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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


mercoledì 1 Agosto 2007, 23:09

Cincinnatemi

Non ho mai visto tante tette e tanti culi come sulle televisioni private del Veneto. Praticamente l’intera programmazione è composta da televendite di stimolatori elettrici scioglipancia, panche per addominali e pillole dimagranti, con i conseguenti zoom su parti del corpo variamente assortite, come in macelleria. In alternativa, le televisioni private venete mandano anche televendite di scarpiere o di batterie di pentole, però anche queste concluse con ardite inquadrature da vicino sulla generosa scollatura delle presentatrici. L’effetto ipnotico che da ciò deriva ci ha portato spesso a passare le mattinate – specie la pausa tra i pancake delle 11 e il pranzo di mezzogiorno – come ipnotizzati su Telealto Veneto o Retechiara.

Tutto ciò, vi assicuro, rimette decisamente in prospettiva le notizie dei telegiornali dell’estate, da Gustavo Selva che, nella crisi interiore che lo ha portato a ritirare le proprie dimissioni su richiesta del popolo, scopre per conseguenza che la sua vera anima sta in Forza Italia, a Cesare Previti che si dimette da uomo innocente, visto che ormai quale onesto cittadino che si occupi di politica non ha una condanna penale sulle spalle?

Ma in fondo, finché ci saranno i culi vibranti delle televendite (e le figlie giovani dei ristoratori della zona) a fornirci argomenti di conversazione tra una bottiglia di vino e mezzo chilo di polenta, la vita potrà proseguire in modo ruspante, lontano dalla corruzione e dal degrado morale della grande città. Evviva la semplicità!

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sabato 28 Luglio 2007, 23:49

Ortigara

Mi sembrava un peccato venire su queste montagne senza vederne nemmeno una; così oggi, lasciando il resto del gruppo a casa a giocare a pinnacola o alla Playstation, dopo pranzo ho preso la macchina e mi sono arrampicato su per l’altopiano, avendo come meta il monte Ortigara.

Anche solo giungere all’inizio del sentiero è un’avventura; da Gallio si prende una strada stretta e ripida che sale fino ad una valle, in cui si aprono gli impianti di fondo; dopo averli superati, si salgono altri tornanti in mezzo ai prati, cercando di evitare le mucche che attraversano placide la strada. Dopo una decina di chilometri, l’asfalto finisce, e si passa su una sterrata che, per quanto agevole e ben spianata, costringe ad andare a quindici all’ora per quasi una ventina di minuti. Dopodiché, ricomincia l’asfalto per gli ultimi quattro chilometri (credo che sia perchè il tratto in mezzo è in comune di Roana, che sta da tutt’altra parte e a cui di quella valle, non avendo nè le piste da fondo in basso nè i rifugi in cima, non potrebbe fregare di meno).

Insomma, dopo una mezz’oretta di paesaggi alpini si giunge ad un grande piazzale sterrato, dove si lascia la macchina. Da lì partono vari sentieri; quello per l’Ortigara è ampio e carrozzabile (anche se ovviamente chiuso a catena), ma parecchio ripido. Insomma, dopo venti minuti di rampe e di respiro affannoso si giunge infine al monte Lozze, poco sotto i duemila metri, che è il punto di partenza per visitare l’Ortigara.

Al Lozze ci sono tutte quelle cose che vi aspettereste in un medio crocicchio d’alta montagna, come il rifugio dove servono polenta e funghi, o la chiesetta con il registro dei visitatori. Ci sono, però, anche altre cose; come almeno tre generazioni di lapidi e cartelli più o meno scoloriti in memoria dei caduti dell’Ortigara; un ossario; vari resti di trincee e gallerie dell’esercito italiano; e una colonna su cui, accanto alla bandiera italiana, svetta una statua della Madonna che guarda avanti verso la montagna.

