti tra Torino e Milano, mentre i treni normali scoppiano; al punto che, per mantenere vivo il giochino dell’alta velocità, Trenitalia sta continuamente peggiorando i servizi alternativi – sopprimendo gli intercity, rallentando i regionali e così via – in modo da spingere la gente a usare l’AV non perché gli serva o valga il prezzo, ma per mancanza di alternative diverse da un carro bestiame.

L’ultima grande novità è la crisi: è ormai chiaro che siamo davanti a una crisi strutturale, in cui il modello di crescita basato sul costruire infrastrutture sempre più enormi per spostare arance da Palermo a Bruxelles non regge più; e incidentalmente il nostro Stato non ha più una lira. Possibile che in questa situazione non ci sia un modo più utile di spendere 9,4 miliardi di euro? Davanti alla gente in cassa integrazione e ai servizi sociali che chiudono, questo è davvero un investimento che ha senso, di quelli non rimandabili perché comunque necessari?

Per ora, mi pare di no; e in effetti dai governi italiani che spingono per l’opera, a parte deridere chi si oppone come “antistorico”, “ignorante”, “egoista” o “antidemocratico”, non è che in questi anni siano giunte grandi argomentazioni. E’ facile farsi affascinare dalla modernità, pensare che ciò che è nuovo, veloce, luccicante sia ipso facto buono e utile. Forse però questi ultimi mesi ci hanno insegnato che della modernità a tutti i costi è bene diffidare, specie se è gestita per interesse privato. Con un’altra classe dirigente in Italia, questa è una infrastruttura che si potrebbe anche considerare; così, invece, fa soltanto paura.

[tags]susa, tav, no tav, infrastrutture, trasporti, treni, fiat, impregilo, è tutto un magna magna[/tags]

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giovedì 4 Dicembre 2008, 19:42

E’ finito il sapone

Dall’esterno, non è facile capire come vada veramente interpretata la vicenda De Magistris: certo, conoscendo l’Italia, è difficile non pensare a un giudice coraggioso che indaga su gravi episodi che coinvolgono l’allora ministro della Giustizia Mastella (e l’attuale vicepresidente del CSM Mancino), e che viene prima privato dell’indagine dai suoi stessi superiori e poi trasferito d’autorità, anche se certo il codazzo di apparizioni televisive e santificazioni di piazza non è sembrato molto appropriato a un magistrato.

Questa seconda puntata, però, è ancora più preoccupante: perché la procura di Salerno apre un’indagine per appurare se il colpo d’autorità che sottrasse l’inchiesta a De Magistris sia stato legale, con tanto di perquisizioni alla procura di Catanzaro; e questa non è una novità, l’abbiamo visto accadere negli anni di Mani Pulite, quando si scoprì che c’erano anche dei giudici corrotti.

La novità, però, è la reazione: la procura di Catanzaro denuncia a sua volta i magistrati di Salerno, e per bloccare l’inchiesta salernitana interviene non più Mastella – che nel frattempo è stato politicamente fatto fuori, ma solo per finta, avendo poi subito piazzato un proprio fido nientemeno che alla Commissione di Vigilanza RAI, facendoli fessi tutti – ma addirittura il presidente Napolitano.

Certo, il decisionismo di un Presidente solitamente cauto anche di fronte alle monnezze giuridiche berlusconiane sorprende un po’, ma la situazione è indubbiamente grave: perché, come dicevo all’inizio, dall’esterno è difficile giudicare, ma si ha la sensazione che questa tra procure sia una lotta radicale e profonda, come se esse rispondessero a diritti diversi, a Stati diversi, e a valori diversi.

Effettivamente, è come se lo Stato si stesse dividendo: di qui chi è ancora attaccato alla legalità e ne vede in Italia la continua e preoccupante erosione, di là chi invece vede nelle azioni della magistratura un complotto contro la politica ogni volta che la riguardano. In questo, è come se Napolitano – persona di grande levatura, ma anche amico e conterraneo di Mancino e di Mastella – avesse voluto lanciare un messaggio: badate bene, una volta ci avete colto di sorpresa, ma Mani Pulite non si ripeterà più; il ricambio della classe politica corrotta spetta alla politica e non alla magistratura; chi è stato eletto dalla gente, anche se forse ha commesso reati, comunque governerà.

Il problema è se nel frattempo l’immoralità e l’impunità dei politici continua, e, parate le inchieste, il rinnovamento non avviene mai.

