Mi sembrava un peccato venire su queste montagne senza vederne nemmeno una; così oggi, lasciando il resto del gruppo a casa a giocare a pinnacola o alla Playstation, dopo pranzo ho preso la macchina e mi sono arrampicato su per l’altopiano, avendo come meta il monte Ortigara.
Anche solo giungere all’inizio del sentiero è un’avventura; da Gallio si prende una strada stretta e ripida che sale fino ad una valle, in cui si aprono gli impianti di fondo; dopo averli superati, si salgono altri tornanti in mezzo ai prati, cercando di evitare le mucche che attraversano placide la strada. Dopo una decina di chilometri, l’asfalto finisce, e si passa su una sterrata che, per quanto agevole e ben spianata, costringe ad andare a quindici all’ora per quasi una ventina di minuti. Dopodiché, ricomincia l’asfalto per gli ultimi quattro chilometri (credo che sia perchè il tratto in mezzo è in comune di Roana, che sta da tutt’altra parte e a cui di quella valle, non avendo nè le piste da fondo in basso nè i rifugi in cima, non potrebbe fregare di meno).
Insomma, dopo una mezz’oretta di paesaggi alpini si giunge ad un grande piazzale sterrato, dove si lascia la macchina. Da lì partono vari sentieri; quello per l’Ortigara è ampio e carrozzabile (anche se ovviamente chiuso a catena), ma parecchio ripido. Insomma, dopo venti minuti di rampe e di respiro affannoso si giunge infine al monte Lozze, poco sotto i duemila metri, che è il punto di partenza per visitare l’Ortigara.
Al Lozze ci sono tutte quelle cose che vi aspettereste in un medio crocicchio d’alta montagna, come il rifugio dove servono polenta e funghi, o la chiesetta con il registro dei visitatori. Ci sono, però, anche altre cose; come almeno tre generazioni di lapidi e cartelli più o meno scoloriti in memoria dei caduti dell’Ortigara; un ossario; vari resti di trincee e gallerie dell’esercito italiano; e una colonna su cui, accanto alla bandiera italiana, svetta una statua della Madonna che guarda avanti verso la montagna.
Immagino che il nome del monte Ortigara non vi suoni sconosciuto; eppure, non credo siano molti quelli che sanno esattamente perchè venga tuttora ricordato per le vie e per le piazze di mezza Italia. Qui, durante la prima guerra mondiale, passava il confine tra l’Italia e l’Austria; gli austriaci, che possedevano l’alta Valsugana, erano risaliti su per le pareti rocciose a strapiombo per installare una linea di difesa proprio in cima all’altipiano, guardando giù verso le valli italiane. Il monte Ortigara è uno dei più alti di questa linea; qui, tuttavia, gli italiani cercarono di sfondare nell’estate 1917, mandando gli alpini al massacro, senza infine riuscire nell’impresa. Tra il Lozze e le pendici dell’Ortigara si aprono un paio di chilometri di collinette, che gli alpini dovettero conquistare palmo a palmo; e poi dovettero risalire gli ultimi duecento metri di dislivello, su per il costone pieno di trincee e mitragliatrici austroungariche.
Il sentiero lascia la Vergine del Lozze, che dall’alto sovrasta il teatro della battaglia. Prosegue in mezzo a dei bassi abeti che novant’anni fa forse non c’erano, aggirando buche e trincee scavate nella roccia; qui non si sono sentiti di usare i soliti marcatori bianchi e rossi, e hanno segnato il sentiero con un bel tricolore bianco rosso e verde. L’avanzata è difficile, un continuo saliscendi tra le rocce, e viene naturale immedesimarsi in ciò che doveva essere farla sotto le pallottole o anche solo con lo zaino in spalla.
Alla fine, si arriva nel mezzo di una valle meravigliosa, coperta di verde e di fiori, e poi si risale per un crinale ripido verso la cima. La fatica è pesante, e quando ci si avvicina alla vetta spuntano altri buchi; trincee e fortificazioni austriache, questa volta. Tutto il crinale è scavato e bucato per difendere la punta della montagna.
La cima spunta all’improvviso; qualche anno dopo la battaglia, ci venne eretta una colonna mozzata come monumento. La colonna è coronata di spine, residui di filo spinato e gavette arrugginite ripescate dal carnaio di novant’anni fa. La cima è quasi piatta, rocciosa, battuta solo dal vento e dal silenzio; intorno si aprono valli e cime altrettanto rocciose ed appiattite. Una targa spiega che la vetta fu conquistata il 19 giugno 1917, e ripersa il 25 giugno. Quante vite per ciascuno dei sei giorni, non è riportato, ma ve lo dico io: a fine battaglia si contarono quasi seimila tra morti e dispersi, e oltre quindicimila feriti.
Poco più lontano, hanno installato una campana. Se volete, nel silenzio dell’altipiano la potete suonare; per ricordare le anime perse per un’idea di patria, o più prosaicamente per la leva imposta dal re. Il rintocco, portato dal vento, fa uno strano effetto; una immagine come di fantasmi. Dall’altro lato, proprio a picco sulla Valsugana, c’è il cippo degli austriaci; eretto a ricordo dell’altro e uguale lato della storia, ma, necessariamente, su una cima leggermente più bassa.
Potete attraversare qualche altra trincea, e scendere a picco per la parete retrostante, attraverso una teoria di gradini di roccia oggi protetti da un corrimano d’acciaio nero. A un certo punto, la discesa è verticale, e il sentiero sembra sbatter contro un muro; poi una freccia dipinta vi spinge nel ventre caldo della montagna, in un buco fetido e umido. Al buio, scendete gradini invisibili e bagnati, pregando di non venire inghiottiti in qualche voragine preistorica; e ne uscite sfiorando la roccia con la testa, presso una targa che ricorda come la spirale che avete disceso ospitasse per anni una manciata di mitragliatori.
Vista dal giorno d’oggi, quella fu una battaglia inutile, per conquistare un palmo di terra che oggi sta tra una distesa di barbecue e pic-nic, e un fondovalle ripieno di capannoni e superstrade. Eppure, se la seconda guerra mondiale fu quella della vergogna, del disfacimento dell’Italia tra il nazifascismo e la guerra civile, la prima guerra mondiale è il punto più alto del sentimento nazionale, il momento in cui il valore collettivo di un popolo tradizionalmente vigliacco e individualista emerse in qualche modo, grazie al sacrificio di un esercito per la prima volta nazionale.
Chiunque di noi sia nato nel Nord Italia, ma anche moltissimi nel Centro e nel Sud, ha almeno un parente morto nella Grande Guerra, spesso giovanissimo. Se non sapete di averlo, è solo perché l’avete dimenticato. Ogni tanto, allora, fa bene prendere le misure di ciò che fu soltanto qualche generazione fa, della rinfusa di metalli e brani di scarpe e baionette che giace negli ossari, e capire come in fondo, anche in un’epoca fortunatamente di pace e di fratellanza quasi globale, abbia ancora un senso riconoscersi nell’unità di una nazione; costruita e cementata col sangue.