Immagino che il nome del monte Ortigara non vi suoni sconosciuto; eppure, non credo siano molti quelli che sanno esattamente perchè venga tuttora ricordato per le vie e per le piazze di mezza Italia. Qui, durante la prima guerra mondiale, passava il confine tra l’Italia e l’Austria; gli austriaci, che possedevano l’alta Valsugana, erano risaliti su per le pareti rocciose a strapiombo per installare una linea di difesa proprio in cima all’altipiano, guardando giù verso le valli italiane. Il monte Ortigara è uno dei più alti di questa linea; qui, tuttavia, gli italiani cercarono di sfondare nell’estate 1917, mandando gli alpini al massacro, senza infine riuscire nell’impresa. Tra il Lozze e le pendici dell’Ortigara si aprono un paio di chilometri di collinette, che gli alpini dovettero conquistare palmo a palmo; e poi dovettero risalire gli ultimi duecento metri di dislivello, su per il costone pieno di trincee e mitragliatrici austroungariche.

Il sentiero lascia la Vergine del Lozze, che dall’alto sovrasta il teatro della battaglia. Prosegue in mezzo a dei bassi abeti che novant’anni fa forse non c’erano, aggirando buche e trincee scavate nella roccia; qui non si sono sentiti di usare i soliti marcatori bianchi e rossi, e hanno segnato il sentiero con un bel tricolore bianco rosso e verde. L’avanzata è difficile, un continuo saliscendi tra le rocce, e viene naturale immedesimarsi in ciò che doveva essere farla sotto le pallottole o anche solo con lo zaino in spalla.

Alla fine, si arriva nel mezzo di una valle meravigliosa, coperta di verde e di fiori, e poi si risale per un crinale ripido verso la cima. La fatica è pesante, e quando ci si avvicina alla vetta spuntano altri buchi; trincee e fortificazioni austriache, questa volta. Tutto il crinale è scavato e bucato per difendere la punta della montagna.

La cima spunta all’improvviso; qualche anno dopo la battaglia, ci venne eretta una colonna mozzata come monumento. La colonna è coronata di spine, residui di filo spinato e gavette arrugginite ripescate dal carnaio di novant’anni fa. La cima è quasi piatta, rocciosa, battuta solo dal vento e dal silenzio; intorno si aprono valli e cime altrettanto rocciose ed appiattite. Una targa spiega che la vetta fu conquistata il 19 giugno 1917, e ripersa il 25 giugno. Quante vite per ciascuno dei sei giorni, non è riportato, ma ve lo dico io: a fine battaglia si contarono quasi seimila tra morti e dispersi, e oltre quindicimila feriti.

Poco più lontano, hanno installato una campana. Se volete, nel silenzio dell’altipiano la potete suonare; per ricordare le anime perse per un’idea di patria, o più prosaicamente per la leva imposta dal re. Il rintocco, portato dal vento, fa uno strano effetto; una immagine come di fantasmi. Dall’altro lato, proprio a picco sulla Valsugana, c’è il cippo degli austriaci; eretto a ricordo dell’altro e uguale lato della storia, ma, necessariamente, su una cima leggermente più bassa.

Potete attraversare qualche altra trincea, e scendere a picco per la parete retrostante, attraverso una teoria di gradini di roccia oggi protetti da un corrimano d’acciaio nero. A un certo punto, la discesa è verticale, e il sentiero sembra sbatter contro un muro; poi una freccia dipinta vi spinge nel ventre caldo della montagna, in un buco fetido e umido. Al buio, scendete gradini invisibili e bagnati, pregando di non venire inghiottiti in qualche voragine preistorica; e ne uscite sfiorando la roccia con la testa, presso una targa che ricorda come la spirale che avete disceso ospitasse per anni una manciata di mitragliatori.