[tags]italia, giustizia, de magistris, napolitano, inchieste, mani pulite[/tags]

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lunedì 1 Dicembre 2008, 19:28

Binari uccisi

Si parla spesso, in televisione e sui giornali, delle ferrovie italiane, e se ne parla sempre male: per lo sfascio dei servizi pendolari e per gli sprechi della TAV. Ma il vero problema è un altro, cioè il presentare la ferrovia come un relitto mal sopportato, come un qualcosa che s’ha da tenere in piedi a forza per quei pochi pezzenti che ancora la usano, e che sarebbero addirittura dei privilegiati: l’altra sera in televisione c’era uno che urlava che i pendolari pagano poco i loro biglietti (e questo è oggettivo: Trenitalia & c. vengono pagati troppo poco per poter offrire un servizio decente, anche se ci mettono poi moltissimo del loro per peggiorarlo) e che devono ringraziare quelli che si spostano in automobile che pagano le tasse con cui si sovvenzionano le ferrovie… come se la collettività non spendesse ogni anno cifre incomparabilmente più alte per costruire nuove strade, combattere l’inquinamento da gas di scarico e curare migliaia di vittime di incidenti stradali.

La ferrovia, al contrario, è un mezzo che in nazioni dense come l’Italia avrebbe potenzialmente un ruolo enorme: dovunque ci siano da spostare grandi quantità di persone su tragitti comuni, il treno è la soluzione migliore da qualsiasi punto la si guardi. Certo però che la cosa non funziona se l’unico interesse riposto dalla classe dirigente italiana per le ferrovie sta nel costruire opere faraoniche e totalmente ingiustificate, partendo dal paradigma che la ferrovia può esistere solo se va in galleria per decine di chilometri o se viene murata e rinchiusa dentro orrendi e costosissimi pannelli fonoassorbenti. L’unico interesse è mangiarci sopra, scegliendo regolarmente di fare poche grandi opere molto costose invece che tanti piccoli interventi utili; tanto è vero che appena i cosiddetti “rami secchi” passano da Trenitalia a un ente locale che ci tiene davvero rifioriscono alla grande, come la ferrovia Merano-Malles.

Nel frattempo, si rende sempre più difficile prendere il treno, per esempio tagliando e rallentando i servizi a buon prezzo come gli interregionali (dove la ferrovia però, potendo trasportare mille persone a botta, farebbe lo stesso buoni ricavi e toglierebbe centinaia di auto dalla strada) per spingere treni “veloci” che costano il triplo per risparmiare dieci minuti, e che ovviamente viaggiano vuoti; dopodiché, visto che i treni viaggiano vuoti, si conclude che la ferrovia non serve e la si taglia ancora. Oppure complicando le tariffe, prevedendo la necessità di prenotare e di sapere prima che treno prenderai, confondendo i potenziali clienti.

Se siete interessati a capirne di più, vi rimando a questa bella analisi sul sito di Giorgio Stagni, un grande appassionato, nonché una delle persone che stanno dietro alle linee S milanesi; è molto dettagliata, ma se avete soltanto un minuto vale almeno la pena di passare direttamente alla seconda pagina e di guardare le foto degli sprechi, concludendo con la stazione a un solo binario dove si spendono soldi per i cartelli “binario 1” e con la grande idea di sostituire i vecchi cubi di plastica con la lettera A – quelli che indicano la posizione delle carrozze sui binari lunghi – con degli schermi al plasma permanentemente accesi su una schermata fissa che raffigura la lettera A.

Quello che volevo segnalarvi, però, è questo thread sul forum di Ferrovie.it: è dedicato alla defunta stazione di Piena, sulla Cuneo-Ventimiglia, e contiene alcune foto incredibili. La linea del Tenda, costruita tra il 1900 e il 1930, è uno dei capolavori dell’ingegneria europea; qui, per un paesino di poche anime, avevano costruito un muraglione artificiale con le fondamenta nel fiume, la strada al primo livello, e sopra la strada un pianoro artificiale su cui era stata costruito il palazzo della stazione. Con la guerra, la linea fu distrutta dai tedeschi e in più Piena passò alla Francia; dal 1945 la stazione è abbandonata, un malinconico monumento alla Storia. Eppure, pensate quanto era importante la ferrovia allora, pure in un’era già di automobili.

Se poi vi piace, c’è anche un lungo thread sulla vecchia ferrovia del Ponente ligure: uno degli esempi di come trasformare un mezzo di trasporto che magari disturbava, ma portava vita e persone in tutta una regione attraverso scenari mozzafiato, in un lungo tunnel anonimo. Da Torino al Ponente in treno non ci va più nessuno; non ci sono più treni diretti, e molti paesi non hanno più nemmeno la stazione. D’altra parte, insieme con la ferrovia dalla costa ligure sono spariti l’aria e la pace, c’è soltanto più cemento, traffico, rumore e puzza di automobili ovunque. Sarà per questo che ormai da Torino molti prendono un aereo e vanno a Sharm: spesso, costa meno e ci mette meno del treno per Loano.

[tags]ferrovia, treni, trasporti, torino, tenda, piena, liguria[/tags]

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