Vista dal giorno d’oggi, quella fu una battaglia inutile, per conquistare un palmo di terra che oggi sta tra una distesa di barbecue e pic-nic, e un fondovalle ripieno di capannoni e superstrade. Eppure, se la seconda guerra mondiale fu quella della vergogna, del disfacimento dell’Italia tra il nazifascismo e la guerra civile, la prima guerra mondiale è il punto più alto del sentimento nazionale, il momento in cui il valore collettivo di un popolo tradizionalmente vigliacco e individualista emerse in qualche modo, grazie al sacrificio di un esercito per la prima volta nazionale.

Chiunque di noi sia nato nel Nord Italia, ma anche moltissimi nel Centro e nel Sud, ha almeno un parente morto nella Grande Guerra, spesso giovanissimo. Se non sapete di averlo, è solo perché l’avete dimenticato. Ogni tanto, allora, fa bene prendere le misure di ciò che fu soltanto qualche generazione fa, della rinfusa di metalli e brani di scarpe e baionette che giace negli ossari, e capire come in fondo, anche in un’epoca fortunatamente di pace e di fratellanza quasi globale, abbia ancora un senso riconoscersi nell’unità di una nazione; costruita e cementata col sangue.

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martedì 10 Luglio 2007, 14:22

Litigare da adulti

Ho cercato duramente di non parlare di questa storia; alla fine, però, non ci sono riuscito, visto che dopo una settimana continua ad essere su tutti i giornali.

Mi riferisco al giovanissimo (in termini italiani, visto che ha 31 anni) rampollo della famiglia che possedeva la De Agostini, Achille Boroli, che una settimana fa è finito sulle prime pagine per un tentato rapimento: stando al suo racconto, tornando a casa dal lavoro all’ora di cena, sarebbe stato inseguito in autostrada da Milano a Novara, quindi speronato al casello per fermarlo; sarebbe poi riuscito a fuggire soltanto grazie alle sue grandi capacità di guida al volante del suo macchinone.

Naturalmente, la storia non aveva granché convinto la magistratura: è difficile immaginare che una banda di rapitori, per quanto maldestra, possa scegliere come luogo del rapimento il casello autostradale di Novara Est all’ora di punta, con decine di auto ferme in coda, e una telecamera ogni centimetro quadrato.

E così, proprio grazie alle telecamere, è stata rintracciata l’auto dei presunti rapitori, che si sono rivelati essere due elettricisti del novarese. Essi hanno prontamente rilasciato interviste a ogni giornale e telegiornale d’Italia per raccontare la propria versione; che pare, onestamente, un po’ più credibile. Secondo loro, mentre in mezzo al traffico quasi cittadino della Milano – Torino sorpassavano un camion con il loro furgoncino, Boroli – bloccato dietro col suo macchinone – non avrebbe gradito, e avrebbe cominciato a fare fari prima e gestacci poi, sfrecciando via. Dopodichè, arrivati al casello di Novara, i due elettricisti hanno ritrovato quell’auto, bloccata nella corsia del Telepass perchè non riusciva a farlo funzionare; così, l’hanno aspettato subito dopo il casello per dirgliene quattro. L’altro, senza scendere, avrebbe ripetuto i gestacci di scherno, provocando risposte adeguate, e poi sarebbe scappato con manovre spericolate nel traffico.

Ora, non sapremo mai chi ha fatto cosa veramente; pare chiaro però che questa è stata una classica lite da traffico portata un po’ troppo avanti, certo non un tentato rapimento. Sarebbe sembrato meglio a tutti stendere un velo pietoso e piantarla lì, insomma.

E invece no: perchè ieri mi son dovuto sorbire il Boroli, intervistato dal TG5, che raccontava con faccia compunta che “comunque quei due mi hanno fatto tanta paura”, allo stesso tempo negando di aver mai parlato di rapimento (dar la colpa ai giornali non fa mai male).

Anche io sono uno di quegli automobilisti che ogni tanto, davanti a uno che si addormenta nel traffico o che fa una manovra vietata o pericolosa, fanno i fari. In genere finisce lì, ma una decina di anni fa quello davanti – un tizio strafatto dei suburbi grugliaschesi – cercò di buttarmi giù a portellate dal cavalcavia di Collegno; la cosa terminò solo per il pronto intervento di un carabiniere che passava di lì. Il punto, però, è che se lo fai devi essere pronto ad assumertene le conseguenze; se poi ci si mena, perlomeno è il caso di prendersi le proprie legnate con dignità, oppure, se non ci si vuol far male, di porgere il collo senza dignità, come i lupi sconfitti nel combattimento (che poi è quello che farei io, che certo non mi vado a menare).

Invece, fare i fari, poi scappare se l’altro reagisce, e poi chiamare la mampolizia e pretendere di avere ragione è un comportamento veramente triste. Ricorda gli ultras di una certa squadra di calcio bianconera nel loro leggendario scontro con i tifosi del Genoa (Monza, 2005), con tanto di video: per i primi due minuti marciano spavaldi con le mazze in mano, a provocare gli avversari; per il resto del video scappano a gambe levate prendendosi mazzate a ripetizione. Ma almeno non hanno chiamato la polizia.

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martedì 29 Maggio 2007, 15:42

Scelte rovinosamente sbagliate

Come arrivare a casa con il cielo grigio, e pensare: “Ma sì, non ho voglia di mettere la macchina in garage, lasciamola fuori che tanto è sporca, così la pioggia la pulisce un po’…”

Dieci minuti dopo, comincia a grandinare.

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giovedì 17 Maggio 2007, 23:54

Il navigar m’è dolce

Ecco, non so bene come sia successo, ma questa è diventata una di quelle serate in cui mi perdo davanti all’oceano infinito della rete e non ne esco più.

Tutto è cominciato dal fatto che Tori Amos ha fatto un nuovo disco, American Doll Posse; me ne sono accorto perchè a San Francisco c’era della pubblicità, per quanto discreta. Tori è sempre stata inconoscibile, ma in questo disco ha raggiunto vertici di sincretismo ermetico alla Ceronetti – leggere qui per credere. In questa unione di miti greci e lotte anti-Bush, la canzone che ho sentito oggi su Radio FlashThe Dark Side Of The Sun – mi ha colpito nonostante la sua cupezza, un po’ come Cornflake Girl (e vabbe’, le star mature ripetono un po’ i vecchi hit) ma più oscura (il testo è riportato sotto).

Per motivi che non sto qui a raccontare, sono quindi finito ad aprire un account su Tagworld e a cercare un avatar alternativo… e di lì a guardare vecchie foto… e insomma, è venuto fuori anche l’album fotografico di !me (anche se in una foto mi si vede).

Nel frattempo, renitente alla buona creanza, ho deciso che la solita versione dalla qualità troppo scarsa per fare concorrenza al mulCD si può anche mettere, così poi vi andate a scariccomprare il disco, che a me le ipocrisie non piacciono. Il testo, sotto – ma non è che poi dovrei anche postare traduzioni e spiegazioni, vero?

Audio clip: Adobe Flash Player (version 9 or above) is required to play this audio clip. Download the latest version here. You also need to have JavaScript enabled in your browser.

Is there a way out of this?
If there is I don’t see it
Can Heaven and Hell coexist?
Not when both battle for dominance

Brush back my tears and he said “girl
We have to soldier on
Yes girl even when we don’t feel strong”
So how many young men have to lay down
Their life and their love of their woman
For some sick promise of a heaven

Lies go back now to the garden
Even the four horses say all bets are off

We’re on the dark side of the sun
We’re on the dark side of the sun
We’re on the dark side of the sun

Soon there’ll be fast food on the moon
Painted in neon with For Sale signs up
You say “I’m more afraid of what
Tomorrow could bring to us”

Brushed back my tears and he said “girl
You have to soldier on
Yes girl even when you don’t feel strong”

So how many young men have to lay down
Their life and their love of their woman
For some sick promise of a heaven

Bushes burn there on the mountain
Abraham and Ishmael turn back the clock

We’re on the dark side of the sun
We’re on the dark side of the sun
We’re on the dark side of the sun

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venerdì 4 Maggio 2007, 19:47

Quattro maggio

Quasi tutti gli anni, a Torino il quattro maggio piove. Succede persino in quest’anno di siccità globale: quattro mesi di deserto, e poi tac, arriva il quattro maggio e sembra novembre: una giornata di tregenda, con l’acqua che viene a rovesci, i tombini che saltano, il traffico che impazzisce tra alberi caduti, giovani tamponati e vecchie zie inchiodate a trenta all’ora sui viali, nella loro uscita in macchina annuale.

C’era stata, è vero, l’eccezione dell’anno scorso, con una splendida grigliata al Filadelfia, le partite di calcio dei bambinetti, la sfilata dei giocatori, il concerto conclusivo. Ma il 2006 era un anno speciale. Questo, invece, è un anno qualsiasi; uno di quegli anni in cui le cose vanno un po’ bene e un po’ male, e poi arriva il quattro maggio e piove.

Piove come pioveva nel grigio e nella nebbia del 1949 stremato di post-guerra, il giorno della tragedia di Superga (the Superga air disaster). Un giorno che riguarda il calcio solo superficialmente; perché il disastro vero e incredibile è il simbolo dell’unità della vita e della morte, della basilare imperscrutabilità della vita umana.

Se non le avete mai viste, prendetevi il tempo di guardare le immagini di quella storia, quei rottami lì, a un metro, distrutti ma non disintegrati, talvolta beffardamente interi; quel funerale impossibile, con più gente di quanta il centro di Torino ne abbia mai potuta contenere, le persone ridotte a pallini che si affacciano schiacciati ed impazziti, straripanti da ogni angolo e finestra e buco disponibile; e quegli stadi così diversi, pieni di umanità, del sangue e del vino a cui testardamente, contro ogni logica ed ogni evidenza, il tifoso del Toro rimane attaccato.

I tempi sono cambiati, e si vede; per gli altri, il ricordo è sbiadito. Certo, c’è qualcosa di cocciuto e di perdente, nel rimanere attaccati a un fatto diventato leggenda e forse mito, nel cercare nel pallone volgare e sguaiato di oggi una conseguenza qualsiasi di quello di un tempo. C’è, però, che il gioco è la rappresentazione della realtà, e il calcio è un condensato della vita.

Nelle partite del Toro – ormai siamo abituati – le cose vanno un po’ bene e un po’ male, e poi, alla fine, di solito piove; ma non fa niente, perché l’importante non era stare al caldo. Quando in terra comincia a piovere, il Toro ha già vinto; perché l’importante è esserci sempre, nonostante la pioggia.

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martedì 10 Aprile 2007, 14:33

L’universo e tutto quanto

Ehi! Cosa sono quelle facce scure? Oggi c’è troppa gente in giro a cui sembra che sia morto il gatto, se non un genitore; poi gli parli, e scopri che sono depressi perchè è morto un interprete afgano. Di cui peraltro, fino a due settimane fa, non avevano mai sentito parlare; e di cui a tutt’oggi, generalmente, non hanno mai nemmeno visto la faccia.

Se il rispetto per la morte di chiunque non si discute, così come l’evidenza della farsa – in cui era importante liberare il buana bianco, specie visto che scrive in prima su un giornale amico, e degli altri chi se ne frega -, è altrettanto vero che questa sorta di isterie collettive, istigate dai media e cavalcate dalla politica, diventano sempre più frequenti. Probabilmente, per tollerare il cinismo di base che ci impone la società moderna – quello che ci permette di ignorare, se non insultare, il lavavetri al semaforo e i bambini romeni che chiedono l’elemosina per strada – è necessario ogni tanto fare della beneficenza immaginaria, commuovendosi tanto per un perfetto estraneo, meglio se straniero e dal nome impronunciabile.

Perchè, a ben vedere, se proprio ce ne fregasse qualcosa di rapimenti, potremmo cominciare ad occuparci di Titti Pinna, rapito da sei mesi nel silenzio generale, in pieno territorio italiano. Ma lui è un allevatore sardo e non è trendy, non è sceso in piazza nemmeno Dario Fo che in piazza ormai ci vive, in Sardegna si muore soltanto negli ordinari ospedali della malasanità italiana – altro che Gino Strada – e non ci i sono carri armati americani di mezzo; e di sicuro non vedremo Prodi davanti alle telecamere in una domenica pomeriggio, con la faccia scazzata di chi stava seduto sul cesso a leggere Topolino in santa pace ed ha dovuto rivestirsi di corsa, a lamentarsi cinque secondi per la sua morte e cinquantacinque per l’indegna strumentalizzazione realizzata da questa opposizione vergognosa (con simmetriche risposte da parte dell’opposizione).

Breaking news: la gente muore. Anche a Pasqua. Anche per mano di altri esseri umani. Non c’è bisogno di andare fino in Afghanistan per scoprirlo. Chi non è in grado di accettare con serenità questo semplice fatto, forse ha qualche problema di rapporto con l’universo e tutto quanto.

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domenica 8 Aprile 2007, 08:51

Buona Pasqua

In genere a Pasqua, come ben sanno i due punto cinque lettori del mio blog, faccio un post di quelli millenaristici, a proposito della resurrezione. Quest’anno però mi sento meno filosofo del solito, e ho semplicemente voglia di uscire e godermi il sole. Il che poi è, appunto, la base della primavera e della resurrezione.

E quindi, su, anche voi: andate fuori a danzare sull’erba e impollinare i fiori!

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martedì 20 Marzo 2007, 14:49

Pranzo al sole (2)

Anche oggi sono andato a pranzare con la pizza di Angelo. A dire il vero non c’era il sole, ma c’era invece una torma di bambinetti che arrivavano dal vicino Politecnico, principalmente ingegneri mescolati a qualche architetto (si riconoscono dal tubo a tracolla).

Che emozione! Mi ha ricordato come ero io all’epoca: pieno di brufoli… incapace di spiccicar parola e di sollevare lo sguardo dal pavimento… in crisi esistenziale per interi minuti, con tanto di conciliaboli di gruppo, su dubbi fondamentali come scegliere tra la pizza pancetta e piselli e quella salsiccia e patatine… intento a complessi calcoli trigonometrici per concludere che, finite tutte le compensazioni, dovevo 35 centesimi di euro (all’epoca erano 300 lire) al mio vicino… e naturalmente, intento a parlar di donne con la competenza e la credibilità di un africano che parla di sci.

Qualcosetta di tutto ciò potrebbe ancora applicarsi, però è bello accorgersi di essere cresciuti.

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sabato 17 Marzo 2007, 20:39

Reazioni

A Moncalieri, lui, sedotto e poi abbandonato da una estetista in favore del palestrato e carrierissimo manager della palestra Virgin, si è presentato davanti alla coppia per strada, con una pistola: ucciso il rivale, si è poi suicidato davanti a lei.

A Fucecchio, lei, abbandonata dal marito, riempie di psicofarmaci se stessa e la bambina di quattro anni, poi scappa a cercare aiuto; peccato che la dose che per un adulto è da tentato suicidio, per un bambino sia quasi certamente letale.

Anche se ogni persona reagisce in modo peculiare ed è difficile fare categorie, è interessante notare quanto diversa sia solitamente la risposta di genere alla disperazione da abbandono (quella che, sottintendendo il mancato raggiungimento dello stato di adulto, differisce dalla tristezza da abbandono per l’incapacità di continuare a vivere): tanto sanguinosa, finale e vendicativa quella del maschio, quanto silenziosa, dubbiosa e autodiretta quella della donna.

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